mercoledì, marzo 23, 2011

La rana nel pozzo di Su Tempiesu

Nel cuore dell'isola arrivò un nuovo allarme. Un altro gruppo di legionari romani era approdato sulle coste orientali. Marciava indisturbato verso l'entroterra, verso le montagne cuore del loro mondo. Il giovane principe della tribù di Su Tempiesu sentiva che la fine era vicina. Lui, che aveva viaggiato nel continente, sapeva che quegli uomini in calzari erano un piccolo manipolo di un grande popolo.

I nuragici si erano rinchiusi nelle montagne al centro dell'isola e lì, pietra dopo pietra, si erano sfidati a vicenda nell'imponenza di forme semplici. I Romani invece si erano spinti verso il mare e là avevano conosciuto le forme nella cui raffinatezza la nuda pietra compariva solo come materiale. I secoli sull'isola erano passati senza lasciare traccia: le tribù dei nuragici, sole in mezzo al mare, avevano combattuto tra di loro. I secoli sulla terra ferma, invece, avevano forgiato delle popolazioni: guerra dopo guerra, le genti italiche erano diventate un unico popolo, un'unica mente, un'unica spada.

Non aveva senso combattere. Non era più possibile costruire in un giorno il popolo che non aveva sentito il desiderio di nascere in millenni. Il giovane principe non poteva più fare nulla per salvare la sua tribù dall'invasione. Si sentiva orfano dell'isolamento millenario che il suo mare gli aveva garantito. Orfano e inconsolabile perché sapeva che le forme di pietra imponenti che le sue tribù avevano perpetrato per secoli stavano per scomparire. E sentiva che, quale che fosse l'eleganza delle nuove forme che sarebbero arrivate sull'isola, la perdita di una tradizione millenaria era qualcosa di doloroso, irreparabile, negativo. Vedeva nei suoi nuraghi la legna e nelle nuove civiltà la fiamma. Quest'ultima avrebbe bruciato i primi con un'esplosione di luce e di energia, ma poi sarebbe rimasta solo cenere, nulla in mezzo ai suoi monti. I loro legni invece erano lì da millenni. E quello era un valore.

Prima di darsi ai Romani, scese un'ultima volta nel tempio di Su Tempiesu. Si immerse nelle acque del pozzetto più grande, come sempre prima di officiare a un rito sacro. Poi, purificato dall'elemento liquido che sempre scorreva, sacrificò una piccola rana e la cosperse degli unguenti con cui solevano rendere impermeabili, durevoli e lucenti i loro trofei di caccia. Lavorò l'animale a lungo per essere certo di renderlo immune al tempo. Poi, riverso, lo gettò in fondo al secondo pozzo del tempio, quello più piccolo e più esterno. Intorno al principe solo montagne deserte e silenziose, come se il mare traditore, portatore dei Romani, non esistesse neppure. E di fronte quell'animale riverso, apparentemente morto nel suo elemento. Quello che infieriva alla rana era un destino crudele come quello del suo popolo, inspiegabilmente domato nella sua stessa terra, la nuda roccia di Sardegna in mezzo al Mediterraneo. Guardò l'animale un'ultima volta e si chiese se qualcuno mai, guardando quella rana, si sarebbe interrogato sulle ragioni della sua misteriosa scomparsa in quelle acque. Forse, se ciò fosse accaduto, quella persona si sarebbe interrogata anche sulla sacralità del luogo e sulla capacità di quel tempio di generare una morte così strana. E forse si sarebbe chiesto anche quale civiltà era stata in grado di costruire quella magia in quell'angolo così remoto. Se tutto questo fosse successo, forse allora qualche traccia della memoria del suo popolo non sarebbe mai scomparsa del tutto.

Così il principe cercò di compiere l'ultimo gesto in favore dei popoli nuragici, prima di scomparire nell'impero.