mercoledì, febbraio 23, 2011

La fatica di correggere

Sul tavolo c'erano già alcuni bicchieri vuoti, quando Andrea chiese a Filippo se aveva letto Oceano mare di Baricco. Era la classica domanda che Andrea, fisico col vizio della letteratura contemporanea, amava fare più spesso a Filippo, l'amico storico con gusti letterari più ottocenteschi.
“Ricordi – domandò – il personaggio che rimane tutto il tempo seduto sulla spiaggia per studiare dove finisce il mare? E' uno dei mie personaggi preferiti: è come se lo vedessi di fronte alle onde che vanno e che vengono, a testimoniare quanto c'è di romantico nel misurare”.
“Lo ricordo molto bene” rispose Filippo, rompendo il copione che lo voleva impreparato sulle uscite più recenti del Novecento. “Non è il solo personaggio intrigante: l'intera trama lo è. Mi sono annotato il punto in cui uno dei personaggi osserva che con la razionalità si fanno spesso scelte che poi diventano spine pungenti ai sussulti dell'istinto”.

Andrea e Filippo sedevano a un tavolo lontano da casa. Le voci spagnole attorno al caffè del barrio gotico di Barcellona erano per entrambi piacevolmente estranee. Erano parentesi che sentivano la necessità di ritagliare dai loro mondi imperfetti. Non sbagliati, solo imperfetti. Era una questione di aspetti: un contesto sociale un po' troppo chiuso per l'uno, un'eredità sentimentale ingombrante per l'altro.

“Io credo che tu debba cambiare luogo” diceva Andrea a Filippo.
“E io credo che tu debba aprirti ad altre persone” suggeriva Filippo ad Andrea.
Entrambi potevano tramutare in realtà quei desideri molto sensati. Entrambi però tardavano a farlo. Per natura il loro tempo, già invaso dal senso del dovere, era conteso dal piacere del conversare, del leggere, dello scrivere, del viaggiare, dalla curiosità di conoscere un'altra persona e perdersi nei meandri della sua mente e, a volte, del suo corpo.

“Secondo me – disse Andrea – la nostra vita si esprime in una frase. Non siamo nati artisti, non siamo sufficientemente colti per diventare critici, ma ormai abbiamo fatto troppa strada per poterci accontentare di essere pubblico”.

“Qualcosa di simile deve averlo detto anche un critico - confabulò Filippo – ma non credo che stia qui il punto. Dimenarsi con quanto si ha per non morire da pubblico prima del tempo forse è già molto più di niente, anche se non si è nati artisti, anche non si è diventati critici. Il fatto vero è un altro. E' che gli errori sono romantici. Non sono mai sbagliati del tutto. Le scelte sbagliate, è vero, a volte ti sbalzano lungo percorsi che non senti per niente tuoi. Ma, percorrendoli, alcuni luoghi, alcune persone diventano tuoi. E allora cambiare direzione non è più una decisione che riguarda solo te. Tocca anche loro e la fitta trama di rapporti che ormai ti avvolge”.

martedì, febbraio 22, 2011

Il simbolo della vespa rossa

Aveva solo quindici anni quando, con i risparmi del primo anno di lavoro, si comprò una vespa usata. La volle rossa. Era l'unico colore che poteva immaginare: lui, famiglia operaia, già operaio a sua volta, poteva viaggiare solo su quel colore. Aveva visto suo padre scioperare per un aumento contrattuale e aveva già scioperato anche lui per una pausa più lunga a metà turno. Lo sentiva come un dovere e lo viveva come un piacere: era il modo più bello per stare insieme, un'intera fetta di paese, unita, conscia di se stessa, fronte unico di fronte al padrone. La fabbrica cresceva: produceva sempre più mattonelle, era una potenza economica che in quel paese di quattromila persone aveva il peso di una multinazionale. Generava i suoi ricchi. A loro spettavano le loro battaglie e la lotta per una porzione di privilegio.

La vespa rossa era ancora la stessa, ma oggi, venticinque anni dopo, la fabbrica era solo un guscio vuoto circondato da una vegetazione anonima: erbacce tra le crepe dell'asfalto nel parcheggio, grumi di terra rappresa sulle grondaie, qualche spino e le prime robinie sotto una tettoia di eternit verdognola. Massimo Cairoli era seduto lì di fronte allo scheletro di fabbrica come un vecchio ragazzo del muretto. I capelli, venati di bianco erano ancora lunghi e acconciati come ai tempi della protesta. Il foulard, anche, era lo stesso di anni prima: bianco e nero, i colori della jihad. Lui, in gran parte era lo stesso di allora: sognava di ritrovare i colleghi fuori dell'ingresso, fare una battuta sulla macchina del capo, partire per una protesta.

Solo che ora non sapeva più esattamente per cosa e contro chi protestare. Non era mai successo che la fabbrica chiudesse. Suo nonno, suo babbo, lui avevano imparato a difendere la loro fetta. Poi non si ricordava neppure come, le sue maniere si erano estinte. I compagni lo ascoltavano alla macchinetta, ma poi il giorno dopo non erano con lui sul piazzale: uno aveva un aumento da difendere, un altro un figlio piccolo da crescere, un altro un contratto a breve termine da rinnovare, un altro, semplicemente, non voleva rischiare di suo. Erano ancora in fabbrica, ma non più uniti. E poi, chi parlava con loro, non invitava più a lottare per una fetta della torta, ma suggeriva di rinunciare a una briciola per evitare che un intero fianco si sgretolasse. Le ragioni erano varie, ampie, ramificate. Inutile parlarne.

Massimo Cairoli non voleva smettere di essere di sinistra. Gli era piaciuto esserlo: era stato operaio, con la certezza di essere diverso dal nemico storico, ma in mezzo a una quotidianità semplice, quasi rituale, si era concesso di imparare da un film che la carta bruciava a 451 gradi Fahreneit. E su quelle scene di Truffaut se l'era giocata anche con chi aveva studiato in città. Li aspettava al bar e gli pagava da bere per umiliarli della loro lacuna.

Ora non poteva consumare più nessuna vendetta. La gente non riconosceva la sua citazione, ma non si sentiva neppure in colpa per non conoscerla. Gli rispondevano che il Berlusca non stava a perdere tempo con quelle storie. E lui allora replicava ma senza troppa forza. In fondo, quel presidente che sembrava credere ancora al pericolo comunista era l'unica cosa che, per contrasto, lo faceva sentire ancora di sinistra. Per il resto aveva solo dubbi.

In quell'incertezza si era bevuto molto, compreso la famiglia. E ora era solo, senza più classe. Quella era rimasta solo alla sua vespa rossa. Un pezzo grosso del Rotary Club gliela avrebbe pagata più di seimila euro, anche solo per il telaio. Era ancora un simbolo. Ma per un altro mondo.

giovedì, febbraio 17, 2011

L'imprevedibile danza del desiderio

Cinquant'anni, ricercatore affermato, amministratore desiderato, Giulio portava la sua esperienza con responsabilità e autoironia. Sapeva che la fitta trama di relazioni sociali in cui era inserito aveva una consistenza reale: anzi, esistenzialista nel profondo, sentiva come un dovere la necessità di impegnarsi duramente per modificare quanto più il sistema di forze di cui era parte. Aveva sempre pensato che Sarte avesse ragione: il piacere della vita stava nella fatica di decidere costantemente la propria posizione, senza mai tirarsi indietro, senza mai lasciare scorrere gli eventi. Però, e per questo si sentiva orgoglioso, in qualche modo migliore di altri, guardava alla partita di Risiko della sua vita con distacco autentico. Il gioco poteva fare a meno di lui. Certo, se fosse scomparso, forse si sarebbe saltato un turno nel decidere a chi toccava proseguire dopo, ma poi si sarebbero riscritte le regole e la partita sarebbe continuata rigenerando se stessa eternamente. Già perché chiunque alla fine la vinca, in quei pochi casi che si arriva a un vincitore chiaro, poi si crea un nemico per ingannare la noia e continuare.

Giulio si definiva sotto voce un esistenzialista epicureo. Mica poco, pensava. E proprio per questo si sentiva profondamente irritato quando di fronte alle decisioni da prendere, sentiva l'agitazione salire. “Ancora?” si chiedeva contrariato.

Non doveva essere così. Si ricordava ancora quando ormai trentacinque anni prima si era seduto sui banchi della prima liceo. L'insegnante gli aveva chiesto se aveva paura del percorso di studi che l'attendeva e dell'esame finale che avrebbe dovuto superare per il diploma. Lui rispose che aveva paura dell'inizio, ma non della fine. I ragazzi di quinta erano già grandi e all'epoca per lui essere grandi significava dispensare certezze: i grandi conoscevano le strade, sapevano pagare le bollette, non avevano paura del buio, non avevano problemi a scrivere o a far di conto. Dunque era chiaro: un ragazzo grande sapeva come prepararsi a un esame e, conosciuta la ricetta infallibile, si trattava solo di eseguirla passo a passo per un successo assicurato.

All'esame di maturità, quando impiegò un'ora a impostare l'integrale per il calcolo del volume del prisma oggetto del problema, le sue certezze avevano già subito alcuni colpi. In geometria ogni linea tracciata era una lama nelle sue sicurezze e, a ben vedere, anche di fronte al foglio bianco del tema c'erano varie incognite: chi gli garantiva che le sue idee potessero interessare a qualcuno o che tutti le potessero comprendere agevolmente attraverso la propria esposizione?

Ora, è vero, quei problemi non lo assillavano più. Riempiva pagine, moduli, discorsi con l'agilità di una lunga esperienza. Però bastava essere un po' stanchi per restare sorpresi di fronte a una domanda: ne arrivavano in continuazione e solo la risposta giusta era accettata. Ma quale era a volte la risposta giusta? E, ancora, c'era altro che non aveva compreso: essere esistenzialisti come lui si professava significava vivere il proprio tempo bagnandosi ogni giorno nell'urgenza delle scelte quotidiane o era restare al di fuori dei giochi, guardare il Risiko degli altri e diventare sapienti studiandone le regole?

In vero c'era poi una domanda ancora più basilare che lo tormentava. Se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto vivere in pace. Se lo poteva permettere. E allora perché non accettare la quiete?
“Che domande stupide ti fai ancora?” si schernì. Se c'era una cosa che nel suo essere epicureo esistenzialista aveva imparato era proprio la risposta a questa domanda. Nella quiete può restare solo chi non l'ha mai abbandonata. Chi l'ha lasciata anche solo una volta, poi, la potrà abbracciare intensamente solo per poche ore, prima di abbandonarla e cercarla altrove nell'imprevedibile danza del desiderio.

mercoledì, febbraio 09, 2011

Le pizze al taglio e le altre invasioni

Giovanni e Umberto lavoravano insieme saltuariamente da diverso tempo all'organizzazione di percorsi espositivi nel cuore della Romagna. Giovanni, più giovane, seguiva gli aspetti organizzativi, senza lesinare alzate di voce per il rispetto delle scadenze, mentre Umberto, il decano del settore in quella fetta di territorio, metteva più attenzione ai contenuti, sempre fedele nell'abbigliamento e nelle scelte al metodico e sistematico approccio marxista alla cultura. In un continuo negoziato tra limiti di spesa, estetica e rigorosità, i due lottavano fianco a fianco per non perdere mai la fiducia nelle proprie illusioni e il termine ultimo per dare l'ok si stampi al nuovo catalogo.

Costume caro a entrambi era quello di dirottare in silenziose caffetterie del centro di Cesena gli incontri meno operativi, quelli in cui si scandiva il calendario, si sceglievano gli artisti, si ipotizzavano le collaborazioni istituzionali. Così tra un'incombenza e l'altra capitava anche di fare due passi in compagnia, fino alla fermata dell'autobus dell'uno o fino all'auto dell'altro.

Fu in uno di queste occasioni conviviali, che a tutti e due davano la piacevole sensazione di un incontro redazionale vecchio stile, che il giovane e il decano si incontrarono di fronte alla Barriera di Cesena.
“Qui – esclamò Umberto – aprirono la prima pizzeria al taglio della città. Scoppiò proprio un casino: te l'immagini? La pizza nel tempio della piadina, il commercio che invadeva la tradizione?”
Giovanni sorrise e guardando di sfuggita il cappello di Umberto scommise di conoscere da che parte della barricata l'amico si era schierato.
“Fu – proseguì Umberto – come quando aprirono il primo McDonald's a Bologna, che era ancora rossa, in fondo a via Indipendenza. Sui giornali c'era solo un tema!”.

Il decano parlava dei suoi ricordi con visibile stupore, quasi incredulo di fronte al nulla, all'assoluta normalità che quei dibattiti avevano lasciato. Mentre Giovanni ascoltava e quasi in colpa guardava il compagno come un oggetto di studio: cercava di capire, senza fare male a sogni troppo preziosi per essere sfiorati, quanto Umberto fosse simile oggi al ragazzo che aveva vissuto come protagonista quei fatti. Allora, ne era sicuro, Umberto doveva aver difeso prima i piadinari dall'invasione della pizza e poi i pizzaioli dall'invasione del fast food: la sua doveva essere stata una difesa senza incertezze, rossa nell'ispirazione, ma cattolica per intransigenza e dogmatismo.

“E ora?” si chiedeva Giovanni. Umberto era ancora lì, fermo, o aveva accettato un dialogo più aperto con il mondo? Ora che anche lui mangiava tranquillamente pizzette al taglio restava fedele alla sua battaglia o si sentiva un po' bigotto come quelli che al tempo, da altro fronte, avevano detto no al divorzio o all'aborto?
E ora con che occhi guardava le stranezze del mondo? Il piccolo pizzaiolo, nel frattempo diventato custode della tradizione, deve barcamenarsi nelle incertezze dell'economia con contratti capestro ai dipendenti e ingredienti di seconda fascia. McDonald's, invece, prende quasi in giro le sue origini con ricette leggere, cibi doc, etica della salute.

Giovanni tenne per sé queste domande. Ancora vive nella mente, scelse di portarsele a cercare una risposta a pochi chilometri da lì. Avrebbe sfruttato la quiete del parco fluviale, prima di rientrare in ufficio, per pensarci un po' camminando. Da solo, lungo il fiume, le idee avrebbero sicuramente la linfa necessaria. In pochi minuti fu a fianco del corso d'acqua, ma invece di pensare a Umberto sorrise calciando una pietruzza. Se lui era lì, era principalmente perché i poeti inglesi, i filosofi tedeschi e una vasta schiera di romantici parolieri aveva creato il mito della natura vergine come luogo di raccoglimento e contemplazione. Umberto non era solo. Anche lui aveva già una memoria culturale sufficientemente lunga per usarla come lente di ingrandimento di fronte a ogni granello di presente.