domenica, dicembre 17, 2006

Lomograficamente scrivendo

Chiara ci ha versato un bicchiere di vino rosso e ci ha invitato a sederci nella sala dei sensi. Siamo entrati con cautela, palpando con un certo disagio il folto pelo che copriva il pavimento. Poi ci siamo seduti: chi all’ingresso, sul freddo marmo; chi di lato, su una puffosa poltroncina; e io al centro, in mezzo a una pila di cuscini. Ho sniffato un po’ di noce moscata, un leggero tiro di cumino e una bella nasata di cannella. Poi mi sono lasciato andare all’indietro, ho guardato all’insù, e ho fotografato con la mente la volta dipinta, mentre un sibilo di flash continuava a riecheggiare tra le orecchie. Ah, le lomopercezioni… Finalmente!


Solo il giorno prima avevo scoperto le lomografie
. Stavo salendo su per la strada di Monte Gemelli, quando Enrico mi ha parlato di quelle strane macchine ideate in Russia. Stroboscopiche, multiscatto, fish eye. Aggeggi piccoli, da borsa, che non hanno nulla di naturale e non producono nulla di naturale. Sono ancora rigorosamente a pellicola e tendono a maltrattarla, imprimendole sopra una realtà post moderna con bordate di colore, cascate di luce e linee distorte. “Sono belli i lomowall”, mi ha detto Enrico, descrivendomi pareti piene di piccole lomografie, tutte accatastate su una parete.

Mentre bevevo vino, sniffavo cannella e ascoltavo il sibilo del flash seduto su un tappeto peloso ero appunto di fronte alle prime lomopercezioni della mia vita. Le hanno appese a Forlì le tre donne di 10/10, lomografiche dai primi giorni di quest’autunno. Hanno lomografato un po’ di tutto in giro per la città – dai cani ai ciclisti – e poi hanno appeso le loro lomocreazioni alle pareti del vecchio oratorio che appare di fronte all’Osteria nascosta in pieno centro.

Lomograficamente scrivendo, è davvero tutto qui. O forse no, no davvero. No, ci sono ancora i lomofans. Ecco qua, le loro letterine, piene davvero di strane, poetiche, paroline:

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Ciao a tutti ,

per quanto riguarda il 17 dicembre,non so ,in pratica cioè devo non sto tanto sì però dovrei anche perchè il giorno dopo è meglio prima sono allergico al caviale poi una settimana prima Schumi ha perso il mondiale perchè Prodi non ho un abbigliamento consono il ritiro delle truppe dall'Iraq sono sotto antibiotici è che mia nonna proprio sono spossato ho dormito due ore una settimana fà mi fanno male le scarpe guarda ieri ho avuto una giornata sono debole di vescica,

insomma,penso di esserci senza grossi problemi.

Edo

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Auguri belli, sempre quelli
Auguri densi a chi resiste e pensi
che ci son cose più felici, Auguri amici.

Auguri tersi, Auguri persi,
Auguri versi da leggere adesso, Auguri spesso.
Auguri molti a chi li han tolti, Auguri forti.

Al mondo, chi lo cambia, lo salvi e lo curi
Auguri duri e puri,
Auguri interi, auguri veri.

Auguri inerti, Auguri aperti
alla voglia di cambiare,
Auguri d’acqua, che ce n’è poca, Auguri mare.

Auguri gatti, per dire gl’inni
e per cantare, come i matti.

Auguri treni e Auguri pieni.
Auguri torti, che qualcuno li porti
alle nostre case, in una frase, da ricordare.

Auguri e fasti per restar desti, restare svegli
Auguri ai figli che arriveranno, che nasceranno
Auguri tutto l’anno,non solo ora, Auguri ancora.

Auguri banali, tali e quali,
Auguri soli, Auguri netti e auguri detti,
per non restare qui, così stretti.

Nei giorni neri, Auguri seri.

Auguri cielo che ci proteggi,
Auguri greggi e quindi schietti,
Auguri ai letti che dormiremo, che rifaremo, Auguri almeno.

Auguri facili, auguri esatti
per sognar tutte le notti,Auguri rotti,
Auguri fatti e Auguri cotti.

A tutti noi che andiamo avanti
Auguri.
Tanti.


Enrico

venerdì, dicembre 01, 2006

1998, odissea con la vecchia puttana

“Ma lo sai che mi sono sparato pure un Natale con una puttana. Ma dalla disperazione”.
Antonio non nasconde lo sconforto. “Era pure andata con l’età”, dice ricordando quel solitario Natale bolognese del 1998. “Non c’era un cane, oh. Era come d’estate. Sai, io sono rimasto qui pure qualche estate per studiare. Non c’era davvero nessuno, ma dico nessuno. Quando scendevo in via Indipendenza, mi scoppiavano le tempie dal caldo e guardavo all’orizzonte come un marinaio per vedere in mezzo alla luce un puntino piccolo piccolo, che forse era un persona a passeggio per via Matteotti”.
“Che tristezza”, ripete ancora.

Poi si versa un po’ di vino. “Buono”, commenta. “E’ come quando ci troviamo col mio cognato in Calabria. Accendiamo il camino e ci inciucchiamo”.
Il ricordo di casa basta per ritrovare il sorriso e dimenticare il triste e precarissimo lavoro notturno nei magazzini della posta. Beve ancora e pensa alla collega che gli piace. Infine si sbarazza dei suoi trentanove anni e ripensa al Natale del 1998 trascorso con la vecchia puttana.

“Lei avrà avuto settant’anni, ma era ben fatta, sai. Aveva le calze a rete pure. Credimi, Silvio, era proprio ben conservata”.
Mi faccio un goccio anch’io per fare compagnia. Rido un po’, ma lui prosegue.
“Reggicalze? La Lella lo diceva sempre. Era la sua frase per attirare i clienti. Stava sul pianerottolo vicino a casa del mio amico. Mi disse reggicalze anche quel Natale quando non c’era nessuno, neppure il mio amico”.
“Sono entrato”, aggiunge dopo una pausa.

Non dice molto altro della sua vicenda il mio temporaneo compagno di casa. La Lella e la sua amica di via Polese, zona Pratello, sono pure morte.
Però c’è spazio per una nota in più.
“Ti metteva sul bidè e ti lavava tutto. Credimi, Silvio, solo quello valeva il prezzo. Che poi era buono: 15 mila lire. Oh, ma dico, per Natale era davvero buono: guarda che non c’erano proprio nessuno, neanche le puttane nere sui viali. Minchia, Silvio, non c’era nessuno”.

Antonio beve di nuovo.
“Però ero triste”, conclude. “Minchia, come mi sono ridotto, pensavo tra me e me”.

mercoledì, novembre 22, 2006

Quelle vecchie 8mm utilizzate ad arte (senza saperlo)

Duemila fotografie raccolte girando avanti e indietro per l’Italia e per il mondo. E poi vecchie pellicole 8mm, spesso sporche, bruciate dal tempo. “Le girarono negli anni sessanta appassionati di tecnologia dell’epoca – spiega Andrea Bernabini -. Erano pellicole che si facevano senza alcuno stile cinematografico, solo per documentazione familiare. E proprio qui sta il loro fascino”. Bernabini è il fotografo che ha raccolto tutti questi vecchi frammenti di celluloide, riportando il loro fascino d’epoca alla moderna veste digitale.

Le immagini a cui più tiene sono quelle girate da un medico di Faenza. “Si vede una corsa in bicicletta e le riprese sono evidentemente fatte da una motocicletta”. E poi c’è la pellicola del giorno di festa: “Si vedono i buoi che tirano l’aratro, le persone che raccolgono la frutta e i bambini che corrono qua e là”. E ancora ci sono immagini di altri contadini o di una Sofia Loren rubata in azione su un set cinematografico.

Ovunque domina la spontaneità delle inquadrature tranne in un caso. “C’era un musicista, piuttosto famoso negli anni sessanta, che andava in giro per l’Italia a fare concerti con le sue ocarine, fischietti in legno o in terracotta. Anche lui si comprò una 8mm e riprese la sua donna, un cuore sulla sabbia e la scritta “ti amo”. Era un artista della voce e anche nella scelta delle inquadrature si legge una volontà di ricerca”.

Dall’archivio di Andrea Bernabini, presidente dell'associazione culturale altriMENTI, proviene anche l’intervista alla vecchia contadina abruzzese che darà il via alla performance audio video ispirata al Cd Lu Rumì. Sullo sfondo ci sarà un albero: spoglio, silenzioso e immobile. E davanti all’albero una vecchia contadina abruzzese intenta a parlare. Ma la sua voce non si uscirà mai dal video e, nel silenzio di quel discorso muto, salirà la voce di Luisa Cottifogli. Lo spettacolo andrà in scena per la prima volta venerdì 1 dicembre (ore 21) alla Pieve di Filetto. Nel cuore della bassa romagnola da cui le musiche di Lu Rumì provengono.

domenica, novembre 19, 2006

Pianbaruzzoli, il relitto che sopravvive a se stesso

“Il rosmarino lo devi prendere così, non così”, dice Tocio, mostrando prima solo le dita racchiuse e poi tutto il pugno chiuso. “Dopo che l’hai preso, lo metti in infusione e, quando l’acqua è verdognola, ti bevi tutto. Se hai 39 di febbre, dopo venti minuti è già a 37”.

Tocio è uno dei figli dei fiori un po’ invecchiati che abitano a Trafossi, lungo la valle dell’Acquacheta. Porta scarponi da montagna, maglione grezzo, capelli lunghi e scompigliati. Il solito del “quartiere” insomma. E’ un po’ influenzato, ma tranquillo. Dalla sua, ha la calendula, l’aglio e il rosmarino di cui si atteggia a profondo conoscitore: “Tutto naturale, qui. Ho le mie erbe”, afferma orgoglioso una, due, tre volte.

In compagnia di Tocio, saliamo verso Pianbaruzzoli
. Paolo e Stefano hanno saputo che in questi giorni c’è di nuovo Giambardo (foto), il fondatore della comunità locale. Erano gli anni Settanta, la chiamarono “Contadini zappaterra senza padrone” e un docente universitario la descrisse come un modello sociale che poteva ripopolare i trascurati pendii appenninici della Romagna. All’epoca nella comunità vi abitavano costantemente una quindicina di persone e molte altre vi facevano pellegrinaggio allucinogeno ogni fine settimana. Tutti insieme coltivavano il sogno dell’autosufficienza.

Il sogno non decollò mai del tutto. Alcuni dei novelli contadini mangiarono le patate che avevano seminato pochi giorni prima. Altri seminarono figli qua e là. E altri ripresero la via della civiltà per tornare a scuola, al lavoro o all’ospedale. Alla fine rimasero in pochi.

Oggi sono in tre. Dei fondatori resta solo Jerry, ormai verso la sessantina. Come Giambardo, che oggi abita in Spagna, ma torna ancora a salutare il podere che è stata casa sua per vent’anni. Lo sente molto suo, si vede. Fu lui a sceglierlo. Lo vide, assieme a Jerry e Ulisse, e piano paino, occupazione dopo occupazione, lo fece suo. “Allora – racconta – i processi per occupazione si vincevano. Sì eravamo nella casa del padrone!”.

Se oggi Giambardo è di nuovo a Pianbaruzzoli è un po’ per continuare quel sogno
. L’occupazione nacque per fondare una comune e lui, oggi unico intestatario della casa, non vuole correre il rischio di lasciare in eredità la proprietà ai figli. “So già che in casi simili ci sono stati solo dei litigi”, dice. “Faremo una fondazione, siamo qui per costituirla”. Probabilmente con le persone dentro casa. Jerry, una delle sue vecchie amanti, una figlia, una nipote, un paio di compagni di media età e un attivista del Wwf, che in tempi recenti ha salvato con la regione una delle case vicine. “Perché Pianbaruzzoli era un villaggio – spiega Giambardo – ci stavano 60 persone, di tre o quattro famiglie. Oh, ma litigavano sempre! Quel pezzo di terra è mio, quello è tuo, lì ci pascola il mio porco, qua le tue pecore”.

A Pianbaruzzoli abbiamo mangiato un piatto di pastasciutta con il ragù di salsiccia, funghi “orecchioni” saltati in padella e un po’ di stufato di patate e salsicce. Poi siamo saliti a vedere i piani superiori: fino al quarto, altissimo, a più di otto metri da terra.
“Wey, ma è bella solida sta casa, eh”, ci dice Giambardo. “C’ha un muro qui e un muro qui che la tengono su. E poi gli abbiamo rifatto il tetto qui: è tutto nuovo. E poi l’abbiamo coperta di armature e l’abbiamo stuccata tutta. Oh, perché adesso non piove più, ma prima, dio bono, ma prima pioveva per un mese che ti sbatteva l’acqua sul muro e qui in basso si era allagato tutto”.

Questa sera Giambardo sarebbe già andato via. Lui tornava indietro dalla parte alta, su dall’eremo. Noi invece siamo discesi giù verso l’Acquacheta. Lì dove c’è il salto della cascata. Ne ha scritto Dante e ne parlano un po’ tutti. Ma è dall’altra parte del fiume, dove la storia è andata avanti. Sulle pendici nord, da Pianbaruzzoli, invece, il mondo si è fermato.

“E’ un relitto che sopravvive a se stesso”, ha concluso Paolo.

Giambardo torna a Pianbaruzzoli

Giambardo a Pianbaruzzoli

Pianbaruzzoli, tavolata a festa

Pianbaruzzoli, tavola apparecchiata


L'olio, il vino, la birra.
Tavola imbastita per il ritorno alla comunità di Pianbaruzzoli del fondatore Giambardo.
Sullo sfondo il cotone spagnolo che proprio Giambardo ha portato in dote ai suoi ex compagni d'avventura.

giovedì, novembre 16, 2006

Khalida Toumi: “Ecco l’Algeria che non volete vedere”

Apre ad Algeri il primo museo d’arte moderna e contemporanea. La città sarà capitale della cultura araba per il prossimo anno. A colloquio con la ministra della cultura che spiega il valore dell’iniziativa per il suo paese.
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Sono questi il titolo e l’occhiello dell’articolo pubblicato nella pagina cultura di Liberazione venerdì 10 novembre 2006.

--> Pagina 3 di Liberazione del 10/11/06 (pdf)
--> Aricolo sulla versione web di Liberazione

--> Khalida Toumi su Wikipedia (fr)
--> Khalida Toumi su Wikipedia (en)

lunedì, novembre 13, 2006

Il giallo del capezzolo assassino nel favoloso mondo del Cavalier G.

“Attenta che se parte un capezzolo ti arriva proprio in mezzo al petto!”, ha improvvisamente detto Nicola alzando la testa dal piatto e guardando Sara seduta di fronte a sé nella tavola circolare.

Non ho ben capito a cosa si riferisse, perché lì vicino c’era un preservativo di due metri a penzoloni dal tetto e sulla parete scorrevano le immagini del Minotauro contro il mostro marino, ma non c’era traccia di capezzoli. O meglio, ce ne erano molti, in bella vista nella foto di sei metri appesa sotto il soffitto, ma nessuno di quelli poteva essere pericoloso.

Non era comunque il caso di stare a fare domande nel bel mezzo del pranzo di gala. Così ho tranquillamente ripreso a mangiare. Al centro della tavola c’era una coppia di putti alati in argento che sorreggevano due candele. Da lì a raggiera diverse file di bicchieri si dipanavano fin quasi al bordo. Ho preso uno di quei bicchieri e vi ho versato un po’ di Suvignon. Un bianchetto leggero – non tra i miei preferiti – ma si sposava abbastanza bene con la ricotta e la mostarda che avevo nel piatto. Ed era discreto anche accompagnato agli altri cibi. Una lunga serie, disposta in circolo nella stanza adiacente.

Ho fatto spesso spola tra le due stanze. E da lì ho girato anche in tutte le altre ai lati del grande salone centrale. Un’installazione multimediale identificava lo studio, mentre un letto in acciaio con angioletti sulle sponde era l’evidente indizio di una camera da letto.

Tutte e tre le stanze finivano su un terrazzo con un colonnato bizantino. Fuori, il solito incrocio di vaporetti. Il traffico di turisti è sempre intenso sul Canal Grande di Venezia, anche all’ora di pranzo del 12 novembre. Forse perché il campanile di San Marco e il Ponte di Rialto, a poche decine di metri, erano finalmente in bella mostra senza impalcature a coprirne e fatture architettoniche.

Dentro intanto la tavolata si era spostata verso la sala del dessert. Un tavolo ricoperto da plexiglass colorato e levigato sorreggeva al centro della stanza crostate e creme gelato. Una cameriera tagliava le fette utilizzando un cucchiaio musicale. Una sinfonia diversa per ogni fetta, mentre lì vicino una fontana di cioccolato cullava i restanti ospiti, bagnando di lussuriosi schizzi di cioccolato le rossissime fragole servite come frutta.

Un pranzo abbondante, se si conta anche l’aperitivo al piano di sotto. Qualche cubetto di mortadella, un po’ di frittata e piccole cotolettine di pollo unite a un bicchiere di spritz. I vassoi erano tutti lussuosamente adagiati su tovaglioli griffati con le iniziali del padrone di casa: “G”. A terra, un pavimento in plexiglass sopraelevato di una ventina di centimetri lasciava correre lo sguardo alla ricostruzione di una massicciata lunga tre o quattro metri. All’angolo, una scultura ritraente una scimmia geneticamente modificata era invece il tocco di auto-ironia del padrone di casa, un impresario farmaceutico. E sul soffitto, inquieti, danzavano i riflessi del Canal Grande che scorreva lì a pochi centimetri.

Pasciuto mi sono incamminato nel buio del tardo pomeriggio verso la stazione di Santa Lucia per rientrare a Bologna. Ho intrapreso il cammino vestendo, come tutti gli altri, il cappello di natale pieno di stelline luminose, che ci era stato regalato. Prima di uscire da Villa Banzazza, al numero 1123 di un calle veneziano dal nome a me ignoto, mi sono però fermato nell’atrio per firmare il libro degli ospiti del Cavalier Marino Golinelli.

“Raramente – ho scritto – sorprende ciò da cui ti aspetti di essere sorpreso. Oggi è successo”.

lunedì, novembre 06, 2006

Gli aggiornamenti killer dei dizionari Hoepli

L’inizio della storia è un messaggio di errore. L’errore più classico per chi naviga in rete: impossibile visualizzare la pagina. La causa del messaggio, domenica 29 ottobre, non è però una pagina web, ma la versione elettronica del dizionario tecnico francese-italiano della Hoepli. Il cd-rom proprio non ne vuole sapere di funzionare. A ogni inserimento parte l’installazione di un software che però non porta buoni frutti: completato il processo infatti ogni ricerca lessicale dà il medesimo sconfortante risultato… “impossibile visualizzare la pagina”.

“Capita”, dico a mia sorella, che aveva acquistato il dizionario per settanta euro due anni fa. “Si sarà accidentalmente graffiato o smagnetizzato il cd”, aggiungo con tono fatalistico dopo aver confermato il guasto anche nel mio pc. Ma mia sorella non si rassegna e si connette al sito della casa editrice: le faq non contemplano il problema e lei scrive allora all’Help. Di ritorno nessuna risposta.

Dopo aver chiesto aiuto anche ai gestori di un cyber-café, l’unica alternativa resta il ritorno in libreria: precisamente alla Mondadori di Forlì. 120 euro per il nuovo dizionario Hoepli, libro +cd-rom. Un altro cd-rom, fisicamente parlando. Un altro cd-rom che a casa non vuole saperne di funzionare, emettendo di nuovo lo stesso sconfortante risultato alla fine di ogni ricerca: “impossibile visualizzare la pagina ”.

Con 190 euro al passivo e il silenzio della Hoepli alle spalle, mia sorella alza la cornetta per contattare l’unico tramite tra sé e la grande industria: ovvero la libreria. Questa volta una voce risponde. L’addetta ascolta il problema e fa notare che il giorno prima non aveva seguito lei la pratica. “Certo – conferma stizzita mia sorella - ho parlato con chi mi ha venduto il dizionario”. “Non ha parlato con me” ripete laconicamente la voce per telefono. “Io ve lo riporto il dizionario” annuncia ovviamente mia sorella. “Come vuole, ma sappia che non posso restituirle i soldi, solo farle un buono acquisto”.

Quell’inserviente casualmente beccata per telefono era l’unica alla libreria Mondadori di Forlì a sapere (casualmente) il fattaccio. La Hoepli aveva introdotto degli aggiornamenti e il messaggio di errore era dovuto a quelli: il cd funziona solo dopo il download delle integrazioni. Fatto di cui il cd non fa menzione, rimandando un generico messaggio di errore. Fatto di cui i librai – parola loro – non sono stati informati, e che infatti non è indicato in libreria né nelle confezioni di vendita dei dizionari, benché la necessità di aggiornamento riguardi tutti i dizionari tecnici della Hoepli. Fatto che non è segnalato in modo immediatamente visibile nel sito della Hoepli, che anzi relega a un micro link nascosto i fatidici aggiornamenti da scaricare.

Risultato. 120 euro buttati in un nuovo dizionario inutile e un cd irrecuperabile se utilizzato con un modem a 56 Kb che è incapace di scaricare senza intoppi le novità distribuite online dalla Hoepli.

Primo corollario. E’ il caso di cominciare ad acquistare i dizionari di un’altra casa editrice.

Secondo corollario. Quand’è che la banda larga si allargherà al di fuori dei grandi raccordi anulari?

venerdì, novembre 03, 2006

Quelle vecchie nenie romagnole che anticipavano la fatica della vita

Bel fiol fasì la nana
prèst ch’andeva int la scarna
prèst ch’andeva int e’ cariol
fasì la nana bel fiol
prèst ch’andeva a l’ès de pan
ch’a dvinteva un bel marcant
prèst ch’andeva in s’e marche
a vèndar e a cumpre’
(La ninan cuntènta)


Parlano di mostri che uccidono bambini, di mogli che tradiscono il marito e di fatiche che incombono sul futuro
. Non sono i canti di protesta dei minatori, né gli inni di guerra celtici. Sono le vecchie ninna nanne romagnole: “Dei contenitori in cui confluiva un po’ tutto”, racconta Luisa Cottifogli, voce dei Quintorigo, ma soprattutto in questo caso voce solista di “Lu Rumì”, il cd che raccoglie e rielabora liberamente ballate, canti e ninna nanne della Romagna che fu. “Ai bambini – prosegue sempre Luisa in tema di nenie – erano date immediatamente delle dritte sulla vita quotidiana e sul lavoro. Il messaggio era chiaro. Su, bel bambino, devi crescere in fretta, perché ci servi, perché devi lavorare”.

Alle tradizioni musicali della Romagna Luisa non è arrivata seguendo rotte familiari. Babbo e mamma, anzi, provengono da regioni diversissime. E lei stessa ha preso contatto con la musica etnica partendo da qualche migliaio di Km di distanza. Precisamente dall’India, dove nel 1998 si recò grazie a una borsa di studio. Solo dopo è arrivata la bassa romagnola e una galleria di personaggi – musicisti, bibliotecari, violinisti e ristoratori – che l’ha fatta terribilmente incuriosire per l’esotico nostrano: quel mix di tradizioni – a metà tra cronaca e leggenda – a cui appartiene anche Lu Rumì, il personaggio che dà il titolo al suo Cd. “Lu Rumì – dice – è un personaggio realmente esistito verso la fine dell’Ottocento. Andava in giro col cappotto e col bastone: insomma era il classico matto del villaggio a cui nessuno poteva negare un tocco di pane”.

Dal punto di vista storico, la fortuna di quel particolare matto è stata di cantilenare continuamente un’orazione. La sua cantilena infatti è stata trascritta da Balilla Pratella, un lughese militante nel futurismo, e da questa trascrizione Luisa Cottifogli ha potuto trarre spunto per riportare il personaggio all’attualità della musica contemporanea. “A me – spiega Luisa – è sempre piaciuto creare musica da immagini e l’immagine di Rumì è quella di un personaggio metafora del viaggio. E’ il simbolo della diversità che puoi trovare tanto in India quanto in Romagna. Ovunque tu vada, infatti, puoi trovare qualcosa di diverso, come, ovunque tu vada, puoi trovare qualcosa di uguale a te, perché la domanda esistenziale di partenza è la stessa”.

Rumì non è l’unica leggenda recuperata. Nel Cd è molto colorita anche la figura della Borda, tipico esempio di nenia ispirata all’orrido. “La Borda era la versione romagnola del dio celtico Bor, un dio che esigeva sacrifici umani che venivano uccisi calandoli in acqua”, spiega Luisa, che nelle strofe della sua canzone descrive una Borda che arriva a rapire e a uccidere i bambini.

Tutte le canzoni del cd sono in purissimo dialetto romagnolo. “Ed è un piacere cantare in dialetto – conclude la vocalist – perché il dialetto è pieno di parole tronche e, come l’inglese, si sposa perfettamente alla musica”.

giovedì, novembre 02, 2006

Prime tinte autunnali nei crinali di Premilcuore

Le pendici di fronte al piccolo abitato di Fiumicello
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Le pendici di fronte al piccolo abitato di Fiumicello
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Il rosso della faggetta sotto la cima di Monte Ritoio
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Il rosso della faggetta sotto la cima di Monte Ritoio
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Fitta nebbia sopra i ruderi dei Lavacchi di sopra
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Fitta nebbia sopra i ruderi dei Lavacchi di sopra
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domenica, ottobre 29, 2006

Il “torno subito” di Gianè

Torno subito.
Sono andato a buttarmi nel fiume.
01/01/2006

E’ il cartello mostrato alla fiera del sottobosco di Rocca San Casciano da Gianè, uno dei personaggi over 60 più coreografici del paesino romagnolo. Gianè lo espose la prima volta alla porta poco prima di fare il suo canonico tuffo nel fiume dal ponte paesano all’inizio del 2006.

Il suo tuffo è quasi un rito. Si ripete in tutte le ricorrenze più importanti, estive e invernali, e alcune costanti permangono sempre. Il punto di lancio è sempre la balaustra posta alla fine del borgo si sopra, nella parte vecchia del paese. Da lì all’acqua ci saranno circa cinque o sei metri, che Gianè affronta vestito e “rallentando” il volo con un ombrello.

Finora Gianè ha sempre mantenuto fede al cartello e, riemerso dalle acque, è tornato a casa. Tutt’al più ha tardato un poco per scambiare quattro chiacchiere in piazza.

martedì, ottobre 24, 2006

Predappio Alta e la storia inquieta nella cantina della Pré

Il vino non c’è più ma se ne sente ancora l’odore. Ne sono pregne come vecchie matrone le botti della cantina della Pré, a Predappio Alta. Sono in fila – tra vecchi attrezzi, ognuna con il suo nome – lungo gallerie che si inoltrano nel cuore della terra a caccia di fresco, umidità e luce fioca. E sui vecchi legni di cui sono fatte oggi appoggiano le opere dei pittori di Romagna. Quindici artisti all’anno mediamente espongono nelle cantine di Predappio Alta, animando un ciclo di inaugurazioni a base di pennelli, colori, piadine e Sangiovese. Perché in Romagna, si sa, va bene l’arte ma solo se la fame è già in disparte.

Però a Predappio neppure con l’arte e la fame già in disparte si può parlare di lui. Mussolini è nel cimitero pochi chilometri più sotto e nelle case squadrate in tipiche forme littorie, ma non deve essere da nessun'altra parte. Neanche in una tela all’interno di una mostra tra le penombre di un’antica cantina. E così il suo volto è stato censurato e il quadro che lo rappresenta relegato in un carrello. Troppa viva ancora quella cicatrice per ricordare la vecchia ferita. La storia è ancora lì, troppo inquieta per essere disegnata.

La cantina della Pré a Predappio Alta

La cantina della Pré a Predappio Alta

La cantina della Pré a Predappio Alta

martedì, ottobre 17, 2006

Pippo Beoni, l’uomo che correva più a lungo del muflone

Quel muflone era imprendibile. Lo sapevano bene i forestali di Campigna che da tempo ne fallivano la cattura. L’animale continuava a fuggire le loro imboscate: metteva sempre un fosso, una riva o un balzo tra sé e i suoi inseguitori. Lui, l’ungulato, vinceva sempre la battaglia contro di loro, gli uomini in divisa.

Una mattina i forestali ruppero il silenzio che di solito avvolge i fallimenti dell’uomo sulla natura. Ormai certi di essere davanti a un animale epico per le sue doti di fuga, confessarono a colazione la loro impotenza. Ad ascoltare il loro sfogo c’era anche un certo Pippo Beoni, un signore scomparso pochi anni fa. Lui, tranquillo, chiese se poteva avere qualcosa in cambio per la cattura del muflone e, negoziato un accordo favorevole, partì in direzione della foresta della Lama tra lo scetticismo della combriccola.

“A mezzogiorno avevo capito che era un po’ stanco”, spiegò al suo ritorno, tranquillo come alla partenza, dopo aver catturato l’animale al termine di una rincorsa di un’intera mattinata. Il muflone aveva fatto il suo solito: aveva saltato un fosso, aveva risalito una riva e s’era gettato ai piedi di un balzo. Ma Pippo Beoni aveva fatto lo stesso: aveva saltato il fosso, aveva risalito la riva e s’era gettato ai piedi di un balzo. Lui, l’ungulato, aveva perso la battaglia contro di lui, l’uomo che nn conosceva la fatica. La fuga del muflone finì all’incirca all’una del pomeriggio.

Funghi sul tronco di un vecchio albero ai bordi del fosso della Lama

Funghi che hanno colonizzato il tronco di un albero morto sulle rive del Fosso della Lama

Scarpone abbandonato alle Farniole

Scarpone abbandonato
Solo soletto, perduto da un tempo che non è dato a sapere sulle rovine di un podere afflitto da maledizione.

martedì, ottobre 10, 2006

Famiglia aperta sbarca in Romagna

I ragazzi di famiglia aperta durante la escursione a Lago di Ponte e al Colle del Tramazzo


Erano sedici. E lo sono ancora. La vera notizia è questa. L’entropia dell’universo, quella che al liceo scopri che non fa che aumentare ponendo fine all’età dell’innocenza, per una volta ha deciso di andare in vacanza. Il caos non è riuscito a imporsi e tutti i sedici ragazzi di Famiglia Aperta sono riusciti a tornare sani e salvi al loro pulmino e da lì a Bologna. Erano sedici (educatori compresi) all’arrivo a Tredozio sabato pomeriggio. Ed erano sedici domenica sera, dopo un pernotto a Ca’ di Ponte e una salita in mezzo alla nebbia su, su fino al Colle del Tramazzo.

Si narra che qualcuno si sia pure divertito. Certo sono solo voci di corridoio, nascoste da molte lamentele superficiali, ma il sol pensier basta in questo blog. E due giorni da Gianburrasca hanno un sapore dolce se nell’ultima pagina c’è un finale da libro cuore.

Firmato
Gae in evoluzione

In luglio fui Gae – Guida Ambientale Escursionistica
In settembre mi scoprii Gae – Guida Apparentemente Esperta
Ora sono Gae – Guida di Accresciuta Esperienza

giovedì, ottobre 05, 2006

Molise, la regione che beve

a candeloro e caraffica


Ho conosciuto pochi molisani. Del resto sono pochi in assoluto e molti di quei pochi sono emigrati. Ma con quei pochi che sono rimasti e che ho incontrato ho sempre bevuto
. Per ovvie ragioni fatico a ricordare ciò che mi hanno raccontato, ma tutti gli aneddoti parlano di sbornie in discoteca, di sbornie in vacanza, di sbornie per una festa in spiaggia, e di sbornie a un matrimonio. L’inizio di queste storie è sempre uguale. Loro non dicono: “C’era una volta”. Preferiscono partire da “’na birra”.

E all’importanza della birra è dedicato anche un passaggio di una guida sui generis del Molise. Un agile saggettino informale dove l’autore, Antonio Pascale, si chiede a lungo se la regione dovrà per sempre rimanere schiacciata tra due destini drammatici – il perdurare della chiusura e l’arrivo dei centri commerciali – o se invece esiste una terza via per portare il Medioevo dei paesini dentro la cultura contemporanea.

Nel tentativo di cercare la “terza via” molisana, Pascale scrive:

“Fatto sta che se la sera andate davanti a un bar (ma la “serata” comincia alle tre di pomeriggio), potete vedere i vecchi che si fanno la passatella, qualche volta con i giovani (è un gioco con le carte, dove chi vince, vince una birra...). Fumo e birra. Adesso, dopo il divieto di fumo, troverete locali con meno fumo e la stessa quantità di birra. In Molise si beve. In classifica, la regione è al primo posto per il consumo di alcolici”.


(Antonio Pascale, Non è per cattiveria – Confessioni di un viaggiatore pigro. Bari: Laterza)

domenica, ottobre 01, 2006

Un giorno e nove scatti, un cinghiale e niente palle

Immagini delle foreste attorno a Lago di Ponte, nel comune di Tredozio

Nove scatti per un giorno. Picasa, un piccolo software di google per l’archiviazione delle immagini, ha scelto di unire così alcuni delle fotografie scattate sabato 30 settembre tra lago di Ponte e il Colle del Tramazzo. Il collage, pur con qualche taglio a piedi, cappelli e funghetti, racconta di pause, punti panoramici, momenti di cammino “fintamente” difficili e soste attorno ai frutti del bosco.

Picasa però non può raccontare i consigli culinari di Ira, la ragazza spagnola del gruppo. Parlavamo delle specialità di cinghiale. “Buone” dice lei, che, oltre a salsiccia e insaccati, è abituata anche a mangiare braciole e bistecche. “Però”, aggiunge subito mimando l’atroce destino: “Il maschio no. Al maschio devi tagliargli le palle, se no fa schifo”.

In verità, in verità, Ira vi dice, se in tavola vi portano carne di cinghiale, accertatevi sempre che sia una femmina o che sia un maschio castrato. Se un cinghiale ha le palle, non è il caso di mangiarlo.
Parola di Ira. Buon appetito.

martedì, settembre 26, 2006

Una spremuta di sole e un bagliore di candela alla Capanna del Partigiano

Ci deve essere stato un gran fragore in quel lontano 18 luglio del 1944. Grida di fanti fascisti che risalivano le pendici del Monte Lavane ed echi di mitragliatrici partigiane nascoste nella Capanna di Pian Porcello. Una lapide, posta su quella che oggi si chiama la Capanna del Partigiano, tiene ancora viva quella memoria. Ma attorno a essa non si sente più nulla. Niente luci, niente suoni, neppure un traliccio. Se si guarda a ovest si incontrano solo faggi che coprono tappeti di felci adagiati su crinali che via via si perdono all’orizzonte. E, prima della notte, una spremuta di sole arriva a dare l’ultima pennellata di rosso al paesaggio.

Tramonto alla capanna del partigiano

Esaurito l’ultimo riflesso del tramonto, restano solo i bagliori di una candela e le braci del camino.

Camino acceso alla Capanna del Partigiano

Un salto nel vuoto del torrente Lavane

Una cascata del torrente Lavane

giovedì, settembre 21, 2006

Elli, la ragazza cresciuta con gli enzimi per le lenti

“Ero piccolina. Avrò avuto sedici, diciassette anni al massimo”, dice Elli, raccontando una delle sue prime visite oculistiche. La miopia cominciava a farsi sentire e il medico decise che era il caso di farle indossare le lenti. Fu gentile e durante la visita le spiegò con dovizia come prendersene cura. Fece un lungo elenco di prodotti e la giovane ascoltò attenta, solo forse un po’ emozionata come prima di un esame. Alla fine il medico fu convinto che tutto fosse chiaro ed Elli annuì: tutto sarebbe stato fatto come si doveva.

Un anno dopo l’adolescente un po’ cresciuta torna dall’oculista per un controllo di routine. L’esito della visita è positivo. La miopia si è fermata e non ci sono ulteriori problemi all’orizzonte. “Però – lamenta il medico – le tue lenti sono sporchissime”. Non le hai pulite?”, chiede. “Certo”, risponde Elli, elencando con dovizia tutta la procedura ripetuta tante e tante volte.

“Ma gli enzimi?”, incalza ancora l’oculista. “Gli ho presi regolarmente tutti i mesi”, risponde Elli, un po’ seccata. Solo dallo sguardo terrorizzato del medico la ragazza capì che quelle piccole pastiglie dal gustoso sapore di varechina e uovo marcio erano agenti per la pulizia delle lenti.... “Io – spiega oggi Elli, protestando la sua innocenza di allora – credevo che fossero enzimi per abituare gli occhi alle lenti ed evitare che le rigettassero”.

Lo spiacevole imprevisto fortunatamente non ha avuto danni gravi. La ragazza è cresciuta sana, forte e piena di ottimismo. E’ anche andata all’Università, dove all’orale di Analisi I completò spigliata tutto l’esercizio commissionatole dal professore. Soddisfatta e un po’ orgogliosa terminò la sua opera scrivendo nella lavagna radice di nove. “Quindi?”, chiese pacato il docente. “Oddio”, pensò lei con le spalle al muro. “Quindi, due per radice di tre... ah, no, scusi, tre per radice di due”.

Allora fu un diciotto (dice lei). Oggi è un ingegnere. Anche se non ne è sicura e nella carta di identità si è fatta scrivere “ricercatrice”. “Perché – ha spiegato all’impiegata dell’anagrafe – sono ancora alla ricerca della mia strada”.

martedì, settembre 19, 2006

Dall’ossessione per i massmedia del cavalier Berlusconi all’ossessione per i micromedia del senatore Guzzanti

Tra i ricordi che il mio relatore, Fabrizio Tonello, conserva della sua esperienza giornalistica c’è un’esperienza personale dell’ossessione massmediatica di Silvio Berlusconi. L’episodio, raccontatomi circa un anno fa – se ben ricordo -, risale al periodo della scalata alle frequenze televisive. L’allora imprenditore si getta alla conquista di un network francese e l’allora cronista, corrispondente da Parigi per Il Secolo XIX, scrive un editoriale critico sulla strategia della società appena acquisita dal magnate italiano. Berlusconi è già un grande industriale e il Secolo solo un quotidiano locale, ma l’attacco da quelle pagine è sufficiente per indurre il futuro presidente del Consiglio a sollevare personalmente la cornetta e redarguire l’arrogante giornalista.

Tonello confessa tuttora il suo stupore per quella telefonata. Oggi però bastano sassolini ancora più piccoli per risvegliare la reazione del mondo politico e industriale. Oggi un senatore della repubblica, come Paolo Guzzanti, si siede alla tastiera per prendersi gioco di un piccolo blogger e, una volta persa qualche battaglia, esce dal mondo della rete e dei nickname per entrare in quello dei titoli onorifici e dei tribunali. Smette di firmarsi informalmente “Guzz” e minaccia un procedimento giuridico condotto da Paolo Guzzanti, Senatore della Repubblica Italiana.

Guzzanti, ora agli onori della cronaca per le sue altalene politiche e per aver dato i natali a due celebri comici televisivi, fu a lungo inviato del quotidiano La Repubblica in Salvador. Con la sua penna, oltre alla stima del Direttore, Eugenio Scalfari, conquistò addirittura un premio giornalistico. L’articolo che debellò la concorrenza degli altri reporter descriveva decapitazioni sommarie eseguite negli alberghi della capitale: il tono del racconto era duro, epico, denso di dettagli che rimandavano alla presa diretta degli eventi narrati.

Non tutti, però, applaudirono quel reportage. Tra i colleghi, anzi, serpeggiò il dubbio che quelle pagine andassero ascritte al genere della narrativa: belle al loro interno, ma frutto di un falso storico. Frutto cioè di decapitazioni mai capitate o, al massimo, occorse lontano, molto lontano, dai luoghi dove Guzzanti le aveva ambientate.

Le voci contro di allora sono finite recentemente nel retino di Gabriele Paradisi, industriale bolognese di origine romagnola, che, con pazienza e dedizione estranee al mondo redazionale, ha seguito per passione gli echi del passato, scovando vecchi articoli e telefonando ai protagonisti dell’epoca. La sua ricerca ha richiesto settimane, ma alla fine ha prodotto una storia alternativa a quella descritta da Guzzanti e premiata con il Premiolino.

Lo scoop e le indiscrezioni dell’imprenditore col vizio del blogging non sono finite né su Il Corriere della Sera, né sul New York Times. Solo nel suo blog, ma per il senatore della Repubblica che nella rete si firmava Guzz la pubblicazione su un micromedia è stato più che sufficiente a minacciare il ricorso alle vie legali. Il procedimento, tra ritrattazioni e avvicinamenti, è attualmente fermo, ma, nei post e nei commenti restano tutte le feroci parole che la vicenda ha prodotto. E, soprattutto, resta aperta la caccia alle nuove tracce, quelle che potrebbero dire davvero se era vera la storia scritta su Repubblica da Paolo Guzzanti o se invece è vera quella ricostruita da Gabriele Paradisi sul suo blog circa venti anni dopo.

Per chi vuole saperne di più, Paradisi ha riassunto tutta la vicenda in un post del suo blog “Cieli limpidi”. Il post si intitola Senador, periodista, di la verdad! Il giallo storico è servito: buona lettura...

martedì, settembre 12, 2006

La strana convivenza di parole solide e spazi virtuali

Le vecchi civiltà andine hanno scritto su ogni cosa. L’ho scoperto pochi minuti fa, presentando Appunti di campo, un volume dedicato agli studi di antropologia culturale sulle antiche popolazioni americane. Il testo racconta di linguaggi impressi su tessuti e bicchieri. Gli Inca, per esempio, raccontavano la loro storia scegliendo il tipo di tessuto, mentre i peruviani rendevano più chiari i loro messaggi scolpendo in un diverso tipo di legno. Nei loro codici, insomma, la materia non era un supporto, ma un segno. Un disegno da solo significava poco: significava diversamente se cucito nel cotone o se intessuto nella canapa.

Mi è sembrato curioso parlarne: citare quelle parole solide in un blog che a cui non serve nemmeno più la carta. Parole solide in spazi virtuali.

venerdì, settembre 08, 2006

La cultura dell’ignoranza

Siamo nella società della conoscenza. Questo lo dicono tutti. In molti però si sono stufati e alcuni, in particolare, si sono stufati più di altri. Qualcuno, insomma, si è un po’ rotto di passare la vita a conoscere ciò che fa comodo agli altri e ha scelto di diventare ignorante e di dedicare a questa forma di protesta socio-cultural-esistenziale un’intera giornata: l’ignoranz day. L’evento è ormai una consuetudine. Si celebra ogni anno nella bassa bolognese.

Il club dell’ignoranza è potenzialmente aperto a tutti. Veicolato dal web l’ultimo ignoranz day è stato onorato addirittura da un fans club napoletano. Dal profondo sud i partenopei hanno chiesto il permesso di essere presenti. Dall’umido nord i bolognesi hanno detto sì. E tutto si è concluso con una serata a base di vino, salsiccia e film ignoranti.

Per chi anela a entrare in questo club godereccio, la strada è però più irta di quanto il nome lasci sospettare. Essere ignoranti vuol dire infatti essere abili conoscitori di una materia inafferrabile, fatta di b-movies, vecchi cartoni animati e siti un po’ sdozzi. E’ difficile diventare ignoranti per scelta: la buona volontà non basta, perché biblioteche e saggi sul tema scarseggiano; è solo il vissuto, la nottata di Tv e patatine unte, che crea l’ignoranza, che rende possibile all’ignorante snocciolare un passaggio di Attila flagello di Dio in qualsiasi contesto, dalla riunione di lavoro alla cena con la morosa. Per esempio, chi di voi saprebbe rispondere con certezza a questi quesiti disseminati nel test d’ingresso al sito dell’ignoranza: “Qual è lo sponsor della Longobarda, la squadra allenata dal famoso Oronzo Canà? Pollo ruspante, Euro Ponteggi o Pastificio Mosciarelli...”; “Se ti dico Pino Balera tu cosa mi dici? Beppe Pista, Franco Strobo o Raul Casadei...”.

Se anche voi siete scontenti della cultura ufficiale, buona vista al sito dell’ignoranza, allora. Male che vada arriverete alle conclusioni di Pin: “Scusate, ho sbagliato sito..... Vado via”. Bene che vada, invece, raggiungerete la saggezza di Catta: “L'ignoranza – dice lui - non ha limiti, ma confini dati dalla mente”.

Caro ignorante Poluz, ignoranz master del sito, piacere di averti conosciuto. Alla prossima mi racconterai tutta la genesi del progetto. Secondo me è una storia ricca di particolari stupidi e quindi molto notiziale... pardon ignoranziabile.

www.ignoranza.it

giovedì, settembre 07, 2006

Trasloco a piedi da finestre intime e finestre pubbliche

Sopra la mensola della mia nuova camera da letto bolognese due libri poggiano fianco a fianco. Uno, Camminando di Pino Cacucci, l’ho acquistato dietro consiglio, l’altro, Il mondo a piedi di David Le Breton, l’ho invece raccolto a scatola chiusa, per curiosità dopo averlo visto in libreria. L’uno e l’altro – la scelta cosciente e l’opzione casuale – strizzano l’occhio alla camminata e forse è per questo che a piedi ho addirittura realizzato l’ultimo ennesimo trasloco in ordine di tempo. Di passo svelto giù per via Fondazza, quasi di corsa attraverso Strada Maggiore, e poi guardingo lungo via Broccaindosso, dove la ristrettezza del marciapiede mi ha costretto in mezzo alla sede stradale con carrellino, armadio e trampoli vari. Tra un punto è l’altro la distanza è ridottissima: ci ho messo quasi di più a descriverla sinteticamente in queste righe che a percorrerla. La butto lì: saranno 500 m.

Ed eppure è già viaggio, nel senso che c’è una bella differenza tra la stanza di partenza e quella di arrivo. Non c’è “Jet” ma c’è qualcosa di “Lag”. Troppo alla buona, decisamente decadente la prima. Troppo formale e leggermente ansiogena la seconda. Scarponi sul divano nella prima e ciabatte all’ingresso per la seconda. E ancora un ingegnere un po’ hippy da una parte e un impiegato statale squadrato dall’altra.

La differenza più grande tra le due case, per ora, resta però la finestra. In via Fondazza era una finestrona ad altezza tetto affacciata su un cortile interno. In via Broccaindosso è invece una finestra più tradizionale aperta sul centro della via. Nell’una il suono più comune era quello della Tv: si udivano vocii via etere un po’ ovunque, assieme ai suoni della vita domestica – più o meno intima – che si animava tra le sette di sera e mezzanotte. Nella nuova dimora, invece, il tubo catodico non proferisce voce e con lui scompare ogni costanza: sgasate di motorino, sibili di sirene e grida all’uscita dall’osteria si alternano a silenzi completi, senza limiti di orario.

In entrambi i casi resta l’insidia del rumore. Confermo la tradizione: una casa in condominio non è mai veramente tua.

domenica, settembre 03, 2006

Ieri è passato e oggi è di corsa

“Vieni su a Bertinoro per la notte bianca?”, domanda Nicola mentre imbragato e a piedi scalzi lascia dolcemente scorrere la fune che tiene in sicurezza la ragazza belga a penzoloni sulla palestra di roccia del Vertical di Forlì.
“No, questa sera proprio no”, gli rispondo. “Già ieri sera ho tirato a tardi e sbevucchiato a Bologna. Sono più che a posto”.
“Bah, cosa c’entra ieri – replica lui – ieri è passato”. “Comunque – prosegue – noi ci troviamo alle dieci per andare su”.
“Nicola, guarda che mancano dieci minuti”.
“Ma dai, stai scherzando”. “No – risponde l’altro istruttore di roccia – sono le 9.45 abbondanti”.
“Ma porca, ma come si fa a correre sempre dietro al tempo! Tra tre minuti devo essere dagli altri lavato, cambiato, insomma tutto…”, conclude il Nik, mentre ancora tiene a penzoloni la ragazza belga sulla parete.

Dopo circa mezz’ora e un altro paio di scalate Nicola è effettivamente partito per unirsi agli altri e andare alla notte bianca di Bertinoro. Nel retro della macchina, appena messa a posto, c’era un asciugamano che non aveva avuto il tempo di rimettere a posto uscendo di casa di corsa e sul seggiolino davanti c’era il documento per ritirare le analisi che non aveva avuto il tempo di ritirare.

Come si fa a vivere così di corsa, sempre di corsa? Prometto che glielo domanderò. Ho già preannunciato la volontà di un’intervista informale. Più avanti però. Ora è già tardi e devo correre al mare.

sabato, agosto 26, 2006

Un vino provvidenziale e una piscina insospettabile

“A Don Antonio”. Il brindisi è stato per lui, l’altra notte nella parrocchia di Trebbana, a metà tra San Benedetto e Marrani. Il prete amante della montagna romagnola in realtà non c’era, ma aveva lasciato nella dispensa un bel bottiglione d’olio da cinque litri ricolmo di vino. Un nettare a metà tra il Sangiovese, di cui aveva il gusto corposo, e il Lambrusco, di cui aveva una puntina di frizzante. Un vino provvidenziale, direi. Non tanto per la professione del suo proprietario, quanto per la capacità di essersi fatto trovare lì al momento giusto per colmare le nostre lacune da brave guide: eravamo carichi di frutta secca e acqua ma spogli, drammaticamente spogli di viveri e bevande goderecce consone a celebrare una notte in culo al mondo.

“A Don Antonio”, dunque. Anche perché il vecchio parroco sembra piuttosto estraneo alla cupa chiusura del vicino eremo di Gamogna. Lì i cartelli vietano i pic-nic, mentre a Trebbana c’è addirittura la piscina a salutare il viandante. E’ a fianco della casa e da lontano sembra un’allucinazione. L’ammetto: per lungo tempo ho continuato a credere che fosse un pannello solare. Invece era proprio una vasca. La sua acqua era verdognola e fetidina, ma era acqua e la sua sporca figura alla fine l’ha fatta lo stesso. Anzi, nel suo piccolo strizzava pure l’occhio agli acquafun di riviera: il suo fondo era in pendenza e invitava a surfate in equilibrio sulla sottile patina di melma depositata sul fondo.

“A Don Antonio”, allora. La sua Trebbana ha sempre la porta aperta nel caso foste esausti su quei crinali, lontani almeno un paio d’ore dalle forme di vita umana più prossime.



P.S. Per i malevoli che potrebbero pensare che abbiamo scroccato il vino, aggiungo che per il furto dettato dalla necessità abbiamo lasciato un dovuto extra al rimborso spese per il pernotto.

Tramonto a Trebbana

Tramonto nelle colline di Trebbana

domenica, agosto 20, 2006

Con il mare alle spalle verso chiese senza tetto

Tra le mani in questi giorni ho le ultime pagine de Nel legno e nella pietra: novanta racconti di Mauro Corona dedicati a piante, rocce e uomini dalla vita estremamente quotidiana. In compagnia delle sue storie e sfogliando ogni giorno Repubblica per leggere il viaggio di Paolo Rumiz in Appennino, mi sono sentito quasi obbligato a prendere la via del mare lasciandomelo ogni volta alle spalle. In spiaggia per un tuffo, una rosolata al sole e poi via su per l’entroterra di Alassio e attraverso le più inaccessibili vie del senese.

Andare al mare per andarmene dalla spiaggia, mi ha lasciato in dote vari borghetti tra cui spiccano, in Liguria, Castelvecchio di Rocca Barbena e, in Toscana, San Galgano. Non avevo mai sentito nominare nessuno dei due e ho constatato che non ero il solo a ignorarli. Non c’era quasi nessuno nei loro paraggi e per raggiungerli ho dovuto seviziare l’atlante stradale del Touring come fosse una cartina escursionistica: entrambi sono infatti ai margini di strade bianche, rigorosamente tortuose, prive di segnaletica e attorcigliate su campi e costate boschive.

A Castelvecchio ho provato a chiedere una Sweppes Lemon. La barista, che desidera sposarsi solo per avere un attimo di gloria all’uscita della chiesa, mi ha guardato stranita sentendo questo nome da ultimo grido in riviera e poi mi ha versato della Lemon soda. Dalla bottiglia, vecchia e sgonfia, perché non aveva più le lattine.

A San Galgano invece non ho potuto chiedere nulla. Non c’era nessun bar e neppure il Signore se l’è sentita di radicarsi lì in maniera troppo vistosa. In suo onore c’è una chiesa enorme, a tre navate, ma completamente priva di tetto. Forse l’Altissimo ha pensato che da lì non c’era poi tutto sto bisogno di una cripta per cercare il raccoglimento. Bastava guardare all’insù.

L'abitato di Castelvecchio di Rocca Barbena (a sinistra)
e la chiesa senza tetto di San Galgano (a destra)


Castelvecchio di Rocca Barbena San Galgano

Castelvecchio di Rocca Barbena San Galgano

mercoledì, agosto 16, 2006

Il Ratto e il motorino assassino

Aveva uno di quei motorini vecchio stile, tanto rumore e poca velocità. Il trabiccolo era giusto un po’ più grintoso dei normali cinquantini perché era abbondantemente truccato, come spesso capita nei paeselli, dove la marmitta è un po’ uno status symbol.

Quel giorno di qualche anno fa, come in tanti altri giorni, il Ratto apriva il gas voluttuoso per le vie del paese. “Maaahhammm” faceva per la strada statale, nel punto stretto tra la caserma dei pompieri e l'officina di Barabba. Il tracciato è dritto, privo di insidie, ma anche lì una frenata di troppo può essere fatale e lui molto probabilmente la fece. Le ruote del vecchio cinquantino un po’ truccato mollarono l’asfalto come calamite smagnetizzate mollano i ferro e lui il Ratto precipitò in terra seguendo con una sana dose di bestemmie i rotolii del trabiccolo.

Il rumore fatto fu notevole. Tale da rompere anche l’apatia dei carabinieri, che stazionavano lì vicino con la loro camionetta.. L’appuntato intuì l’accaduto e di corsa si precipitò verso l’incidentato. “Come stai, tutto bene?”, gli chiese preoccupato. Ma il Ratto non lo ascoltava. Già in piedi, sbatteva il casco in terra e con gli occhi iniettati di sangue lanciava fiammate di odio al suo cinquantino: “Eh, brutto motorino di merda mi volevi uccidere – urlava con la sua esse un strascicata -, ma non ce l’hai fatta neanche questa volta! Non avrai il mio scalpo…”.

Attonito fu il carabiniere e sicuramente un po’ infastidito fu anche Dio, coperto dalla solita lettiera di bestemmie.

sabato, agosto 05, 2006

Due valli, qualche guida, un crescione o un tortello alla lastra

Tutto fatto in casa era il menù di giovedì sera a Ca’ Lumacheto, mentre le nuove guide festeggiavano la fine del corso. Torte salate ricoperte di funghi ed erbette, piadine e affettato, formaggi e marmellate, crostate, torte di noci e succosi strudel. In mezzo a tutto questo c’erano anche quadratoni di purea di zucca e patate ricoperti da una sottile spoglia annerita qua e là dalla cottura su una lastra di terracotta rovente. Li devo descrivere, questi quadratoni, e non chiamare, perché sul nome c’è un contenzioso: le fiumane hanno scavato la roccia e inciso differenze nei dialetti. Su nel Bidente i santasofiesi li chiamano “tortelli alla lastra”. “Il tortello alla lastra è proprio questo – dicono – ripieno di zucca e patate e cottura sulla lastra”. Intuitivo, ma dove scorre il Montone quei tortelloni si chiamano crescioni. Lo dico io rocchigiano e lo conferma il dovadolese del gruppo: “Sì, sì – dice lui – anche quando li faceva la mia nonna, li chiamavano crescioni”.

Ha proprio ragione Paolo Rumiz: “Gli Appennini sono fatti per essere attraversati e non per essere percorsi”. Ci sono passi tra Emilia-Romagna e Toscana ogni cinque chilometri, ma non c’è un sola via di crinale che colleghi rapidamente una valle all’altra. Ci sono solo i monti e quelli si attraversano di rado e nel tempo che trascorre il crescione diventa tortello alla lastra.

Ca' Lumacheto: cena delle nuove guide escursionistiche dell'Emilia Romagna

mercoledì, agosto 02, 2006

Sull’Appennino dove l’uomo è estinto

Repubblica sta pubblicando in questi giorni ferragostani il diario di viaggio che Paolo Rumiz ha scritto percorrendo tutto l’Appennino, da Savona a Capo Sud. Ogni giorno una tappa. Oggi, mercoledì 2 agosto, è stata pubblicata la terza di cui riporto un passaggio molto carino. Descrive il carattere solitario e selvaggio dei crinali appenninici, un carattere che credo possa essere confermato da tutti coloro che, quei crinali, hanno provato a percorrerli a piedi o in bici.

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In Africa, anche in pieno deserto, c’è sempre qualcuno sulla strada. Qui no. La vita è altrove. L’uomo pare estinto come l’elefante di Annibale. Viaggio in uno spazio incomparabilmente più ancestrale delle Alpi. Queste non sono montagne-bomboniera. Niente alberghi a cinque stelle, niente gerani alle finestre. Solo locande anni Cinquanta con Bartali in fotografia, il manifesto dell’assemblea dei cacciatori, e qualcosa di balcanico nell’aria.
(Paolo Rumiz – La Repubblica, 2 agosto 2006)

martedì, agosto 01, 2006

Sulla strada per San Vito

Sono partitola Rocca alle due del pomeriggio di sabato scorso, subito dopo la fine del temporale. Fuori dal finestrino le colline del val Montone, ancora brumose per l’umidità. Trenta km dopo, attraversata una Forlì quiescente, sono arrivato alla pianura. Deserta, assolata, quasi bruciata. L’ho attraversata da sud a nord-est fino a Ravenna. Poi cento km in direzione nord, lungo la Romea: sulla destra in lontananza il mare aperto e sotto le ruote una stretta striscia d’asfalto circondata dalle paludi ravennati, ferraresi, e chioggiotte. Non c’erano camion a rallentare la marcia e in un giro della cassetta degli Eagles sono piombato a Venezia. Tangenziale di Mestre poco trafficata, una veloce rampa di lancio per l’autostrada per Belluno. Tre corsie vuote, finestrino aperto e Davide Van des Sfroos di sottofondo. L’ideale per puntare a nord ovest e addentrami nel Cadore, su su, tra cime sempre più alte e rocciose, fino a San Vito, mia tappa finale, raggiunta in completo relax verso le 19.

Fiori abbarbicati alle rocce delle TofaneMi è quasi dispiaciuto essere arrivato”, ho spiegato a mia sorella una volta rientrato. “Solo tu puoi pensare una cosa simile”, ha detto lei sarcastica, cullandosi sul dondolo di fronte a casa. Può darsi che sia un po’ strano, ma il piacere resta. Cinque ore d’auto, con un filo di gas, nessun passeggero a disturbare e una miriade di paesaggi da osservare. Lo ripeto e lo scrivo pure: “Mi è quasi dispiaciuto essere arrivato”. Per fortuna che a consolarmi c’era un’allegra combriccola con cui ho macinato una domenica attorno alle Tofane...

venerdì, luglio 28, 2006

Tavola Peutingeriana, ogni momento è quello giusto

Non l'avevo mai sentita nominare fino a un paio di mesi fa. Poi, in una lezione a carattere storico del corso da guida escursionistica, la Tavola Peutingeriana è sbarcata nel mio immaginario. E' una tavola concepita in epoca romana (III/IV secolo d.C.) per disegnare le principali rotte di comunicazione dell'Impero. Per quanto riguarda l'Emilia Romagna, per esempio, la tavola, fortemente sviluppata in senso orizzontale, descrive il tracciato della via Emilia.

Ne parlo qui perché la Tavola ha evidentemente preso gusto a incrociare i miei destini. Il vecchio documento è stato infatti al centro di una delle mie ultime interviste, quella realizzata con la prof.ssa di Geografia Fiorella Dallari a proposito del progetto Roman Itineraries. Per spiegare cos'è questa interessante iniziativa, riporto l'articolo originariamente pubblicato su UniboMagazine:

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Era già chiaro quando la redassero, tra il III e il IV secolo d.C.: la Tavola Peutingeriana era un documento rivolto ai viaggiatori. La Tabula rappresentava infatti l’intero mondo noto all’epoca, tralasciando gli elementi fisici e antropici del territorio a favore delle rotte di comunicazione. Nella carta comparivano tutte le terre note agli antici, ovvero l’orbis terrarurm di dominio romano che si estendeva tra Europa, Asia e Africa. Un’immensa estensione territoriale su cui la Tabula descriveva 100 mila Km. di strade e 3 mila indicazioni di luogo.

Questo antico documento, conservato a Vienna, è ora alla base di un progetto interregionale di promozione turistica dell’area orientale e balcanica dell’Europa. “Il progetto – spiega Fiorella Dallari, docente di Geografia economica all’Università di Rimini - si chiama Romit (Roman Intineraries) e punta alla costruzione di itinerari turistici che ricalchino le antiche rotte romane disegnate sulla Tavola Peutingeriana”. Rimini, punto d’arrivo della via Flaminia e punto di partenza della via Emilia, è con la sua università capofila del team di progetto a cui aderiscono anche strutture accademiche, enti museali e soggetti privati di Vienna, Norimberga, Sofia e Patrasso.

Il progetto Roman Itineraries, concepito per la prima volta nel 2003, si compone per ora di proposte di itinerario. C’è per esempio un itinerario che si sviluppa nella penisola Balcanica, un anello che costeggia il bacino del Mediterraneo, itinerari lineari nel continente e anche una rotta nord africana tra Tangeri e Alessandretta. Ora, definite le rotte, sono allo studio le condizioni di fattibilità pratiche dei viaggi ideati. “Lavoro a cui noi diamo consulenza economica, giuridica e geografica”, prosegue Dallari, rappresentante dell’Università di Bologna assieme a Guido Candela, Marcella Gola e Antonello Scorcu.

Romit si inserisce nel sempre più vigoroso filone del turismo sostenibile. “I nostri itinerari turistici – spiega ancora Dallari – devono favorire lo sviluppo economico delle regioni coinvolte e utilizzare i centri più noti come traino rispetto alle altre località. A livello di ospitalità, per esempio, l’obiettivo è coinvolgere partner locali ed usufruire della ricettività familiare”.

Questo tipo di offerta strizza l’occhio al sempre più nutrito gruppo dei turisti culturali. “Sono – illustra Dallari – viaggiatori con un livello di istruzione e di reddito medio-alto e soprattutto viaggiatori che sono disposti a spendere per soddisfare le loro curiosità culturali”.

Oltre ad alimentare i flussi turistici, Romit, così come gli altri progetti interregionali, punta infine a fare rete, costruendo sistemi locali territoriali integrati: “Uno dei traguardi principali – conclude infatti la docente di economia – è la realizzazione di modelli e protocolli per la gestione dei siti archeologici, modelli che consentano maggiore coordinamento tra soggetti che ora operano troppo spesso senza comunione di intenti e competenze”.

martedì, luglio 25, 2006

Perché fare la guida? Ecco le prime risposte

“Ti svegli la mattina all’alba, guardi il cielo, prepari lo zaino. Sali in macchina e accendi lo stereo, una sosta per il caffè e risali la vallata. Il profumo della primavera, i colori dell’autunno, il silenzio della neve e il caldo tepore dell’estate. All’imbrunire quando la sera si avvicina volgi lo sguardo verso i tiepidi raggi di un sole che si sta addormentando, i crinali si tingono d’azzurro, chiudi gli occhi e ascolti la voce del vento. Cosa c’è di più bello?

La gioia negli occhi dei tuoi compagni di viaggio!

Lello – Accompagnatore di Montagna

La riflessione è di Leonello, l’accompagnatore di montagna che ci ha seguiti nella maggior parte delle escursioni compiute per il corso da guida ambientale escursionistica realizzato a Forlì da gennaio a luglio 2006. L’elogio del lavoro di guida è arrivato oggi nel giorno dell’esame conclusivo. L’ho riportato perché è stato uno dei tanti simpatici mattoncini che ha trasformato questa fine corso in un appendice di vita liceale. All’alba c’è stata la leggera tensione che precede ogni esame. Poi la goliardica attesa collettiva dei risultati, consumata utilizzando i banchi come sdraio. E infine la gita altrettanto collettiva al mare, nel mio caso per il primo, sempre un po’ sacro, tuffo in riviera.

Una bella giornata insomma. Di quelle che ti riappacificano con mesi percorsi da un eccesso di adrenalina. Di quelle giornate in cui qualsiasi proposta arriva, tu sorridi e dici “perché no?”, con la carica della prova appena superata e senza l’assillo di un altro traguardo dietro l’angolo.

Ora che questa giornata si conclude, non mi resta che raccogliere l’appello del mio “maestro” e mettere in saccoccia le prime gioie dei miei compagni di viaggio. I dodici impavidi amici e colleghi che sabato e domenica mi hanno seguito su a Pian del Grado, al Poderone e al Castellaccio di Corniolino. Un grazie a tutti, specie a coloro che hanno sperimentato le mie alternative d’altura pur avendo nel sangue il sale del mare e nell’anima le infradito da notte in spiaggia.

La parola agli escursionisti della mia prima ufficiosa escursione guidata, “La ripa, il borgo e il castellaccio”. In breve qualche stralcio di sms inviatomi domenica sera:

“Eh, una certa stanchezza a tratti mi pervade…Due giorni davvero belli e sani” (Fra’)
“Siamo tutti arrivati, felici, stanchi e x il momento senza zecche! Grazie 1000 (Marci)
“Grazie di tutto. Sono stata davvero bene” (Monica)

Foto 1: nel cortile di Pian del Grado

Nel cortile del borgo di Pian del Grado


Foto 2: sulla mulattiera verso il Castellaccio di Corniolino

Sulla mulattiera tra Campigna e Galeata verso il Castellaccio di Corniolino

lunedì, luglio 17, 2006

Filetti di placenta

Il proprietario della Tabaccheria era ormai un mago delle parole crociate. Erano il suo passatempo preferito nelle ore centrali, quelle di un cliente ogni tanto. La sua bravura incuriosiva costantemente uno degli amici più assidui nel rifornirsi di cartine e sigarette. “Fammele fare a me”, chiedeva spesso. Il risultato dell'amico, però, non era ottimo e dopo un po’ passava a quelle con “l’aiutino”. E se pure quelle non bastavano, si irritava e cambiava le regole, inserendo qualsiasi parola che “ci stava”.

Chissà, forse cotanta inimicizia con le parole era la conseguenza di una cattiva alimentazione. “Ieri sera ho mangiato due filetti di placenta”, disse infatti un giorno l’amico al tabaccaio...

venerdì, luglio 14, 2006

Voix d’Alger 4
Ministre Toumi: “Le dialogue de l’Occident avec le reste du monde est un monologue”

(trad. fr. a cura di Maria Assunta Mini) - versione italiana

La bandiera algerina sventola sulla baiaCe ne sont pas tous les Algériens qui l’aiment. Des anciennes camarades de militantisme et des anciens camarades de parti utilisent à son égard des tons sarcastiques : “Qu’est-ce qu’elle a fabriqué cette fois la rouquine?”, demandent-ils. Ils l’accusent d’avoir trahi les luttes féministes et démocratiques pour se compromettre avec un pouvoir liberticide et conservateur. Mais ils parlent d’elle. Elle, Khalida Toumi, Ministre de la culture algérienne depuis 2002, est en effet un personnage connu, populaire, un sujet politique au centre de beaucoup de phrases, dans la presse, dans les salons de la culture et dans les conversations informelles. Même les enfants la connaissent: pendant qu’ils courent après un ballon sur une placette qui domine la baie d’Alger, ils reconnaissent un profil familier et tout de suite demandent si ce profil est celui de leur Ministre (ouazira).

Et elle rend l’attention en s’offrant souvent au public. Elle vient de rentrer d’Annaba, à l’extrême est du pays, où elle a fêté l’ouverture de structures d’accueil pour les anciennes combattantes de la guerre de libération avec le Ministre des moudjahiddin, elle est présente à plusieurs initiatives sectorielles dans les différentes régions du pays, elle participe à des émissions télévisées et radiophoniques nationales. Et, pendant qu’elle nous parle, elle s’interrompt pour répondre à un appel du Ministre de l’éducation au sujet de quelques initiatives conjointes pour rapprocher les enfants des livres et de la lecture, y compris un nouveau prix réservé au meilleur petit lecteur.

Comme Ministre de la culture son attention est attirée par quelques urgences du secteur, parmi les plus touchés par la décennie du terrorisme: au centre ville, le palais qui devrait accueillir en 2007 le premier musée algérien d’art moderne et contemporain, est encore couvert de poussière; un peu plus loin, à l’Ecole Nationale des Beaux-Arts, une fracture difficile entre étudiants, enseignants et administration reste à résoudre. Comme pour répondre à ses détracteurs, ses réflexions sont toutefois consacrées à d’autres questions: avant tout, la distinction entre laïcité et féminisme. “Etre laïcs – dit-elle – ne signifie pas automatiquement défendre les droits des femmes”.

Algeri, vista notturna delle poste centrali“J’en suis convaincue par évidence historique – explique la Ministre Toumi-. Par exemple, votre histoire, l’histoire de l’Europe, est riche en revendications à caractère laïc qui ont cautionné et pratiqué l’oppression des femmes. Le cas le plus évident est celui de la révolution française. Les révolutionnaires nièrent violemment l’accès au pouvoir politique aux femmes, qui avaient pourtant participé à la révolution. Olympe De Gouges rédigea la “déclaration des droits de la femme et de la citoyenne” (juillet 1790) s’inspirant de la “déclaration des droits de l’homme et du citoyen” de 1789, elle écrit que si la femme a le droit de monter à l'échafaud, elle doit avoir également celui de monter à la tribune: elle fut guillotinée deux ans plus tard. Les femmes pouvaient donc être des combattantes de la révolution mais pas des citoyennes de République. Ce ne fut que le début de plus d’un siècle d’injustices perpétrées par les laïcs contre les femmes, parce que même quand la France adopta sa célèbre réforme pour une école laïque, en 1905, les droits de citoyenneté des femmes tardèrent beaucoup à être reconnus; elles n’obtinrent le droit de vote qu’en 1944, après d’âpres polémiques.

D’autre part, je suis convaincue que laïcité et féminisme avancent sur des voies indépendantes sur la base de ce qui s’est passé dans l’histoire de notre religion. Au début de l’Islam, les femmes ont reçu un traitement exceptionnel. Aïcha, l’une des femmes du prophète, a été protagoniste d’une bataille constante pour l’accès des femmes aux plus hautes sphères du pouvoir. Quand l’Europe vivait ses “siècles sombres”, Aïcha dirigeait une armée”. La chercheuse et écrivain marocaine Fatima Mernissi a très bien documenté, à mon avis, le rôle politique de premier ordre des femmes au début de l’Islam.

A partir de cette solide conviction que l’histoire de la libération des femmes est distincte de la laïcité, quels sont les objectifs que vous vous êtes fixés une fois arrivée aux sommets politiques de l’Algérie?
“Je me suis demandée ce que je pouvais faire pour améliorer la condition des femmes. J'avais devant moi un code de la famille à réformer et deux options parmi lesquelles choisir. La première était la revendication d’une loi civile, sans compromis. Si j’avais persévéré dans ce sens, j’aurais été une femme qui trahissait les autres femmes en hommage à un parti laïc. J’ai donc choisi de rester du côté des femmes et de voir ce que je pouvais faire pour elles dans cette conjoncture historique, en mettant en deuxième plan les exigences du parti laïc, parce que – que cela soit clair – moi je ne suis la femme de ménage d’aucun parti laïc”.

Le résultat?
“Les transformations auxquelles j’ai contribué pendant ces dernières années restent inscrites dans le cadre d’un code à inspiration religieuse, d’un code inspiré à l’Islam, mais la condition de la femme s’est améliorée. Le code de la famille et le code de la nationalité adoptés en mars 2005 sont très loin de ceux qui étaient en vigueur avant. Aujourd’hui, il n’est plus permis de jeter une femme à la rue après le divorce. Aujourd’hui, les mères exercent l’autorité parentale sur leurs enfants au même titre que les pères. L’obligation d’obéissance au mari a été supprimée, les époux ont les mêmes obligations réciproques. La polygamie est devenue pratiquement impossible. Le code de la nationalité a été révolutionné, la nationalité algérienne d’origine est reconnue par filiation maternelle en cas d’union avec des étrangers et, d’autre part, il est possible d’acquérir la nationalité suite au mariage soit avec un Algérien qu’avec une Algérienne.”

Acceptant des compromis politiques pour défendre les droits des femmes, avez-vous dû modérer vos tons et «adoucir » vos positions par rapport à la période du militantisme?
“J’ai été une militante pour défendre plusieurs idées. J’ai milité pour la démocratie, un système de gouvernement, le meilleur pour le moment, mais qui est aussi très fragile, comme vous les Italiens le savez très bien. J’ai milité pour les droits des femmes. J’ai milité pour changer le système éducatif. Et j’ai lutté pour endiguer le pouvoir excessif du marché et garantir une gestion sociale de l’école, de la culture et de la santé.
Un jour, le parti où je militais a décidé de faire un pacte avec l’armée et opérer un coup d’Etat. J’ai été contraire et j’ai été expulsée. J’étais dans cette situation quand on m’a proposé le poste de Ministre. Je savais que j’allais entrer dans un gouvernement mixte et que je devais lutter et souffrir, mais j’ai préféré le compromis avec le gouvernement pour essayer de changer les choses au militantisme dans un parti laïc favorable à un coup d’Etat militaire et fermé dans sa politique de salon.
Or, si vous me demandez si j’ai réussi à changer les choses, je vous dis encore une fois que la condition des femmes s’est améliorée et que, avec le Ministre de l’éducation qui vient de m’interpeller, je suis en train d’essayer de porter la culture dans les écoles et d’ouvrir les horizons des enfants algériens. Il faudra peut-être vingt ans, mais j’ai confiance en mon peuple”.

Sa position contredit le scepticisme de la communauté internationale qui continue à nourrir des doutes sur la nature démocratique de l’Etat algérien et du gouvernement dont vous être membre...
“Si dans n’importe quel gouvernement européen entrent des femmes, la communauté internationale se réjouit pour la maturation du système démocratique. Si, par contre, une femme entre dans le gouvernement d’un pays arabe, la communauté internationale ne manifeste que des doutes.
C’est le symptôme d’un racisme larvé. Et de mépris. C’est une conception du monde selon laquelle les femmes du monde arabe seraient soumises par la force des choses. La même conception selon laquelle il revient à quelques Etats occidentaux et à leurs establishments politiques, économiques et intellectuels de décider de la justesse des choix et des actions du reste du monde. L’Occident s’arroge le droit de tout définir et de distribuer des certificats de qualité politique et intellectuelle, dans une dynamique auto-référentielle qui transforme en fait le dialogue en un monologue. Cela – je le répète – s’appelle racisme”.

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L'eterno presente nella vita di Algeri

Voci da Algeri (4)
Ministra Toumi: “Il dialogo dell’Occidente con il resto del mondo è un monologo


Voci da Algeri (3)
Abdelkader Bouazzara, il Maestro che iniziò a suonare con fili da pesca e barattoli d’olio


Voci da Algeri (2)
"In paradiso ne vedremo delle belle". Parola di focolarina


Voci da Algeri (1)
Se il David di Michelangelo si potesse muovere avrebbe già lanciato la sua pietra contro qualcuno

mercoledì, luglio 12, 2006

Zambarducolaggini

Vittorio Zambardino, giornalista di Repubblica, non ha potuto fare a meno di collezionare i soliti luoghi comuni su università e scienze della comunicazione in particolare. Le tesi espresse nel post Ragazzi mie, scienziati della comunicazione immaginari" cominciano a gridare vendetta. Non è possibile che artisti del luogo comune continuino ad avocarsi il diritto di accusare gli altri di pressapochismo.

Sono state molte le reazioni e questa mi è parso doveroso aggiungerne una mia. Riporto anche di seguito il testo depositato tra i commenti del blog di Zambardino:

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Caro Vittorio,

hai ragione da vendere quando dici che un’università non può essere una palestra utile per il giornalismo. Credo infatti che neppure il più scapestrato studente del più scapestrato ateneo nostrano entri nel mondo del lavoro con la capacità di scrivere con leggerezza luoghi comuni paragonabile alla tua.

Mi domando, per esempio, se, quando parli di scienze della comunicazione, sai quante realtà si nascondono sotto questa etichetta? Faresti bene a fare una piccola indagine: scopriresti allora che, prima della riforma del 3+2, scienze della comunicazione era un corso di laurea quinquennale, dove, oltre alle materie umanistiche, si studiava economia, marketing, informatica e inglese. Per arrivare alla laurea occorreva superare 27 esami – più o meno come a ingegneria – e tra i docenti a Bologna c’erano Umberto Eco, Romano Prodi, oltre a figure di primo piano nell’ambito cittadino. Per ritrovare questo glorioso passato, ti basterebbe leggere quello che i tuoi colleghi di Repubblica scrivevano, a metà anni ’90, sui mitici 140 cervelli che ogni anno avevano l’onore di accedere al corso di laurea, superando la concorrenza di altri 2000 candidati. Dubito che tu sappia tutto questo. O forse l’hai rimosso perché uno dei tuoi figliocci ha miseramente fallito l’ingresso, cedendo di fronte alle domande di cultura generale, di inglese, di logica e di comprensione del testo.

Caro Zambardino, è poi il tempo di smettere con questa falsa mitologia dello scienziato che ha in mano le chiavi nel mondo lavorativo. Ho 27 anni e con la mia laurea in comunicazione mi guadagno onorevolmente da vivere lavorando spesso con coetanei provenienti da iter scientifici: matematici, fisici, informatici, economisti. Tributo loro la massima stima dal punto di vista culturale e molti di loro avranno un’utilità sociale indiscutibilmente più alta della mia, ma non mi venire a dire che questo li mette al riparo dalle turbolenze dell’economia attuale. Le difficoltà ci sono: sono probabilmente meno drammatiche di quanto le descriviate voi penne da luogo comune, ma ci sono e sono trasversali ai profili professionali. Se tu non ti accontentassi delle dichiarazioni di un preside blasonato, desideroso di avere più studentelli e quindi più finanziamenti per la sua facoltà scientifica, potresti capire al volo questa situazione. Ma mi rendo conto che anni di copia e incolla dalle agenzie, rendano difficile scrivere una riga al di là del luogo comune.

Ciò che appesta la comunicazione e in generale la vivacità lavorativa, dunque, non è la qualità del percorso formativo seguito, ma l’attaccamento al privilegio di tecnodinosauri come te. Gente cresciuta nel privilegio, ancora attaccata alla mentalità corporativa dell’ordine professionale e ormai appesantita da troppe canizie per progettare un futuro caratterizzato dalla flessibilità. Scusa per lo sgarbo generazionale che colpisce ingiustamente anche molti tuoi coetanei meritevoli, ma, dalle esperienze di cronista avute finora, ti posso dire che il colore dei capelli è uno dei fattori che mi colpisce di più e negativamente a tutte le riunioni programmatiche. C’è gente con troppo passato a bofonchiare sul futuro: gente che si è fatta rimborsare troppe volte l’aperitivo di lusso come spesa lavorativa per arrivare in cattedra e predicare spirito di abnegazione...

sabato, luglio 08, 2006

L’eterno presente nelle vita di Algeri

La Casbah vista da una finestra del Museo delle Arti e delle tradizioni popolariSua madre ha abbandonato la carriera accademica negli Stati Uniti, è tornata in Algeria e si è trovata nel vortice del terrorismo e poi ad offrire assistenza psicologica alle vittime della violenza. E lei, Amel, può raccontare da protagonista ciò che si prova a essere fermati alla periferia della città da un falso posto di blocco allestito dai terroristi. Amel ricorda quel momento come “una storia di pomodori”, ironizzando sulla cassa di verdure nel portabagagli che ha fatto sembrare lei e un amico una coppia di ritorno da acquisti a buon mercato nelle campagne, salvando entrambi da ciò che sarebbe capitato a un uomo e una donna non sposati sorpresi assieme in auto.

Il villaggio di Ait Eurbah al tramontoLe storie di Amel e sua madre sono comuni in Algeria. Nessuno le vuole raccontare, ma a volte sono così presenti da materializzarsi anche nelle poche e impervie vie di un paese di crinale della Cabilia. E’ così per esempio a Ait Eurbah. Diroccata nella parte bassa della via principale c’è ancora la casa di Ali Mohammed Mohand Amokrane detto Mohand u Idir: fu uno degli eroi e dei martiri della guerra di liberazione e proprio in quella casa fu sterminata per repressione gran parte della sua famiglia. Lì vicino abita ancora un nipote, che in onore del nonno ha ereditato lo stesso nome, Mohand Amokrane. Non ha ancora trent’anni ma anche lui può già raccontare. Di quella notte in cui i terroristi fermarono il pullman dove lui e i suoi amici del villaggio dormivano di ritorno da una festa. Erano ubriachi e dettero per scontato il peggio. I terroristi però cercavano degli abitanti del vicino villaggio di Tassaft: la loro era una rappresaglia contro la resistenza armata organizzata da Noureddine Amirouche, nipote del celebre colonnello Amirouche della guerra di liberazione, appunto originario di Tassaft: “I terroristi – racconta il giovane Mohand – si limitarono a distruggere le bottiglie di birra residue e a farci una violenta predica. Ma ce la siamo vista brutta”. Quella poi non fu la sola disavventure di Mohand. Nella primavera del 2001, fu ferito nei violenti scontri fra i giovani e la gendarmeria che misero a ferro e fuoco per settimane la regione in seguito all’uccisione di un liceale in una caserma: allora fu costretto ad assistere alla morte di un amico, lì a pochi passi da lui.

Sono molte le storie sovrapposte nella memoria algerina degli ultimi decenni. Fino al 1962 c’era l’oppressore francese. Poi subentrò la lunga dittatura civile-militare. E, quando il tunnel si sperava concluso, dopo le rivolte popolari del 1988 e il successivo sistema multipartitico con la libertà di stampa e di associazione nel 1989, arrivarono il fondamentalismo religioso e il terrorismo. Fu addirittura una consultazione popolare a dare loro il benvenuto definitivo. Erano le elezioni del 1991. “Da un lato – racconta ancora Amel – c’era il Fronte di Liberazione Nazionale: era l’ex partito unico, simbolo degli abusi del potere e colluso con i militari e la gente non ne voleva più sapere. Dall’altra parte c’era invece il partito berbero: inneggiava alla democrazia e alla laicità e la gente, oltre a nutrire una forte diffidenza regionalista, non sapeva cosa fossero quei valori. Infine, c’erano gli integralisti: dicevano alle donne che avrebbero dato loro i mariti e agli uomini che avrebbero dato loro lavoro ed equità. Erano già violenti nei modi e nel linguaggio, ma l’informazione circolava poco e la voglia di voltare pagine era esasperata. La gente pensò ‘perché no?’ e li votò”.

La baia di El KalaLe elezioni furono bloccate tra il primo e il secondo turno e quel gesto precipitò il paese in una spirale di violenza che non risparmiò nessuno. Lo scontro fra gruppi islamici armati ed esercito divenne guerra e dilagò nella società. Si fronteggiarono due schieramenti a loro volta frammentati all’interno, con terroristi decisi a colpire solo i militari e terroristi convinti invece della necessità di attaccare anche la popolazione, fino a considerare chiunque non li sostenesse attivamente un nemico da abbattere e a trucidare, neonati compresi. Attacchi contro militari e poliziotti, attentati alle loro famiglie, assassini di militanti politici, sindacalisti, giornalisti, magistrati, funzionari, artisti, falsi posti di blocco, attentati alle infrastrutture, autobombe in città e coprifuoco, abitudini scardinate e regioni off limits, fino ai massacri collettivi del 1997 e 98 con interi villaggi decimati hanno caratterizzato un decennio che ha condannato gli abitanti alla paura costante della fine. “Era come vivere con una bomba a orologeria in testa”, racconta Amel. “Bastava che qualcuno ti seguisse e tu iniziavi a sentire tic-tac, a pensare che era finita”. Lei stessa fu vittima di un pedinamento e per anni fu costretta a vivere nascosta, lontano dalla capitale, senza più un lavoro.

Dal 2000 la situazione del paese si è stabilizzata, ma l’abitudine a vivere ancorati al presente ha finora impedito una pianificazione lungimirante e un recupero delle tradizioni. Dopo aver investito risorse per ideare un efficiente sistema di trasporti per la capitale, si è lasciato piede libero al trasporto privato, ingolfando le vie cittadine e oscurando l’orizzonte della baia con lo smog. L’edilizia tradisce un frequente ricorso al fai-da-te, riempiendo i nuovi quartieri residenziali di tetti incompleti e parallelepipedi di cemento armato ricoperti di parabole. E un po’ ovunque è visibile la perdita della tradizione: ad El Kala, per esempio, a pochi chilometri dalla Tunisia, il fiorente artigianato della pipa è scemato nell’arco di una generazione. Laddove i nonni esportavano nel mondo le loro geometrie ritagliate nel resistente legno di erica arborea, i nipoti “sfornano” nelle loro officine in lamiera portacenere e souvenir senza più alcuna identità stilistica.

Una via del centro storico d'Algeri durante il mercatoIl rilancio dell’arte e della tradizione dovrebbe ricevere un nuovo impulso nel 2007, quando Algeri sarà la capitale della cultura del mondo arabo. Tra i progetti più innovativi programmati dal Ministero della Cultura vi è l’allestimento del primo museo d’arte moderna e contemporanea. Dovrebbe dare una sede agli artisti algerini del primo Novecento e dell’Algeria indipendente. Il luogo prescelto è un palazzo in stile neomoresco situato nel pieno centro della capitale: edificio nobile, disposto su tre piani, con scalinate in legno e finestre riccamente decorate, ma che ancora verte in condizioni tali da far dubitare un restauro sufficientemente veloce per renderlo agibile in pochi mesi.

Al di là degli ostacoli tecnici c’è inoltre lo scetticismo di una parte del mondo artistico. La Ministra, Khalida Toumi, dichiara di “essere una Ministra vicina al popolo” e il popolo, compresi i bambini, la segue e la conosce. Ma, tra gli ex studenti della Scuola delle Belle Arti, c’è chi è convinto che il nuovo museo sia più un’operazione di marketing verso il mondo che un canale di comunicazione con il popolo algerino: “Visiteranno il museo le stesse poche persone che frequentano i grandi hotel come El Aurassi”, lamenta Mohand, scultore secondo cui ciò che occorre non è un museo inteso come ricettacolo della storia, archivio delle opere che hanno detto già ciò che dovevano dire, ma “spazi-evento, luoghi capaci di scuotere, interpellare e suscitare domande, luoghi dove l’artista potrebbe conservare la sua indipendenza e il suo punto di vista critico sul mondo”.

Mohand, fedele ai suoi propositi sperimentali, ha ora abbandonato la scultura fisica per quella virtuale. E’ convinto che l’avrebbe fatto anche Michelangelo: “Se avesse potuto scolpire un David in movimento – dice Mohand – Michelangelo l’avrebbe fatto. E sono anche convinto che se il David avesse potuto muoversi, avrebbe già lanciato la sua pietra contro qualcuno”. Capire contro chi non è facile in Algeria. Forse contro i “barbuti”, che incarnano nelle strade la minaccia del fondamentalismo religioso? O forse contro i burocrati e gli speculatori che frenano lo sviluppo del paese?

E’ più facile iniziare a compilare il lungo elenco di Algerini che certamente non meritano altre pietre contro. Il leggendario Lupo Bianco della Casbah, in arte un professore di francese, che custodisce (ma volentieri svela) la lunga storia della moschea di Sidi Abderrahmane, patriarca di Algeri. Il giovane naturalista Mansur, che con la sua canoa traghetta i turisti più fortunati tra le ninfee del lago Tonga, vicino alla frontiera tunisina, nel cuore della zona umida più grande del Mediterraneo. Zohra, la guida musulmana della basilica di Sant’Agostino ad Annaba, che da anni dà una mano ai padri agostiniani che ne sono responsabili, occupandosi della biblioteca e della segreteria. Dahbia, la signora dall’apparenza fragile e minuta, che si adopera con tenacia a difendere le sue (piccole) proprietà e le sue ambizioni imprenditoriali nel villaggio d’origine. O la comunità delle focolarine, che da quarant’anni è presente in Algeria e da allora dialoga con le persone per dimostrare che i singoli possono convivere anche quando gli Stati e le ideologie si scontrano.

Donne alle terme il venerdì pomeriggioSaranno loro le persone che ridaranno il futuro agli Algerini? Kamel Daoud, editorialista de Le Quotidien d'Oran, è scettico verso l’ipotesi di una rapida via di fuga verso il progresso. Sulle pagine del suo giornale scrive che la fine del Fis (Fronte Islamico di Salvezza) non equivale alla morte dell’islamismo: “La matrice che fece nascere quel vasto movimento di violenza, di contestazione e di recupero delle miserie e delle frustrazioni – denuncia Daoud – è ancora lì, affascinante come una soluzione di ripiego e sempre passibile di reclutare la maggioranza dei “declassati” politici o sociali utilizzando le sue argomentazioni semplici e le sue ragioni ancora solide”.

Mentre gli spettri del passato si agitano ancora negli armadi della politica, gli occhi sono puntati sulla salute del Presidente Bouteflika, colui che al momento garantisce l’unità tra le anime del paese e gode di un’indiscutibile popolarità.

Voci da Algeri (4)
Ministra Toumi: “Il dialogo dell’Occidente con il resto del mondo è un monologo

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Voci da Algeri (3)
Abdelkader Bouazzara, il Maestro che iniziò a suonare con fili da pesca e barattoli d’olio


Voci da Algeri (2)
"In paradiso ne vedremo delle belle". Parola di focolarina


Voci da Algeri (1)
Se il David di Michelangelo si potesse muovere avrebbe già lanciato la sua pietra contro qualcuno

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