lunedì, agosto 25, 2008

Di fronte a un libro, fisicamente

Un libro, già nel suo essere fisico nelle mani del lettore, è sicuramente un interruttore. Frase piena di implicazioni ripetutamente esplorate: tutto chiaro o quasi, ma non è questo il punto in oggetto. Qui si vuol prendere in considerazione quello strano fluire di illazioni che rimbalzano silenziose al contatto fisico con il testo, nel momento in cui questo è ancora materia volumetrica, nel momento cioè in cui il contenuto è ancora una promessa di incerta e futura affidabilità. Fermiamoci lì, in quello stadio in cui prendiamo un testo dallo scaffale della libreria, o lo posiamo sul tavolo per la prima lettura, o lo recuperiamo dal comodino a fianco al letto ove l’avevamo posato in un precedente momento di buoni propositi letterari. Fermiamoci lì e pensiamo un attimo.

Se di fronte a noi avremo un esame da superare imminente, il senso del dovere potrebbe anche prevalere immediatamente, trasformando quell’ammasso di carta in una serie di capitoli da “classificare” rapidamente per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Il nostro orizzonte di pensiero potrebbe essere già finito: all’università capita assai spesso. Ma se così non fosse, potrebbe anche esserci spazio per altro, per molto altro.

Supponiamo di essere superbe menti yoga, capaci di fondere pensiero e azione nel qui e nell’ora. Il contatto con la copertina potrebbe allora stimolare in noi un sublime rimando all’assoluto. Piacere puro, non negoziato. In quel momento tutto il sapere precedente nella sua sterminata vastità ci sembrerebbe un saggio amico arrivato dalla notte dei tempi per salutarci, per salutare proprio noi e proprio lì. Rivedremmo ogni libro sfogliato in precedenza come un’evidente e necessaria tappa di avvicinamento al nostro nuovo amico di carta appena preso in mano. E, nello stesso tempo, ci sentiremmo animali ebbri di immortalità, con un futuro inebriato di senso dal nostro nuovo libro.

Si vorrebbe che quel momento non si esaurisse mai. Purtroppo, però, lo fa quasi sempre e quasi subito. La prima domanda che ci allontana dalla cosmologia letteraria universale appena descritta è frequentemente una domanda molto innocente. Ci chiederemmo per esempio quali frasi arriveranno d’improvviso a confermare i nostri pensieri, dandoci il gusto della ridondanza. Il problema è che finiremo per pensarci troppo a lungo, chiedendoci per quale meccanismo subliminale del sistema siamo di nuovo lì a comperare l’ennesimo testo che ci ricorda le tesi amiche ripetute da sempre con tono evidentemente consolatorio.

Sull’orlo del baratro, recupereremo l’equilibrio e un po’ di ottimismo invertendo la prospettiva. Abbandonando le comodità del già noto, indosseremo gli abiti dell’esploratore. Eccoci allora a chiederci dove sarà “il nuovo” nascosto in quelle pagine. La curiosità ci darà una scarica di adrenalina, quasi torneremo a sentire l’assonanza con la conoscenza assoluta dei primi istanti, ma poi potremmo essere assaliti da un riflusso di pigrizia. Il succedersi delle novità potenziali potrebbe mostrarsi preoccupante, potremmo iniziare a sentire la fatica dell’apprendimento, potremmo iniziare a sentirci inadeguati non solo rispetto al futuro, ma anche rispetto a tutto il sapere prodotto in precedenza e ora a noi improvvisamente ignoto o dimenticato.

Solo Socrate potrebbe salvarci a quel punto. Ci diremmo, come ripeteva lui, che il vero sapiente è colui che sa di essere ignorante. Ma il paragone non regge, lo sappiamo, e finiremmo per convincerci di essere ignoranti senza neppure saperlo e senza neppure sapere il perché di tale ingiusto e sfortunato destino. Uno sconforto assoluto ci assalirebbe e ci sentiremmo inadeguati perfino rispetto al caffé che pochi stanti prima avevamo fatto venir su con tanta passione per prepararci alla lettura.

Potrebbe essere il disperante stadio finale della serie e talvolta lo è. Ma non fermatevi. Proprio perché un po’ ottuso il vostro gesto apparirà quasi irreale e la vostra tenacia assumerà qualcosa di innegabilmente bello. O quantomeno affascinante.

venerdì, agosto 15, 2008

Quando Chatwin invitò Gogol a partire

Sui gradini di una biblioteca affacciata al mare Bruce Chatwin si trovò a muovere alcuni passi vicino a Nicolaj Gogol. L’inquieto viaggiatore inglese sostava sulle rive del Mediterraneo solo per alcuni giorni: giusto il tempo di trovare le corrispondenze bibliografiche alle ultime citazioni raccolte dal cuore dell’Australia. L’abulico scrittore russo invece si godeva una piccola boccata d’aria fresca: erano giorni che non usciva di casa, sempre indeciso sul modo più efficace di vivere la sua giornata.

Quando Chatwin vide alla luce del sole la tempra smagrita del suo collega di penna russo non poté reprimere un consiglio. “Dovresti partire anche tu” gli disse. “Rompere gli schemi, abbandonare la routine avrebbe sicuramente degli effetti positivi sul tuo corpo, sulla tua mente e sulla tua penna. Sono sicuro che troveresti nella partenza un nuovo lancio vitalistico”.

Gogol non fu sorpreso da quel consiglio. Lo scribacchino inglese con il vizio del nomadismo era forse il più famoso ad averglielo suggerito, ma tutti, dalla vecchia madre alla governante, si prodigavano per dargli uno stimolo. Tutti lo continuavano a trattare come un bambino senza appetito, ripetendo ossessivamente che il sole avrebbe potuto fare miracoli su di lui. “Quante parole sprecate” pensò unendo disprezzo e pietà. Poi alzò leggermente lo sguardo verso l’inglese, asciutto e abbronzato, che ancora aspettava una risposta: “E partendo cosa credi di risolvere?” gli disse. “Pensi forse che partendo tu possa veramente dimostrare a te stesso di valere qualcosa, di giocare una partita con un ruolo più protagonista di chi rimane? Pensa piuttosto ad ascoltare l’ansia che ti dovrebbe accompagnare, l’ansia di capire se il tuo è coraggio di partire o mancanza di determinazione del rimanere. Hai mai provato a restare fermo, immobile e a pensare davvero a cosa fare per rendere utile lì e ora il tuo gesto successivo?”.

“Stando alla tua fama, non ti facevo così pungente” ammise l’inglese. “Lasciami dire però che le frecce che lanci per difendere la sedentarietà della tua mente e del tuo corpo sono solo aristocratici giochi dialettici tipici di chi spende troppo tempo a pensare a una parola per capirne davvero il senso. Partire non è un gesto unico, una fuga dal qui e dall’ora. E’ piuttosto la scelta di rimanere per sempre dei forestieri, di non dare mai per scontato chi si è veramente, di dover spiegare ogni giorno il proprio percorso, raccontandolo ogni volta in un modo diverso, con un senso diverso. Partire, cambiare in continuazione significa rendere perenne la condizione del bambino, che non solo curioso, ma soprattutto innocente, può chiedere all’adulto con il privilegio della prima volta, con il privilegio di chi parla senza le furbizie interpretative che l’esperienza consente e che nei rapporti maturi diventano totalizzanti”.

“E cosa mai dovresti chiedere a tutti i tuoi forestieri?” sbottò ironico e disinteressato il russo. “Il loro modo di vivere, di sentire, di pensare o di pregare? Per quante risposte i tuoi sconosciuti ti daranno, mai avrai da loro la risposta che cercavi. I tuoi pastori, i tuoi nomadi, saranno solo compagnie surrogate. Non potrai che odiarli, perché loro, felicemente fermi nel loro mondo, non potranno mai capire il tuo. Non ti ascolteranno e ignorandoti costringeranno a reprimere nel silenzio della tua sera l’ansia che ti ha condotto così lontano fino a loro. E allora che senso ha partire? Posso senza dubbio continuare a pensare senza il tuo viaggiare”.

Nessuno aggiunse altro. L’inglese scese le scale pensando furiosamente al russo che rimaneva. E il russo restò immobile pensando stancamente all’inglese che se ne andava.

giovedì, agosto 07, 2008

Tra due mondi in compagnia di Thomas Mann

Un’altra mail, l’ennesima, mi chiede se a distanza di due anni dal primo post di questo blog abbia trovato la sintesi tra i due mondi che nel 2006 contendevano senza soluzione di continuità le mie simpatie. Credo sia dunque giunto il momento di esternare per il mio piccolo pubblico, ma soprattutto per me, l’evoluzione del mio intricato rapporto tra l’approccio speculativo al mondo della cultura cittadina e la tranquillizzante ripetitività dei cicli naturali della collina, tra il caos frenetico della metropoli e la quiete, talvolta eccessiva, del piccolo borgo. Metterò il mio stato dell’arte per iscritto, anche se forse non sarà né semplice, né lineare approdare alla fine di questo post agostano che segue le incerte geometrie di un pensiero a tratti incompleto.

Il puntello, che poi è stato chiaro da sempre, ancora da prima che ne potessi conservare memoria, è la mia vaga avversione per l’eccesso di civiltà. Là dove c’è folla, ovunque essa sia, subito sento l’eco di un certo sdegno. Neppure il bello per eccellenza, intrappolato tra le spalle di una folla, mi sembra più tale. Preferisco un muricciolo in pietra di più modesta fattura, col quale instaurare un dialogo più personale, privo dell’apparato critico che troppo spesso pregiudica l’approccio ai luoghi più importanti. Preferisco un cappuccino tiepido sul terrazzo di un bar di provincia, dove la porta aperta sul caotico ripostiglio ti lascia la sensazione di poter restare a lungo senza infastidire. Preferisco chiedere informazioni a una vecchia coppia che mi domanda perché sono lì, piuttosto che dover competere per attirare l’attenzione di un passante che desidererebbe non avermi mai visto. Preferisco tutto questo e, dopo aver passato alcuni momenti speciali tra i quattro muri di Portico, in Romagna, e di Silverton, in Australia, so che è lì che devo restare per godermi appieno la maggior parte del tempo.

Proprio in Australia, però, ho anche sperimentato la nostalgia dalla penna e dal pensiero che mi assale entrando in prima persona nella routine quotidiana delle azioni di un’azienda agricola o di un ristorante. Basta uno spunto storico, una curiosità toponomastica o un rimando narrativo per spingermi verso i silenzi di un archivio o di una biblioteca e da lì alla fitta rete di rimandi bibliografici che abbraccia ogni ramo del sapere. Basta uno spunto per stimolare il desiderio di una conversazione che troppo spesso nel piccolo borgo rimane un monologo.

Quando lasciai Bologna per Sydney, nel dicembre 2006, ero convinto che il giornalismo potesse essere il campo in cui fondere queste due opposte esigenze di ruralità e di racconto. Talvolta lo è, come mi ha ricordato pochi giorni fa la mia trasferta in Liguria assieme alla carovana del CamminaMare, ma al giornalismo di oggi e forse a quello di sempre non si può chiedere di sostenere la nascita di una parola cosciente e vissuta. Anche l’editoria in fondo è un’industria e nella sua dialettica tra costi e ricavi la spesa per avere articoli che nascano da cronache vere è troppo alta rispetto ai ricavi che esse garantiscono. E’ vero ovunque e ancor di più se l’oggetto di tali cronache devono essere zone poco popolate, marginali, economicamente povere.

La fusione tra parola e paesaggio trova una realizzazione molto più forte in una visita guidata. Le tante piccole visite condotte in altrettante amene località si sono rivelate in questi mesi sovraccarichi di impegni stimolanti fogli bianchi, terreni fertili per ancorare il sapere di un libro alla forma di un edificio o alle tracce di un sentiero. Ogni appuntamento è stato l’occasione per generare testi che non fossero cronaca ma racconto, non mera trasposizione ma costruzione. Ognuno di essi aveva un inizio, una fine, uno sviluppo, capitoli imprevisti, che solo io ero a decidere, con tutti i problemi del caso.

Finora il vero inconveniente di questa produzione di contenuti è stata la sua sostenibilità economica, già ancora lei. Non solo come introito assoluto, ma anche come pretesa di pagamento per una prestazione così amata. Tra poche settimane avrò modo di giocare la partita che, come risultato finale, potrebbe essere la risoluzione anche di quest’ultimo problema, non del tutto marginale in una società in pieno capitalismo maturo. Verso quella sfida, non facile ma per questo avvincente, mi sto concentrando con un’unione di intenti di cui ero orfano da tempo. E’ come se il desiderio di conoscere altro che mi aveva spinto a lasciare Bologna due anni addietro trovasse ora la sua valvola di sfogo: eccomi così a ogni momento disponibile, di nuovo tra i libri. Ed eccomi così, protetto da una socialità ridotta al minimo, in dialogo continuo con letteratura, arte, storia, lingue, diritto, geologia e botanica. Uno spettro ampio che meravigliosamente si adagia nella mia totale ritrosia alla scelta del particolare.

Nel preparare tale sfida e le altre più o meno simili che la affiancano, non ho potuto frenare un sorriso imbattendomi in una pagina di Thomas Mann. Ve la riporto qui di seguito. Mi è sembrato incredibile quanto Tonio Kroger, il protagonista, riflettendo sul suo continuo oscillare tra misura borghese e foga artistica, si lasciasse a formulazioni dialettiche così adatte per trovare nuova eco in questo minuscolo angolo di web.

Buona lettura!

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“Ed ecco che cosa ne risultò: un borghese sviatosi nell’arte, un bohemien pieno di nostalgie per la buona educazione, un artista con rimorsi di coscienza. Perché appunto la mia coscienza borghese è quella che in tutto ciò ch’è arte, genio ed eccezione, mi fa scorgere alcunché di profondamente ambiguo, profondamente dubbio, profondamente sospetto; è essa che mi riempie di quest’amorosa debolezza per il semplice, il candido, il piacevolmente normale, insomma per l’anti-genialità e la costumatezza.
Io mi trovo in mezzo a due mondi, senza sentirmi a casa mia in nessuno di essi, e questo mi procura qualche difficoltà. Voi artisti mi chiamate borghese, e i borghesi sono tentati di mettermi in prigione… non so, fra le due cose, quale mi addolori di più.”

(Thomas Mann, da Tonio Kroger, 1903)

martedì, agosto 05, 2008

Andare, per la voglia di scrivere e parlare

“Parti ancora per i monti?” chiese la madre, una signora di mezza età dallo stupore facile, alla figlia china sullo zaino. “Non mi ricordavo tutto questo spirito agonistico”.
“Non lo è mamma” rispose Francesca. “Non lo è infatti”.
“E’ allora cosa vai a fare su e giù per quei dirupi ogni volta che puoi?”.
“E’ piacevole, è semplicemente piacevole” fu la risposta.
Francesca non aveva voglia di provare a spiegare troppo il desiderio che la spingeva alla partenza a ogni occasione: in parte temeva di restare incompresa e in parte sapeva che quel suo desiderio aveva qualcosa di misterioso e di oscuro anche per lei. Il suo piacere era più un’intuizione che un ragionamento. Era chiaro ma inafferrabile come gli ultimi pensieri prima del sonno.

Nel pomeriggio, seduta a fianco di un rudere, la ragazza ripensò al breve dialogo del mattino, prima della partenza. Senza dare nell’occhio, allora, si defilò per un attimo dalla compagnia che come al solito l’accompagnava. Su un foglio leggermente macchiato di unto annotò alcune considerazioni sul suo ultimo cammino, cercando in esse le risposte che non aveva voluto e saputo dare alla madre. In un paio di bozzetti tratteggiò il paesaggio. In un paio di corsivi riassunse le battute scambiate con un passante occasionale. E, in un breve elenco puntato, citò tutti i temi di cui ricordava di aver parlato lungo il cammino.

Né la descrizione del paesaggio, né i dialoghi, né l’elenco dei contenuti contenevano l’essenza cercata. Però quegli scarabocchi a penna avevano un significato. Erano il suo approccio a quel mondo. Per lei, ragazza più di parole che di azione, le riflessioni scritte erano l’unico modo per fare proprio un mondo amato, ma per molti altri punti di vista estraneo. Non solo: quegli appunti erano tanto più importanti perché erano l’unico luogo dove potevano essere presi. Al di fuori dei suoi monti, Francesca temeva di non aver nulla da dire.

Fu così che la volta successiva la figlia riuscì infine a rispondere alla madre. “Ci siamo ancora?” le chiese questa. “Sì – le spiegò lei – oggi, anche oggi, ho voglia di scrivere e parlare”. Poi si diresse verso l’alto, in attesa di capire se il suo essere era più estetico o più crepuscolare o se era qualcosa d’altro del tutto.