martedì, ottobre 18, 2011

Il sale e lo zucchero

Prese in mano il piccolo imbuto di carta che gli aveva preparato sua madre. Lo posizionò sul primo sacchetto e versò il sale e lo zucchero: un cucchiaino del primo, scarso, e tre abbondanti del secondo. I caffè lì vicino pagavano molto bene lo zucchero e sua madre, per arrotondare i pochi alimenti che le passava l'assistenza statale, vendeva anche il sale come zucchero. Il lavoro richiedeva un po' di tempo, ma Domenico era felice di contribuire e, due volte al mese, dava a sua madre cinque sacchetti equamente bilanciati e mescolati: era quasi impossibile, anche al gusto, rilevare la truffa.

Domenico amava passare il suo tempo tra il sale e lo zucchero perché gli sembrava l'unico momento in cui riusciva appieno a mescolare qualcosa. Per il resto la sua vita era come ritagliata in una serie di scatolette, che assolutamente non si dovevano rivelare l'una all'altra.

Qualche pomeriggio saliva in casa di Almira. Era una donna della stessa età di sua madre, ancora giovanile. Domenico, privo del padre, la considerava quasi l'altra metà della sua famiglia. Almira era l'unica persona adulta che si fermava qualche volta a giocare con lui: l'anno prima gli aveva anche fatto un regalo, una borsa in pezza, povera nei tessuti ma ricca nei colori. Domenico la usava sempre perché con essa si sentiva più grande e legato a qualcuno. Quando gliela aveva fatta vedere per la prima volta, Almira gli disse: “Questa è il segno della nostra amicizia. La pezza rossa sono io, mentre la pezza bianca sei tu. Sono legate assieme da mille nodi: uno per ognuno dei nostri legami. Siamo una famiglia e non ci tradiremo mai”. E Domenico, infatti, mai al mondo l'avrebbe tradita. Saliva su con lei in casa, il pomeriggio, e quando gli uomini entravano, lui si nascondeva dietro il divano, tappandosi le orecchie per udire il meno possibile. Sentiva lo stesso tutto quello che avveniva nella stanza, ma lo cancellava subito. Quando scendeva di nuovo in strada con Almira, la baciava in fronte e scappava via forte nella strada per non incontrare nessuno e mettere più tempo tra sé e la menzogna che avrebbe dovuto raccontare.

Domenico non raccontava a nessuno di Almira, neppure a sua madre. E neppure di quest'ultima raccontava molto. La donna, la sera, lo addormentava con le sue storie di carovane e viaggi. Spesso gli raccontava la vera storia della sua nascita. Gli parlava del soldato che l'aveva salvata dalle persecuzioni. Della fuga tra le montagne: lui con la divisa, lei con una camicia leggera, uno scialle e una gonna larga. Gli descriveva l'uomo come un principe azzurro: senza paura di orsi e mostri del bosco, imbattibile nei combattimenti con i tedeschi cattivi. Il momento più commovente arrivava quando sua madre raccontava l'ultimo gesto di suo padre, o forse quello che lei aveva inventato per descriverne l'abbandono: una lunga nuotata in un lago freddo al nord per salvare lei già in attesa di Domenico.

Domenico al suo primo giorno di scuola a Rimini aveva provato a raccontare le storie di sua madre agli altri allievi. Ma questi l'avevano guardato sospettosi: ogni luogo citato nel suo racconto era scrutato con troppa curiosità, quella che alla prima occasione è pronta a tradursi in una minaccia. Domenico allora aveva ritrattato. Aveva dichiarato di aver inventato tutto da un libro di fiabe. E al posto dei racconti di sua madre, ne aveva inventato uno lui, in cui era nato nelle colline fuori città ed era venuto in città per studiare solo con sua madre, dopo che il padre era morto per un incidente sul lavoro. Non era vero ma plausibile e nel tempo aveva sempre avuto la prontezza di completare quel racconto fatto per tranquillizzare gli amici con dettagli coerenti ai precedenti.

Non invitava mai nessuno a casa sua, da sua madre e dall'Almira. E a queste donne non raccontava mai nulla delle storie che inventava per gli amici. Quanto a sua madre, poi, essa era sufficientemente abituata per mantenere il massimo riserbo con le insegnanti. Aveva attraversato il mondo da sola con un figlio senza anno di nascita. Le abitudini della società riminese non rappresentavano per lei un ostacolo difficile da maneggiare.

Solo per tutti rimaneva l'obbligo del riservo. E più cresceva, più Domenico sentiva che in questo riservo nasceva una certa artificialità. E quando prendeva coscienza di questo, non riusciva a non invidiare la naturalezza con cui il sale si mescolava allo zucchero.