domenica, marzo 04, 2012

L'emergenza troppo breve

Fuori era notte inoltrata: sulle strade poche auto, nell'aria solo i rumori di qualche ubriaco che usciva dalle discoteche. La luce all'ultimo piano della palazzina però era ancora accesa. Dentro un tavolo disordinato: mappe e faldoni mescolati a cartoni di pizza e bicchieri di rum. Qua e là, sulle carte, le macchie rosso chiaro del pomodoro e quelle di colore più intenso lasciate da gocce di vino. Il grande monitor all'angolo proiettava le immagini di un vecchio film western. Erano scene senza trama, legate da un filo sottile, la cui ricerca impegnava tutti i membri del comitato, seduti disordinatamente attorno al tavolo.

Le cinque persone lì raccolte erano l'ultimo avamposto nella notte lasciato operativo dall'emergenza di una settimana intera. Le condizioni meteo erano state buone fino a quel mattino, ma le previsioni avevano da sole montato l'allerta. Erano attesi molti centimetri di neve e l'intera viabilità, la rete elettrica, quella idrica, potevano essere a rischio collasso. Le previsioni avevano circolato tra gli uffici generando reazioni diverse: alcuni ne avevano fatto un oscuro presagio, cercando di anticiparne ogni effetto, simulandone la massima magnitudine. Altri invece ne avevano ridotto l'eco, manifestando un distacco che a alcuni distendeva e a alcuni altri irritava. Tra le due compagini erano anche sorti momenti di attrito, che in più di un'occasione erano diventati veri e propri conflitti, condotti su binari autonomi, di più lungo corso probabilmente, che forse neppure partivano dalle previsioni meteorologiche.

Quella notte, attorno al comitato, il maltempo era infine arrivato. I centimetri di neve aumentavano veloci, qualche soffitto cedeva al loro peso, le strade più periferiche restavano chiuse. A tratti chi tentava invano di aprirle chiamava il comitato con il tono della tragedia: sembrava quasi che ci fosse una guerra in atto e che quella strada persa fosse un avamposto decisivo. Persone il controllo, il peggio poteva avvenire.

Nella stanza dove era riunito il comitato però il dubbio restava. La tempesta non aveva ancora svelato appieno la sua identità. Poteva essere una vera emergenza, ma nulla di veramente epocale ancora era accaduto e più le ore passavano più piccola era la probabilità che accadesse. L'attesa confondeva le idee, generava un flusso di adrenalina che non trovava sempre sfogo. Qualcosa doveva succedere, era probabile, ma non avveniva. Allora lo si provocava, quasi a sfidarlo, o meglio a dimostrare al mondo che si era pronti nel caso qualcosa infine avvenisse. Un elicottero decollava, carico solo di un sacco di mandarini per un eremita vegetariano. L'esercito muoveva i mezzi anfibi per un sopralluogo al giardino dove i bambini facevano a palle di neve. Le forze dell'ordine vigilavano gli incroci deserti per evitare che i fantasmi vi si mettessero in marcia. I membri del comitato restavano all'erta, ma più il tempo passava, più la loro veglia attenta assumeva i contorni di una farsa. Di autentico restavano solo i momenti in cui, sfiancati dalle ore, lasciavano filtrare fuori dalle loro maschere di colleghi ciò che erano abitualmente al di fuori di esse.

L'attesa nella notte fu lunga, ma non a sufficienza. Quando il telefonò ritornò a squillare al mattino, il vecchio film western senza trama proiettato nello schermo all'angolo non era ancora finito. L'attesa dell'emergenza era stata troppo breve per capire se quel topolino abbagliato dalla luce nei primi fotogrammi era davvero l'allegoria di tutto ciò che era successo dopo. Ma la normalità è così: quasi mai mantiene le promesse dell'urgenza.