“Attenta che se parte un capezzolo ti arriva proprio in mezzo al petto!”, ha improvvisamente detto Nicola alzando la testa dal piatto e guardando Sara seduta di fronte a sé nella tavola circolare.
Non ho ben capito a cosa si riferisse, perché lì vicino c’era un preservativo di due metri a penzoloni dal tetto e sulla parete scorrevano le immagini del Minotauro contro il mostro marino, ma non c’era traccia di capezzoli. O meglio, ce ne erano molti, in bella vista nella foto di sei metri appesa sotto il soffitto, ma nessuno di quelli poteva essere pericoloso.
Non era comunque il caso di stare a fare domande nel bel mezzo del pranzo di gala. Così ho tranquillamente ripreso a mangiare. Al centro della tavola c’era una coppia di putti alati in argento che sorreggevano due candele. Da lì a raggiera diverse file di bicchieri si dipanavano fin quasi al bordo. Ho preso uno di quei bicchieri e vi ho versato un po’ di Suvignon. Un bianchetto leggero – non tra i miei preferiti – ma si sposava abbastanza bene con la ricotta e la mostarda che avevo nel piatto. Ed era discreto anche accompagnato agli altri cibi. Una lunga serie, disposta in circolo nella stanza adiacente.
Ho fatto spesso spola tra le due stanze. E da lì ho girato anche in tutte le altre ai lati del grande salone centrale. Un’installazione multimediale identificava lo studio, mentre un letto in acciaio con angioletti sulle sponde era l’evidente indizio di una camera da letto.
Tutte e tre le stanze finivano su un terrazzo con un colonnato bizantino. Fuori, il solito incrocio di vaporetti. Il traffico di turisti è sempre intenso sul Canal Grande di Venezia, anche all’ora di pranzo del 12 novembre. Forse perché il campanile di San Marco e il Ponte di Rialto, a poche decine di metri, erano finalmente in bella mostra senza impalcature a coprirne e fatture architettoniche.
Dentro intanto la tavolata si era spostata verso la sala del dessert. Un tavolo ricoperto da plexiglass colorato e levigato sorreggeva al centro della stanza crostate e creme gelato. Una cameriera tagliava le fette utilizzando un cucchiaio musicale. Una sinfonia diversa per ogni fetta, mentre lì vicino una fontana di cioccolato cullava i restanti ospiti, bagnando di lussuriosi schizzi di cioccolato le rossissime fragole servite come frutta.
Un pranzo abbondante, se si conta anche l’aperitivo al piano di sotto. Qualche cubetto di mortadella, un po’ di frittata e piccole cotolettine di pollo unite a un bicchiere di spritz. I vassoi erano tutti lussuosamente adagiati su tovaglioli griffati con le iniziali del padrone di casa: “G”. A terra, un pavimento in plexiglass sopraelevato di una ventina di centimetri lasciava correre lo sguardo alla ricostruzione di una massicciata lunga tre o quattro metri. All’angolo, una scultura ritraente una scimmia geneticamente modificata era invece il tocco di auto-ironia del padrone di casa, un impresario farmaceutico. E sul soffitto, inquieti, danzavano i riflessi del Canal Grande che scorreva lì a pochi centimetri.
Pasciuto mi sono incamminato nel buio del tardo pomeriggio verso la stazione di Santa Lucia per rientrare a Bologna. Ho intrapreso il cammino vestendo, come tutti gli altri, il cappello di natale pieno di stelline luminose, che ci era stato regalato. Prima di uscire da Villa Banzazza, al numero 1123 di un calle veneziano dal nome a me ignoto, mi sono però fermato nell’atrio per firmare il libro degli ospiti del Cavalier Marino Golinelli.
“Raramente – ho scritto – sorprende ciò da cui ti aspetti di essere sorpreso. Oggi è successo”.
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