Un libro, già nel suo essere fisico nelle mani del lettore, è sicuramente un interruttore. Frase piena di implicazioni ripetutamente esplorate: tutto chiaro o quasi, ma non è questo il punto in oggetto. Qui si vuol prendere in considerazione quello strano fluire di illazioni che rimbalzano silenziose al contatto fisico con il testo, nel momento in cui questo è ancora materia volumetrica, nel momento cioè in cui il contenuto è ancora una promessa di incerta e futura affidabilità. Fermiamoci lì, in quello stadio in cui prendiamo un testo dallo scaffale della libreria, o lo posiamo sul tavolo per la prima lettura, o lo recuperiamo dal comodino a fianco al letto ove l’avevamo posato in un precedente momento di buoni propositi letterari. Fermiamoci lì e pensiamo un attimo.
Se di fronte a noi avremo un esame da superare imminente, il senso del dovere potrebbe anche prevalere immediatamente, trasformando quell’ammasso di carta in una serie di capitoli da “classificare” rapidamente per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Il nostro orizzonte di pensiero potrebbe essere già finito: all’università capita assai spesso. Ma se così non fosse, potrebbe anche esserci spazio per altro, per molto altro.
Supponiamo di essere superbe menti yoga, capaci di fondere pensiero e azione nel qui e nell’ora. Il contatto con la copertina potrebbe allora stimolare in noi un sublime rimando all’assoluto. Piacere puro, non negoziato. In quel momento tutto il sapere precedente nella sua sterminata vastità ci sembrerebbe un saggio amico arrivato dalla notte dei tempi per salutarci, per salutare proprio noi e proprio lì. Rivedremmo ogni libro sfogliato in precedenza come un’evidente e necessaria tappa di avvicinamento al nostro nuovo amico di carta appena preso in mano. E, nello stesso tempo, ci sentiremmo animali ebbri di immortalità, con un futuro inebriato di senso dal nostro nuovo libro.
Si vorrebbe che quel momento non si esaurisse mai. Purtroppo, però, lo fa quasi sempre e quasi subito. La prima domanda che ci allontana dalla cosmologia letteraria universale appena descritta è frequentemente una domanda molto innocente. Ci chiederemmo per esempio quali frasi arriveranno d’improvviso a confermare i nostri pensieri, dandoci il gusto della ridondanza. Il problema è che finiremo per pensarci troppo a lungo, chiedendoci per quale meccanismo subliminale del sistema siamo di nuovo lì a comperare l’ennesimo testo che ci ricorda le tesi amiche ripetute da sempre con tono evidentemente consolatorio.
Sull’orlo del baratro, recupereremo l’equilibrio e un po’ di ottimismo invertendo la prospettiva. Abbandonando le comodità del già noto, indosseremo gli abiti dell’esploratore. Eccoci allora a chiederci dove sarà “il nuovo” nascosto in quelle pagine. La curiosità ci darà una scarica di adrenalina, quasi torneremo a sentire l’assonanza con la conoscenza assoluta dei primi istanti, ma poi potremmo essere assaliti da un riflusso di pigrizia. Il succedersi delle novità potenziali potrebbe mostrarsi preoccupante, potremmo iniziare a sentire la fatica dell’apprendimento, potremmo iniziare a sentirci inadeguati non solo rispetto al futuro, ma anche rispetto a tutto il sapere prodotto in precedenza e ora a noi improvvisamente ignoto o dimenticato.
Solo Socrate potrebbe salvarci a quel punto. Ci diremmo, come ripeteva lui, che il vero sapiente è colui che sa di essere ignorante. Ma il paragone non regge, lo sappiamo, e finiremmo per convincerci di essere ignoranti senza neppure saperlo e senza neppure sapere il perché di tale ingiusto e sfortunato destino. Uno sconforto assoluto ci assalirebbe e ci sentiremmo inadeguati perfino rispetto al caffé che pochi stanti prima avevamo fatto venir su con tanta passione per prepararci alla lettura.
Potrebbe essere il disperante stadio finale della serie e talvolta lo è. Ma non fermatevi. Proprio perché un po’ ottuso il vostro gesto apparirà quasi irreale e la vostra tenacia assumerà qualcosa di innegabilmente bello. O quantomeno affascinante.
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