lunedì, ottobre 27, 2008

Paradiso inviso

"La verità è questa. Tutti vogliono andare in paradiso, ma nessuno è disposto a morire per andarci".
(Vinicio Capossela, Intervista al Tg1)

giovedì, ottobre 23, 2008

In fuga dal funerale fantasma

Rannicchiato sul seggiolino di un treno regionale in viaggio da Bologna verso Forlì, sono completamente immerso nel mio piccolo mondo privato. Mi sembra di essere un tutt’uno con la portinaia protagonista del libro che ho in mano: la seguo passo passo nelle considerazioni che precedono il suo appuntamento con il signore giapponese, nuovo inquilino dello stabile dove lavora. Penso solo una cosa: correre tra le parole a quell’unica giusta velocità che ti permette di non perderle e nel contempo di non frustrare il tuo desiderio di arrivare al pensiero seguente.

Elegante, assorto e silenzioso non devo essere l’immagine della socievolezza
. Eppure il signore che mi è accanto, occhi sporgenti e pochi capelli anarchici, non riesce a trattenersi. Mi dà un buffetto sulla spalla e mi dice che proprio non mi può tacere cosa gli è accaduto nella sua giornata infinita.

Senza una reazione fisica evidente, penso. Le probabilità che la sua storia sia davvero interessante sono marginali. E’ sicuramente un rompi palle. Un po’ rincitrullito dall’età per giunta. Quanto basta per far finta di nulla. Ma il mio cinismo mi lascia un vago senso di colpa. Deve essere il residuo dei miei primi sei mesi in Australia: non negare mai un momento di socialità e condivisione, anche piccolo, al passante che ti incrocia. E’ sempre piacevole quando non ci si sente nessuno, scoprire che qualcuno ti domanda chi sei. Alla fine cedo e alzo lo sguardo.

“La signora è mia moglie” dice indicando la donna seduta nel seggiolino di fronte. “Sapesse” dice lei non tradendo il melodramma che il marito sta per mettere in scena.
Resto muto in attesa di vedere cosa succede.
“Siamo partiti questa mattina all’alba da Ancona per andare a un funerale” esordisce l’uomo.
“Anche una storia triste” medito sconfortato.
“Ma quel cazzo di funerale non l’abbiamo mai visto!” prosegue il signore alleggerito di trent’anni dalla foga. “Siamo arrivati fino ad Alessandria – un giorno di viaggio tra andata e ritorno – per non uscire dalla stazione: quei morti di fame – intendo i parenti vivi della morte – se ne sono fregati. Ci hanno detto che sarebbero venuti a prenderci. Invece ci hanno lasciato lì senza che noi sapessimo dove andare e senza un dannato che avesse il telefono in funzione”.
“Forse è arrivato in ritardo?” suggerisco. L’uomo mi guarda con occhi taglienti. “Deficiente” mi dico. Mai ipotizzare una soluzione a chi si lamenta di un problema alla ricerca di comprensione. “E lei che ha fatto?” domando cercando di rimediare.
“Sono risalito sul treno e ho ringraziato di essere troppo vecchio per usare la macchina”.
“Cioè?”.
“Così ho avuto da subito le mani libere per cancellare tutti i numeri di quei morti di fame”.
“Vedrà però che la chiameranno per spiegarle cosa non è andato per il verso giusto”.
“Nessuno lo ancora fatto, né con me né con mia moglie. E comunque alla prossima non mi fregano più. Se qualcuno muore, un francobollo gli invio. Così mi spediscono il santino a casa, che io da là non mi muovo più!”.

sabato, ottobre 11, 2008

In cammino

...nello spazio
cammino...nel tempo
"Agli occhi di un estraneo, un castagno secco da tagliare significava fatiche e ore perse; a quelli di Pettu e Toni no, per loro non era tempo perso, era tempo vissuto e da vivere, era la loro esistenza."
(Marco Aime, Il lato selvatico del tempo)

venerdì, ottobre 10, 2008

Dieci anni dopo qualcosa

Eccomi qua esattamente dieci anni dopo. Non ricordo esattamente dopo cosa, ma era un po’ che pensavo di aprire un racconto con questa formula, molto letteraria, e infine ho deciso di farlo. Lo faccio con la certezza che scrivere queste parole mi aiuti a trovare quel qualcosa successo nel passato a cui penso sempre senza riuscire mai a metterlo a fuoco del tutto. Avete presente quando il maestro, lo psicanalista o l’amico giornalista vi invitano a scrivere qualcosa per rendervelo più chiaro? Ecco io sto facendo esattamente questo e, anzi, un po’ di più: sto scrivendo sperando di leggere quello che non sono mai riuscito a pensare. Pretenzioso, ma in fondo sempre meno di quelli che addirittura pensano di poter creare cose con le parole. Un certo Austen deve averlo elucubrato in uno di quei saggi destinati ad allungare di un semestre la vita da studente di un individuo.

Comunque non divaghiamo. Qualche certezza c’è. Sono certo che qualcosa sia andato storto con la mia propensione a pretendere. Voglio dire: mi ripropongo sempre di pretendere di più, ma all’atto pratico provo sempre un profondo senso di colpa che mi impedisce di farlo. Perché scopro sempre di aver chiesto un po’ di meno, aver appunto preteso un po’ di meno, di chi mi cammina al fianco?

Non è un’incapacità di fondo, ne sono sicuro
. In Australia pretendevo con sublime naturalezza e spietata efficacia. Alla fine di ogni mia giornata la manina si allungava e come una prostituta pretendeva il suo tributo in salario: bei dollaroni verdi, pesanti e immediati. No, decisamente, non è qualcosa di cui sono privo alla base. Lo spirito di pretesa c’è. La mia testa infatti si lamenta spesso con me la sera perché, a suo parere, avrei preteso troppo da lei durante il giorno.

Comunque, lo ripeto, non divaghiamo su queste facezie intimiste. Torniamo al punto. Se la mia propensione a non pretendere non è qualcosa di innato, deve essere qualcosa altro. Qualcosa di molto lontano, ma non fisico: una sorta di peccato originale, così primitivo da essere dato per scontato. Spremendo le meningi nella stesura di questi quattro stupidi paragrafi spero di riuscire finalmente a fare luce su quel peccato primo. Che poi potrebbe essere anche qualcosa che non ho mai commesso, ma di cui mi sento in colpa. Ecco, ecco, ci sono. E’ questo il senso, intendo dire il senso di colpa. Mi sento in colpa per qualcosa. Ma cosa?

Proprio scrivendo, mi viene da dire che mi sento in colpa per il troppo scrivere
. Io dai monti con la penna (pardon con la tastiera in mano)! Si è visto mai? Sì si è visto, lo vedo tutti i giorni riflesso nello schermo del mio pc, ma non ci ho ancora fatto l’abitudine. Continua a risultarmi un’eccentricità inspiegabile da espiare con fatiche d’altro genere. Mi sembra un privilegio ottenuto per bontà altrui e mai del tutto meritato. Insomma, so che per mangiare qualcuno deve coltivare la terra, che per viaggiare qualcuno deve costruire le auto, che per comunicare a distanza qualcuno deve piantare dei pali e tirare dei fili. So che c’è qualcuno che fa tutto questo e io me ne sento un po’ in colpa. Avrei dovuto essere uno di loro e invece mi sono appollaiato più in alto: sono quello che mangia a sazietà, viaggia con frequenza e irradia messaggi a tutto il globo senza contribuire a nessuna fase del processo. Io sto lassù solo per cucinare parole e, in qualche sporadica occasione, riuscire a impastare una storia con gli ingredienti nella giusta dose. E’ un lavoro da nobile e tra ho nobili ho sempre pensato che certe cose fossero inopportune, specie per me che ero un intruso. Ecco perché dopo due ore di penna e tastiera non riesco a essere pretenzioso come dopo due ore di pala e cazzuola. Mi capite?

Non pretendo che lo facciate. Oggi anzi i più mi dicono che i nobili non esistono più: o meglio ce ne sono alcuni sopravvissuti a tutte le rivoluzioni ma sono solo borghesi più ricchi di degli altri. Sto tentando di convincermi di questo da tempo. Almeno da quando ho iniziato a scrivere tanto: devono essere almeno dieci anni...