sabato, maggio 17, 2008

Casa del cuculo: echi balcanici nella terrazza di Romagna

Parte la musica e sotto la torcia della grande madre, al secolo Debora, venti candele illuminano un volto corrugato. E’ un quadro appeso al ramo di una quercia nell’aia della Casa del cuculo. Ce ne sono tanti nell’arco di pochi metri. Sono uno dei segni della festa. C’è gente – forse un’ottantina di anime al festival degli artisti immergenti – nell’arida collina che una polverosa carrareccia recide dal resto del mondo: dalle luci della riviera, dalle sacre forme della Pieve di Polenta, dai rinnovati lussi delle Terme della Fratta. C’è Bertinoro, la terrazza di Romagna, poco lontano, ma su alla Casa del Cuculo c’è un altro mondo: ci sono gli echi dei Balcani.

Sul palco principale, un prato reso più confortevole da travi imbottite, tamburi, violini, fisarmoniche e fiati insinuano tra pini, roverelle e biancospini suoni gitani. Le parole che introducono i brani sono confuse, quelle delle liriche incomprensibili. Resta l’atmosfera: prevale il lamento, ma c’è spazio per accordi solari, accelerate d’allegria. Il bosco dietro al palco è in penose condizioni, ma nel buio i rami sono la più ancestrale delle scenografie. I suonatori per lo più sono dilettanti, ma le loro imperfezioni scompaiono nell’armonia dell’insieme creata in lunghe prove nel tempo libero della disoccupazione.

Le candele, i quadri i concerti rimarranno accessi per tre notti nella collina della Casa del cuculo. Il “paperoga” continuerà a portare su e giù gente dalla valle, il “bar-collante” continuerà a annaffiare le gole dei presenti. Poi nella casa resteranno solo le cinque persone che vi abitano e, senza il rumore del pubblico ad applaudirle, torneranno a vivere serenamente o, forse, a chiedersi se lo stanno facendo veramente o se ne stanno solo illudendo temporaneamente, in attesa di trasformarsi, tra vent’anni, in un rudere sopravvissuto a sé stesso (Pianbaruzzoli, il relitto sopravvissuto a se stesso).

mercoledì, maggio 14, 2008

Romagna, from a different point of view

Sono passati più di due anni dal primo post interamente dedicato alle leggende di Romagna. Da quel mix di storielle raccolte in una notte a Pian del Grado sino a oggi, 26 piccoli scampoli di testo sono stati dedicati alle colline della Romagna Toscana e agli strani figuri che talvolta mi è capitato di incontrarvi.

In tutto questo tempo, però, non ho mai pensato di descrivere la Romagna come la terra di un romanzo di Peter Mayle, che fino a pochi istanti fa mi era completamente ignoto. Lo ha fatto invece Neeraja, poco dopo essere uscita dall'ombra della quercia di Montalto.

Insomma, ecco come "gli altri" vedono la Romagna.

martedì, maggio 13, 2008

Pantieriadi: prossima tappa Broadway

L'hanno chiamato "Picaciu" o "il Vecchio" per il ruolo di leader sul palco. In esclusiva ma piratabile gratuitamente, qualche immagine della sublime performance di Enrico Pantieri alla prima di Del lavoro e altre storie, spettacolo conclusivo del laboratorio teatrale promosso dall'Accademia Perduta/Romagna Teatri, Teatro Stabile d'Arte Contemporanea e Teatro Due Mondi.

La rappresentazione è stata ospitata lunedì 12 maggio al Teatro Masini di Faenza.


pantieri seduto...
Enrico Pantieri
...pantieri protesta...
Enrico Pantieri
...pantieri megafono...
Enrico Pantieri
...pantieri danzante...
Enrico Pantieri
...pantieri e gli altri.
Enrico Pantieri

lunedì, maggio 12, 2008

Qualche nota con una matita spuntata

Quando chiuse l’ultima pagina del romanzo il giovane lettore si fermò assorto a rimirare la copertina del libro. Era un classico: le sue parole avevano già superato positivamente il giudizio del tempo. Sul retro c’erano alcune citazioni appartenenti a critici letterari che celebravano l’immortalità delle parole all’interno, l’universalismo delle emozioni espresse, il realismo delle situazioni descritte.

Il giovane lettore, però, conservava qualche dubbio su quei commenti. Aveva apprezzato le pagine lette, ma gli risultavano lontane. Quei personaggi tormentati dall’incertezza, guidati dal dubbio e appesantiti dall’emozione gli apparivano artefatti. La vita gli sembrava più semplice e rettilinea di quella vissuta da quei protagonisti. Le loro avventure dovevano essere viziate dall’eccezionalità, alimentate dall’avventatezza delle loro scelte.

Alcuni anni più tardi il giovane lettore un poco cresciuto chiuse stancamente l’ultima pagina di un romanzetto contemporaneo. La trama gli era parsa sterile, banale, poco coinvolgente. Tutto era proceduto dall’inizio alla fine senza sussulti, senza profondità. Ripose quel libretto e per conciliare il sonno rilesse alcuni passaggi dei vecchi classici sfogliati in adolescenza. Con una matita spuntata affiancò alle note critiche alcune considerazioni proprie: nel rileggere quelle pagine aveva gustato il piacere di ritrovare traccia di sé.

martedì, aprile 29, 2008

50 anni dopo: appuntamento con gli sconosciuti del giornale

Ben visibile in mezzo al pascolo c’era la capanna dove la ragazza consumava la maggior parte delle ore lavorative. Un incrocio di assi povero e incompleto, che poco o nulla sembrava rispetto al grande albero lì vicino. Dentro lo stanzino in legno, sudicio e pieno di spifferi, c’erano poche galline smagrite e un’accozzaglia di badili e zappe dai manici contorti e dalle lame arrotondate e arrugginite.

La giovane donna passava così tante ore attorno a quel capanno affaticata dal lavoro, che subito, appena poteva, se ne allontanava. Non esisteva pausa o tregua, se non lontano da lì. Però il destino volle che proprio lì vicino finisse per trascorre i momenti più emozionanti della sua vita. Poco più sopra c’era infatti il grande albero: era il più maestoso, l’unico in grado di offrire con i suoi rami riparo dal sole e con il suo tronco riparo dagli occhi indiscreti. Nelle sue vicinanze vi si nascondevano ragazzi per fare giochi da bambini e adolescenti a spingersi un po’ più in là nella vita da adulti.

Anche la giovane donna scelse dunque la quercia per nascondere la sua passione con quel ragazzo della parrocchia vicina: un contadino anche lui, ma dai modi borghesi, con un doppio petto più elegante di quello di tutti gli altri. Il giovane uomo l’aveva sedotta con una storia strana a cui lei non sapeva se credere o no: il contadino borghese le aveva detto che, proprio lì vicino alla sua capanna da lavoro, alcuni secoli prima era passata anche la famosa Caterina Sforza, la signora di Forlì. La giovane donna non aveva mai udito prima quel nome, ma le faceva piacere immaginare di lavorare notte e giorno su una campagna calpestata anche da una dama di città. Aveva preso ad amare quella storia e un poco anche chi gliela aveva raccontata.

Aveva confessato subito il primo amore, mentre tenne a lungo nascosto il secondo. E a nasconderlo, andò sempre dietro la quercia, nell’angolo dove ormai l’erba portava la sua impronta.

Mezzo secolo dopo la donna ormai invecchiata decise di rivelare quel vetusto segreto a un gruppo di sconosciuti: la signora diede loro il benvenuto seduta sotto la sua quercia, attendendo fiduciosa proprio all’ora in cui il giornale del giorno prima ne aveva annunciato il passaggio. Salutò il piccolo manipolo senza dare peso al loro stupore. Si lasciò andare anche a qualche battuta, ma senza avere troppo tempo per andare oltre. Le sue parole furono infatti nascoste da quelle del marito. Era l’amante di allora: ancora riconoscibile dal suo vestir borghese, ancora orgoglioso di raccontare che nel suo comune era passata anche “la Caterina Sforza”, la signora di Forlì.

Fu un incontro tranquillo, senza formalità, senza scambio di nomi. La coppia nata all’ombra della grande quercia si dileguò da dove era venuta, allontanandosi dal suo appuntamento col destino a bordo di una piccola Panda verde come i pascoli ai margini della strada.

sabato, aprile 26, 2008

Magie dermatologicamente testate

Quelle odiose verruche proprio non volevano saperne di scomparire. Ciclicamente si riaffacciavano, più o meno sempre nella stessa posizione: sotto il mento. Temporeggiavano per qualche settimana fino a quando una di loro si sporgeva avanzando inarrestabile.

Il dermatologo era già intervenuto più volte per asportarle e la diagnosi era sempre stata la stessa: fenomeno psicosomatico. “Sono verruche filiformi – diceva – non si propagano quando fai la barba. Sono il tuo punto debole: sei sotto stress e lo sfoghi così”.

Le verruche ricomparvero una volta ancora e il paziente una volta ancora varcò la soglia del dermatologo, un nome noto dell’ospedale più noto della città. La routine fu la stessa. Si distese sul lettino, aspettando le agili trinciatine sulle sue protesi inutili. Fu lì, tra strumenti di precisione e disinfettanti polifunzionali che la dottoressa si lasciò andare oltre la solita diagnosi. “Perché non ti fai toccare?” chiese.
“Cioè?” rispose il paziente indeciso.
“Dal mago – dico – solo che non so più quale suggerirti. C’era quello di Castrocaro, ma credo che non visiti più”.

Orchidea bianca

Orchidea bianca

martedì, aprile 22, 2008

L’indiana sotto la quercia di Montalto

Era ormai sera quando raggiungemmo il cortile del casolare: i muri in pietra della casa davano un’idea di eleganza, mentre i fogli di lamiera sui tetti delle capanne per gli attrezzi lasciavano un po’ di spazio all’incuria. Era la terza casa incontrata lungo la breve discesa dalla quercia di Montalto, l’ultima prima della parrocchia di Sant’Eufemia. Stavamo attraversando quell’aia sbadatamente – io, l’indiana, il geometra e la farmacista – quando una ragazza non più giovanissima, o forse solo non curata, ci si fece incontro rallentando il nostro incedere. La donna di casa precedeva di poco il padre: anziano, ma solido, sdentato ma sorridente, socievole ma a corto di contatti umani.

In quella strana compagnia – gli ultimi abitanti di Montalto, io, l’indiana, il geometra e la farmacista – si parlò un po’ di politica e di una delle tante tasse, un poco più insensata delle altre, che nessuno dei presenti voleva pagare. Però si parlò di quello come si sarebbe potuto parlare di altro.

“I nostri parenti – disse il vecchio – ci dicono che a Roma non si vive più. Qui invece abbiamo così tanto spazio che a volte manca la persona per scambiare due chiacchiere”. Disse ciò prima di entrare tra i suoi animali – qualche vacca e qualche vitellino – portando con sé lo stupore per quella ragazza del nostro gruppo che sembrava bella e intelligente, ma che proprio non riusciva a farsi capire. “Ma tu, dimmi – mi chiese infine non resistendo alla curiosità – capisci quello che dice?”.

“Quel tanto per capire che tu sarai uno dei suoi più indelebili ricordi” avrei forse dovuto rispondere all’ultimo contadino di Montalto di Premilcuore.

venerdì, aprile 18, 2008

In una notte tirata a tardi

Il suo buon senso gli diceva chiaramente che non era il caso di tirare avanti quella notte ulteriormente. Fuori era già buio da molto, da ore. La serata era stata densa di interrogativi mediati e personali. E la mattina seguente era già lì, quasi minacciosa col rapido trascorrere dei minuti. Il sonno aspettava solo un segnale per arrivare, cancellare tutto almeno per un po’ e lasciare pronti anima e corpo a un nuovo giorno di idee, progetti, parole e conoscenze tese a qualcosa. Qualcosa a volte sfumato, ma da produrre.

Le parole udite poco prima però non si cancellavano facilmente. Avevano avuto il tono bonario del rimbrotto materno, ma proprio quella gentilezza rendeva più difficile trascurarne il messaggio. Quelle parole dicevano di lasciare perdere per un po’ il buon senso e tirare avanti nella notte contro ogni logica per imbastire due righe, un pensiero, un racconto come non capitava più da alcuni giorni.

Fu così che l’ometto sottrasse qualche tempo al sonno per restare sveglio di fronte al portatile in un unico gomitolo di gambe, coperte, fili e tastiere. In quell’inusuale posizione, con le palpebre appesantite, i capelli schiacciati e le mani lente sui tasti, dedicò due parole alla capanna del vignaiolo vista qualche giorno prima. La scelse perché gli sembrava di comprenderne la cattiva sorte: il piccolo rudere, circondato da mille cose più utili, non aveva speranza di vedere una mano sulle sue vetuste travi. Il buon senso non lasciava spazio a quell’edificio. La sua unica speranza era un lavoro testardo, portato avanti senza troppo utilità in un'altra notte tirata a tardi.

lunedì, marzo 24, 2008

Plurisecolari diseconomie romagnole

"Si può affermare che questi monti (i monti della Romagna-Toscana, ndr) sono stati per secoli, ma soprattutto nei decenni del nostro secolo (il Novecento, ndr), fino al momento del recente grande esodo, una fabbrica di miseria permanente e una sede di vita dura e disagiata, al di là di ogni possibilità di immaginazione presente e tale da ingenerare una grande pietà retrospettiva".

Brano estratto da:
Armando Ravaglioli, "La Romagna fiorentina", in I Quaderni dell'Acquacheta, edizioni di presenza romagnola, 1986

giovedì, marzo 20, 2008

La cosa

I telefonini trillavano chiassosi come al solito. Un tim, un omnitel, uno skype, forse anche qualcosa d'altro. Si inserivano sbadatamente in mezzo a ogni frase detta nella stanza, interrompendo parole che diventavano sempre più brevi e isolate, fino a perdere senso. Il direttore sedeva in mezzo a quel concerto, elargendo mezze risposte a tutti i suoi piccoli megafoni magnetici. Dava l'ok per le 11 del giorno dopo a qualcuno e pochi istanti faceva lo stesso con un'altra persona a un altro telefono in chissà quale altra parte del pianeta romagna. Del resto gli affari sono così: i migliori sono quelli in cui si vendono in anticipo promesse che si valuterà se mantenere parzialmente in un futuro da destinarsi.

Quando i telefonini smisero di piangere per un attimo, il direttore guardò la persona di fronte a sé. “Dicevamo?” domandò distrattamente. Senza aspettare risposta, terminò la frase da solo: “Sì, sì, di quello. Io comunque di sta cosa non ne so nulla. Vedi tu”.

La “cosa” continuò a non avere un nome certo, ma al telefonò che subito trillò ne parlò nuovamente. O forse era una sì una cosa, ma una cosa diversa.

venerdì, marzo 14, 2008

Festa dei falò, la tradizione “centometrista”

(testo ideato e pensato per Il Castellaccio)

Alcuni piccoli dettagli di vissuto personale mi dicono che la festa del falò ha ormai una certa risonanza anche al di fuori dei confini di borgata. Qualche anno fa, per esempio, ne sentii parlare anche negli spogliatoi della piscina comunale di Bologna adiacente allo stadio Dallara. Il gruppetto al mio fianco vociava di un pullman cinquanta posti per raggiungere una mega festa paesana in Romagna. Pochi giorni dopo Rocca traboccò di gente: per tutta la notte le navette fecero avanti e indietro tra il paese e la zona artigianale sotto Campomaggio per gestire l’emergenza parcheggio. Fu record di incassi, fu record di presenza e per molte mattine a venire l’abitato si risvegliò con le ferite lasciate da quell’orda festante.

Passai quella festa del falò – credo fosse il 2002 - in compagnia di un gruppo di amici di università: ragazzi e ragazze di varie zone di Italia, totalmente estranei alle tradizioni locali della Val Montone. Nei giorni precedenti al “grande sabato” avevo spiegato loro la storia ufficiale della festa. Dissi che l’appuntamento celebrava San Giuseppe e l’arrivo della primavera. Spiegai che in passato la festa si consumava in campagna, dove ogni podere bruciava il piccolo falò con gli arbusti estirpati dalle aie e dai cortili, e che solo in tempi più recenti la tradizione del pagliaio, arricchita di botti e sfilate, era migrata in paese, diviso in rioni dall’alveo del fiume. Gli amici mi ascoltavano indecisi se accettare o meno l’invito a una festa che a loro continuava a sapere di una qualsiasi sagra paesana: bancarelle, qualche salume, due caramelline e un paio di mangiafuoco superati dal tempo.

Quando la prima raffica di botti esplose tra le grida delle tifoserie rionali assiepate attorno ai falò in fiamme, il loro scetticismo, da alcuni decisivi minuti, aveva lasciato spazio a un palese sbigottimento. C’era nelle loro facce un misto di sensazioni. L’adrenalina di un’atmosfera più elettrica del previsto unita alla leggera paura di quella folla delirante, sballata, irrazionale nei gesti e aggressiva nelle parole. “Siete tutti matti qui” dicevano con un finto moralismo che si tradiva subito nei gesti, inesorabilmente simili a quelli dei locali: fiaschetti di vino, passeggiate sul greto del fiume e infine balli di piazza.

Il giorno dopo risparmiai alla truppa di visitatori la sfilata pomeridiana. Il giorno dopo si è sempre troppo stanchi e troppo visibili per ripetere i gesti naturali solo poche ore prima. La festa del falò resta una follia di poche ore, affascinante proprio per la sua durata effimera. E’ come la finale dei cento metri alle olimpiadi. Esplosiva, esagerata, preparata per mesi in ogni dettaglio e poi consumata al massimo nel giro di pochi istanti. Istanti di fuoco e di balli che scorrono via veloci nel tumulto di una notte di primavera sulle colline della Val Montone.

domenica, marzo 09, 2008

martedì, febbraio 26, 2008

Eroi di carta

Vivonne BayGiacca di panno, capelli spettinati e barba incolta, il ragazzo percorse la solita via del centro che ospitava la libreria più fornita della città. Si fermò di fronte alla vetrina per guardare una volta in più il nuovo libro che lo incuriosiva. Di fronte alla copertina, i pensieri furono i soliti. E' interessante, costa abbastanza, lo potrei prendere più avanti, forse è meglio recuperarlo in biblioteca o forse c'è un titolo migliore sullo stesso argomento.

Anche il risultato di questo silenzioso lavorio della mente fu il solito. Il ragazzo varcò la porta scorrevole, si diresse allo scaffale, prese il volume osservato in vetrina e anche quello che era impilato al suo fianco. Anche quello era interessante.

La cassiera lo guardò appena. Puntò il laser rosso sul codice a barre ed emise il conto. Per lei, in quel momento, un testo valeva l'altro: genere, scopo, attendibilità dei contenuti erano solo orpelli ignoti.

All'uscita questa immagine non si sbiadì. Chi aveva vinto nella transazione appena effettuata? Il ragazzo che aveva speso per qualcosa di “utile” o quantomeno piacevole o la ragazza che aveva incassato per un gesto ripetitivo ma redditizio.

Sul momento aveva vinto lei. Il suo gioco era a somma positiva, ma forse era solo una vittoria passeggera. Come spiegò un giorno di inizio secolo uno scrittore inglese malaticcio a uno smanioso bersagliere di origini romagnole, sono solo gli eterei eroi di carta che possono provare ad ambire all’eternità. Il resto si sbiadisce presto, proprio come l’inchiostro sulla carta dello scontrino.

lunedì, febbraio 25, 2008

Lo scrittore inesistente

Collego un’altra isola dell’arcipelago della rete. Si chiama “lo scrittore inesistente”. E’ un contenitore pudico ed elegante, dove un’aspirante scrittrice, a lungo titubante nel rivelare i suoi marchingegni letterari, ha infine avviato il suo dialogo con il pubblico.

Betsabea, il racconto di Francesca Mazzaglia, sicula ormai radicata nel bolognese, comincia così:

"Un bocciolo di nuvola porpora vela le guglie di Betsabea diffondendo un profumo di rosa nella città dalle lunghe e sottili torri di cristallo. Se la spii da una lontana duna del deserto ne sei ammaliato e sai già che cederai alla tentazione di cambiare rotta".
(Leggi tutto il racconto)

domenica, febbraio 17, 2008

Blogging: dalla Festa dei falò alle elezioni Usa

Giorni di intensa natalità per i blog. Ne sono nati diversi in poche ore e tutti all’insegna dell’originale intreccio tra pubblico e privato, tra locale e globale che connota queste forme di comunicazione.

Il piccolo che diventa grande è la Festa del Falò. La tradizionale rassegna allegorico-godereccia con cui Rocca saluta l’inizio della primavera quest’anno si gioca anche in punta di tastiera. Entrambi i rioni in gara nella kermesse stanno da tempo riempiendo le loro lavagne digitali di parole, immagini e video, in un anticipo di competizione fortemente multimediale. Una delle massime espressione del campanilismo rionale romagnolo sbarca dunque nell’autostrada digitale di YouTube e Blogspot.

Questo localismo di natura pubblica muove i primi passi assieme al tentativo di smontare il monopolio Cnn sul massimo evento mediatico del momento: le elezioni americane. Uno dei più poliedrici battitori di vecchi e nuovi media, con cui ho avuto il piacere di realizzare la tesi di laurea, ha incrociato la penna con una giovane comunicatrice attualmente a Washington per ridare profondità d’analisi a un fenomeno appiattito nella routine fast and fourious del talk-show. Ben tre voci per una prospettiva colta e personale sull’evento più globale del pianeta.

lunedì, febbraio 11, 2008

L’ufficio qualunque del cacciatore di stelle

FinestraUno sguardo al monitor per controllare l'ultima posa del satellite e poi uno sguardo alle mappe del cosmo già noto. Gli occhi fanno avanti e indietro nervosamente alla ricerca del dettaglio che può far pensare a qualcosa di nuovo: una supernova, un ammasso globulare o forse solo un banale oggetto del sistema solare. Non importa, almeno nel primo momento, nell’estasi dell’avvistamento. Le rare volte in cui il satellite cattura una macchia estranea alle carte, l'astrofilo dilettante trova l’anelato sollievo dalla sua vaga, malcelata e mal espressa tristezza di vivere. Se quella macchia si rivelasse una supernova, il suo nome resterebbe impresso negli archivi internazionali contenenti l'anagrafica di tutti i corpi dell'universo e dei loro scopritori.

La caccia alle stelle diventa uno spettacolo pubblico d'estate – quando gli anelli di Saturno rappresentano una bucolica alternativa al tedio dell'umidità cittadina -, ma è d'inverno quando il freddo depura l'atmosfera che si catturano le prede più pregiate. E' allora che l'astrofilo si concentra sugli astri. Nella sua scientifica ascesi al cielo avvolge mani e piedi in abiti caldi, per ridurre al minimo le interferenze del fisico; poi, con la mente libera sintonizza lo sguardo sulle deboli radiazioni luminose che provengono dallo spazio tridimensionale. I segnali arrivano deboli: nel passaggio dai vuoti siderali alle umane percezioni i colori si perdono, trascurati da occhi abituati a stimoli più prossimi, più forti, più significanti: gli abbaglianti di un'auto, il lampeggio di un led, il neon di un'insegna pubblicitaria.

Nell’ascesi dell’astrofilo c'è un dramma inevitabile. Nella gara tra lui e il cosmo, il cosmo vince sempre. Vince perché può attendere: lo spazio può rimanere muto per milioni di anni, mentre l’astrofilo può rimanere vigile solo qualche decennio. Si hanno solo pochi istanti per trovare una risposta che può attendere secoli. Lotta impari, persa in partenza. Lotta solitaria, ignota ai più. Lotta “inutile” perché anche nella battaglia con l’infinito trovano spazio le piccole alienazioni quotidiane. Nessuna supernova catturata di notte riesce a rompere davvero la noia del giorno passato e del giorno a seguire.

Gli occhi dell'astrofilo continuano a fare nervosamente avanti e indietro tra il monitor e le mappe, ma attorno loro prendono forma solo pensieri terreni con le forme ordinarie dei quattro muri di un ufficio qualunque.

La rovere in fondo al rettilineo

Quercus robur

Particolare da Monte Colmbo: località Sibadella.

Ramoscello con galaverna

Ramo ghiacciato

Particolare ripreso al Cozzo del Diavolo lungo il crinale del Tramazzo.

giovedì, febbraio 07, 2008

Quando l'accademico fa l'hippie e viceversa

Cartelli stradali in direzione oppostaTra le letture degli ultimi giorni si è creato un inusuale incrocio di destini. Dal libro di un teologo è uscito un messaggio rivoluzionario, mentre dal blog di un sessantottino è nato un appello alla misura e al buon senso.

Il teologo è Ivan Illich. Viennese, classe 1926, Illich è un accademico a metà tra storia, filosofia e scienze naturali, tra l'altro impegnato nel servizio sacerdotale a New York. Ha alle spalle decine di pubblicazioni, tra cui, risalente al 1996, Disoccupazione creativa. Il saggio è una critica serrata al sistema economico monopolizzato dalle professioni, colpevole per Illich di aver generato una forma di povertà profonda: l'impossibilità di usare in modo autonomo le proprie doti personali. “Il tentativo – scrive l'autore – di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerato una bizzarria anarchica. Perdiamo di vista le nostre risorse, perdiamo il controllo sulle condizioni ambientali che le rendono utilizzabili, perdiamo il gusto di affrontare con fiducia le difficoltà esterne e le ansie interiori. (...) Al di là di una certa soglia, il moltiplicarsi delle merci induce impotenza, genera l'incapacità di coltivare cibo, di cantare di costruire. La fatica e il piacere della condizione umana diventano un privilegio snobistico riservato a pochi”.

A fare da contraltare al docente che, su un libro, lamenta il monopolio del sapere da parte degli educatori, arriva l'hippie che, online, cerca di inquadrare razionalmente i sogni bucolici di milioni di cittadini frustrati. Lo scrittore, che intitola il suo blog Selvatici, dedica una luna riflessione al mito della campagna e alle ragioni per cui molti alla fine restano in città. La sua riflessione è un inno alla ponderatezza e al realismo: “Il sogno (di trasferirsi in città) – scrive il blogger selvatico - deve necessariamente essere un po’ romantico, deve saper cogliere il lato magico delle cose, ma deve essere un sogno vigile, altrimenti si corre il serio rischio di allevare una tremenda disillusione come quella indagata dal New Statesman e cantata da Stefano Disegni. Mai come quando si fa ritorno alla terra bisogna, appunto, avere “i piedi per terra. (...) Nel tempo ho anche imparato che pensare di saper fare tutto è un altro errore tipico da cittadino presuntuoso. Chi fa sempre tutto da solo non avrà mai niente di fatto a regola d’arte, e questo vale anche per chi se la sbrigare meglio di me, perché non si può avere la stessa esperienza di un professionista specializzato in tutti i campi. E’ invece buona cosa che ognuno faccia il suo lavoro”.

La sintesi dei due estremi invertiti arriverà probabilmente da un libro scaricabile gratuitamente in formato pdf...

mercoledì, febbraio 06, 2008

Mezzo secolo di storia della medicina (e non solo)

Anni Quaranta. Il paziente entra dal medico e lamenta un generale malessere. Il dottore ascolta il cuore e il ritmo del respiro e infine prescrive la sua cura: “Cerchi di mangiare e risposare un po'”.

Sessant'anni dopo circa. Il paziente entra dal medico e lamenta un generale malessere. Il dottore ascolta il cuore e il ritmo del respiro e infine prescrive la sua cura: “Cerchi di mangiare meno e faccia un po' di moto”.

sabato, febbraio 02, 2008

I pastori premilcuoresi che transumarono a Lepanto

I cronisti dell’epoca, tra cui Miguel Cervantes Saavedra, costruirono un’aura epica attorno alla battaglia di Lepanto del 1571. Lo scontro marittimo di fronte al porto greco di Patrasso segnò la fine dell’avanzata turca nel Mediterraneo. I migliori uomini di mare della cristinanità e del mondo musulmano – il genovese Andrea Doria e l’algerino Ulug Ali su tutti – incrociarono le loro galee: duecento da una parte e duecento dall’altra. Don Giovanni d’Austria, condottiero della Santa Lega promossa da Papa Pio V, scaldò gli animi dei combattenti mostrando loro il crocifisso ed esortando tutti al sacrificio. Veleggiò di fronte alla sua flotta con il vestito scarlatto della cavalleria medioevale, dando l’ultima nota di stile a una carneficina disordinata. Di lì a poco iniziarono i corpo a corpo tra gli equipaggi: caddero in mare 25mila turchi e più di 8mila cristiani.

La Santa Lega occidentale comprendeva anche dodici Galere di Cosimo de Medici. Su di esse furono imbarcati anche dei soldati di Premilcuore: lo attesta un resoconto comunale del 1572, che per il resto parla di guerriglie agresti con Castagno d’Andrea per il controllo di Piandivisi e Valbiancana.

I pastori “transumarono” dalla montagna al mare per omaggiare l’ultimo capitolo della storia navale del Mediterraneo: da quel momento in poi, infatti, i neonati Stati occidentali fecero rotta verso l'Atlantico, Venezia imboccò la via del declino e i Turchi, da cavalieri della steppa quali erano, tornarono a marciare verso oriente contro i Persiani.

martedì, gennaio 29, 2008

La sagoma dietro alla finestra

Era mattina presto quando varcai il cancello. L'oscurità della notte trascorsa al lavoro rendeva ancora difficile distinguere cose e persone. Entrambe si manifestavano come forme indefinite. Fu così che notai, dietro la tenda della finestra al primo piano, la sagoma di una donna. Fui sorpreso dalla sua presenza così mattiniera ma salii al piano superiore senza farci caso.

Qualche ora più tardi, rinfrancato da un sonno frammentato, ero di fronte a un caffè caldo pronto a riprendere la via della città. “Ti devo dire una cosa - mi disse a quel punto la zia sottovoce – Una brutta cosa. E' una di quelle schifezze che capitano solo in città”.

Mi preparai ad ascoltarla mentre con la mano aperta e lo sguardo accigliato la donna si apprestava a svelare il piccolo segreto: quello che dovrebbe rimanere nascosto, ma non si può fare a meno di condividere.

“Questa mattina – iniziò a raccontare – sono uscita di casa alla solita ora per andare al fare il giro al mercato. Forse solo un poco prima del solito perché non ho rifatto la camera dove tu riposavi. Ero ormai vicino all'uscita quando la signora del piano di sotto ha picchiato alla finestra. Sapeva che sarei scesa a quell'ora: studia i miei orari. E poi resta sempre in ascolto del rumore che fa la porta quando le do il tiro. Lo sai cosa mi ha chiesto? Mi ha chiesto chi era il ragazzo arrivato al mattino. L'ho guardata stupita e le ho domandato come faceva a sapere del tuo arrivo. “L'ho visto” mi ha risposto lei. “Chi è?” mi ha poi incalzato. Le ho detto allora che eri il mio “babì” che lei non aveva mai conosciuto”.

Sorrisi ripensando alla scena e alla sagoma nascosta dietro alla tenda intravista al mattino. “Non ce la faccio più con quella – aggiunse allora lei sconfortata – Sa tutto quella. Sa quando esco, sa chi è che parcheggia l'auto di fronte al cancello. E' sempre dietro alla finestra che guarda fuori. Ormai è diventata famosa anche nel condominio di fronte: le recitano appositamente delle parti per farsi vedere!”.

“Brutte cose” mi disse ancora la zia salutandomi. Pochi gradini più sotto, mal celata da una porta semiaperta, una figura origliava i miei passi verso l'uscita.

lunedì, gennaio 28, 2008

Sulla porta di Pian di Rupino

Pian di Rupino

I pesci in viaggio per Torino e il gatto artificiale di Monte Fuso

“Quando viaggio in treno verso Torino – dice Chiara – incontro sempre personaggi strani. L'ultima volta per esempio c'era un poliziotto con grandi cassette di legno. Vi trasportava gli acquari con i suoi pesci: animali magici, diceva lui, ai quali si era totalmente legato. Li operava ogni volta che un tumore minacciava la loro salute. Li portava a filo d'acqua, asportava loro la parte malata della coda e infine li rilasciava liberi dopo aver disinfettato la ferita con il mercurio cromo. E, anche in treno, non faceva altro che parlare e prendersi cura di loro. Ogni dieci minuti si alzava per controllare che tutti i finestrini del vagone fossero chiusi e che i suoi pesci magici non prendessero freddo”.

Maschera di gatto alle pendici di Monte FusoChiara, clown di corsia per professione e clown di giornata per vocazione, parlava mentre il sentiero tra Monte Fuso e Bocconi si arrotolava in due strette curve all'altezza di Pian di Gattoni. Un toponimo dal sapore di coincidenza in una giornata trascorsa sotto le plastiche forme di una maschera da gatto. L'aveva portata con sé Sandra, preferendola alla maschera di cavallo. Non c'era alcun motivo apparente dietro a questa scelta, né dietro alla presenza stessa della maschera durante l'escursione, ma il “gatto di plastica” faceva sentire la sua presenza invocando un ruolo da protagonista. A ogni sosta finiva sulla faccia di qualcuno e Sandra faceva scattare più e più volte la sua reflex. Anche il resto del gruppo invero cedeva spessp alla tentazione di fotografare quell'inconsueto connubio tra colori da carnevale e bosco autunnale.

La maschera da gatto fu riposta solo al rientro a Bocconi, quando Sandra avrebbe forse svelato la ragione di quella strana presenza. Forse, perché la spiegazione non arrivò mai in realtà. Nel piccolo bar sulla statale 67, l'umore della fotografa precipitò. La signora dietro al banco negò alla ragazza tutto ciò che cercava. “Finito” le disse quasi con stizza in due occasioni.
La fotografa si lasciò allora a un vago pessimismo cosmico: “Capita spesso” rispose.
A nulla valse per ritrovare il sorriso una nuova serie di scatti: ai cinghiali appesi alla parete, allo scaffale con gli elenchi telefonici, al marrone scolorito del legno dei tavoli. Nessun soggetto riportò il buon umore nell'occhio dietro all'obiettivo. E nel malumore restò intrappolato anche il perché di quello strano orpello carnevalesco trascinato fino al crinale di Monte Fuso.

sabato, gennaio 26, 2008

I piccoli intrecci a cui non basta non pensare

maniL'apprendista "adulto" camminava distrattamente. Procedeva verso il parcheggio trascurando i dettagli delle vie attraversate. Rifletteva tra sé e sé sul gomitolo di relazioni sociali delle ultime ore: il solito intreccio che comprendeva piccoli successi, strappi imprevisti, reazioni inaspettate, e alcuni sfoghi eccessivi.

Il giovane si stava convincendo a non dare peso alla “dark side” di quel gomitolo: tutto era semplice routine. Ne era certo. Pensare di non dare peso a quei piccoli incidenti, però, era già un piccolo fallimento. Quelle preoccupazioni, più semplicemente, non dovevano esistere. La loro presenza, vaga traccia di un eccesso di umanità fuori luogo, era spazio rubato a calcoli e azione.

Fu in quel frangente che il giovane notò la sporta semi aperta di una donna pochi più metri più avanti. Il ragazzo accelerò il passo per segnalare il pericolo. Stava allungando la sua mano sulla spalla della sconosciuta, quando questa si ritrasse violentemente, mostrando uno sguardo impaurito e livido: “Mi lasci perdere o inizio a urlare” disse tra i denti la donna.
“Guardi - provò a protestare il giovane – che...”. Ma la signora non ascoltò repliche.

Il ragazzo si convinse che non valeva la pena risentirsi per quello che era appena accaduto. Però riuscì solo a pensare che non avrebbe dovuto pensarci più.

domenica, gennaio 13, 2008

Il sonno della paura

Veniva da una famiglia propensa a catturare qualche extra dalla malavita. Il nonno, come professione, diceva di fare il giocatore. Non giocava, in realtà: passava i fine settimana in giro per le bische della Romagna a riscuotere una sorta di pizzo: per sedere al tavolo occorreva versare la quota, altrimenti non si entrava o si finiva ancora peggio.

Il business man aveva ereditato l'indole del nonno, ma l'aveva trasferita alla prostituzione. Il sesso a pagamento era un vizio più diffuso del gioco, quindi più redditizio: gli introiti crescevano secondo economie di scala. Andò tutto bene, fino al giorno in cui alla sua porta si presentò un giornalista. Il manager chiese se era lì per un “passaggio”, ma lo scribacchino rispose che era lì per lavoro. Dopo pochi istanti, una decina di volanti dei carabinieri sbarrò le vie d'uscita, facendo irruzione all'interno. Cercarono le donne anche nei frigoriferi.

“Hai avuto paura?” chiede l'amico al business man al termine del racconto
.
“Dei caramba?” fa lui in tono di scherno, alzandosi il colletto del cappotto. “Io non ho paura di nessuno. Figuriamoci di un idiota in divisa”.
L'amico ride, prende le sigarette dal tavolo e se ne va. Il business man invece resta seduto ancora per un po'. “Certo non è stata una bella esperienza” riflette a voce alta. Guarda l'orologio per constatare che è di nuovo tardi. Si versa qualche goccia di tranquillante in attesa di un sonno che non trova spazio tra i pensieri.

mercoledì, dicembre 26, 2007

Il business nel confessionale

Giorno di Natale, chiesa gremita. Il vecchio frate prende posto nello stanzino in fondo alla cappella per celebrare il sacramento della confessione. Di fronte all'ingresso si crea subito una lunga fila di fedeli. Quelli più esperti sanno che l'attesa sarà lunga: il religioso ha la parlantina facile e fa scorrere molte parole prima di impartire l'assoluzione.

Si fa infine il mio turno. L'uomo in saio mi domanda cosa faccio. Rispondo concludendo la lista con le visite guidate in programma nel prossimo anno: “Una sarà anche qui al santuario” aggiungo. Il rituale si rompe. Il frate alza lo sguardo e mi incalza per saperne di più. “Sai – mi dice – qui abbiamo cinquantamila visitatori all'anno. Mi interessano questi interventi”.

Il dialogo prosegue fino nei dettagli, quasi irrispettosamente verso la calca che intanto si accumula all'esterno. Domande su domande si susseguono, fino a quando il confessore capisce infine che ora di tornare al sacramento. “Comunque – mi dice – se qualcuno ti riferisse di aver sentito da me ciò che mi hai appena detto, vorrebbe dire che qualcun altro me ne ha parlato, perché come sai ciò che tu m i stai dicendo ora sarà destinato a rimanere tra le nostre anime. Insomma, se la contattassi, sarebbe perché altri mi avrebbero informato. Mi capisce?”.
“Padre – lo interrompo – la capisco benissimo. Però se desidera un recapito, credo di poterla soddisfare”.
“Certo mi aiuterebbe” risponde lui sotto voce.
Gli allungo allora il mio biglietto da visita, che lui ricambia annotando il numero dell'eremo: “Chieda del più anziano – mi dice – vedrà che capiranno”.

Chiedo perdono per questa fuga di notizie, ma come il frate disse: “Chi ha la penna a volte esagera, ma spesso solo per giusta passione”.

domenica, dicembre 16, 2007

Il caffè, il vigile e la multa

C’è un cliente in divisa ogni martedì mattina nel bar di viale Roma. Entra un attimo per ritemprarsi dal freddo della strada, posa il cappello e ordina un caffè. Le ragazze al banco servono il vigile con il sorriso sulle labbra, lo accolgono come uno di casa: insieme scherzano per qualche minuto. Poi cala un attimo di silenzio: l’ufficiale prende la penna, completa i cambi del verbale e, con lo stesso sorriso di prima, si rivolge alle ragazze al banco: “Sono 250€ anche questa settimana” dice loro.

Succede tutte le settimane. Il bar rimane aperto anche nel suo giorno di chiusura e il vigile passa per depositare il suo verbale. Martedì dopo martedì.

giovedì, dicembre 06, 2007

Continua l'epopea digitale di Pianbaruzzoli

Ulisse e GianbardoIl ritorno di Giambardo a Pianbaruzzoli, ovvero la ricongiunzione tra il fondatore e la sua comune autogestita nella valle dell'Acquacheta, risale ormai a più di un anno fa: era il novembre 2006. Tanto è passato dal giorno in cui l'uomo tornò alla sua vecchia casa per farne una fondazione e portare a termine il suo sogno di bene collettivo.

La leggenda attorno a quel luogo, però, continua a propagarsi. Il blog "Selvatici", infatti, dedica a sua volta un lungo post, o meglio una lunga citazione, alla storia degli Zappatori senza terra dell'Acquacheta. Il post porta una data recente: 12 ottobre 2007.

domenica, dicembre 02, 2007

Quando l’idea è più forte dell’indizio che la contraddice

I tre viandanti marciavano in direzione nord, costeggiando il torrente che scorreva più a valle sulla loro destra. Erano ormai nella parte finale dell’anello studiato più e più volte durante il mattino. Restava da affrontare solo l’ultima erta, che li avrebbe condotti al crinale e da lì, in pochi passi, al punto di partenza. Cartina alla mano, tra loro e la fine della salita, mancava solo un bivio: la strada a sinistra terminava su un rudere; la strada a destra, quella corretta, arrivava invece sulla sommità al complesso di casa con parrocchia attraversato dalla carrareccia.

Il rudere e il bivio sulla sinistra, però, non arrivarono mai. Forse in quella basse valle il contadino aveva rimosso la strada per arare un nuovo campo. L’errore di valutazione dei viandanti nacque da lì. Alzarono gli occhi alla cima della collina e si convinsero che il complesso sul crinale, termine ultimo della loro salita, fosse in realtà il rudere segnalato dalla cartina a mezza costa. Prima di raggiungerlo avrebbero dovuto quindi svoltare sulla destra. Iniziarono a cercare quella deviazione, tra boschi e pascoli, tra campi percorsi avanti e indietro. L’oscurità si avvicinava ma il loro vagare non trovava soluzione.

Seguirono allora la strada principale, quella meglio tenuta. Gli indizi a fianco della via avrebbero potuto segnalare al gruppo la loro corretta posizione, ma i tre erano convinti di essere altrove e quelle evidenze furono per loro inutili. I tre allora continuarono a marciare, certi che, tenendo la loro destra, avrebbero raggiunto prima o poi la meta. Tennero la destra una, due, tre volte, su bivi ignoti, disorientati da segnali che per loro non dovevano esistere.

Infine si imbatterono nel casolare raggiunto al mattino. Tutto d’improvviso fu chiaro. I ruderi ripresero il loro nome, i segnali ripresero la loro coerenza, la rotta seguita si materializzò sulla carta. I viandanti ritornarono sui loro passi e in breve ritornarono al punto di partenza.

Tuttora i tre sono incerti nel capire l’origine del loro errore. La stoltezza della valutazione dell’uno e la facilità con cui il suo errore si impose nella mente degli altri. Fu un piccolo delirio collettivo: una fede errata si radicò in loro così profondamente che il mondo da loro pensato prese il sopravvento sul mondo da loro attraversato. Ciò che vedevano non erano più ciò che esisteva ma ciò che per loro avrebbe dovuto essere. Nessun indizio contrastante bastò loro per testimoniare l’errore nella teoria di partenza.

venerdì, novembre 23, 2007

L’uomo (a cavallo) dei mercati

Il figlio scese dall’auto di corsa per salutare il nonno nella vecchia bottega di famiglia nel centro città. Era ancora un bambino e doveva ancora arrivare alla prima elementare, ma il padre pensava già a come si sarebbe dovuto comportare per insegnargli ciò che la scuola non gli avrebbe detto. Non gli avrebbe impedito di attraversare mezza Europa solo per ubriacarsi a un concerto, ma l’avrebbe costretto a immergersi in modo più profondo nella realtà straniera che avrebbe visitato.

Quando il bambino scomparve dietro la porta di ingresso, il padre si accese una sigaretta e alzò il volume dell’autoradio nell’auto ancora accesa. Pensò a quando, pochi anni prima, apriva filiali bancarie in tutto il nord, compiacendosi delle royalties che facevano schizzare alle stelle il proprio conto corrente. Cavalcare l’onda dei mercati finanziari, prevedere un balzo in avanti all’apertura delle borse asiatiche, era una sfida che gli riempiva il sangue di adrenalina. Cercando di prevedere il futuro, aveva imparato a capire il mondo. Ogni giorno l’uomo apriva i quotidiani finanziari e leggeva ciò che l’articolista non sapeva o non poteva scrivere. Lo faceva ancora, benché quel mondo non fosse più il suo e gli avesse tolto gran parte di ciò che gli aveva dato.

“Il nonno ti saluta e ha detto di fargli sapere come sta andando al lavoro?” irruppe il figlio interrompendo quei pensieri e risaltando a bordo. “E’ un lavoro come un altro – pensò il padre – poco più di mille euro al mese”. Sistemò la cintura al bambino e insieme viaggiarono verso la casa di famiglia in campagna, dove, di nuovo insieme, avrebbero perpetrato la tradizione dell’allevamento di cavalli da corsa. La vita riprendeva il suo corso, forse quello che non avrebbe mai dovuto lasciare.

giovedì, novembre 08, 2007

Cane sciolto e l’eco infinita del diario di Sassello

“Quanto strana questa Arte della Scrittura possa essere parsa alla sua prima Invenzione, possiamo capirlo da quegli Americani scoperti recentemente, che erano sorpresi di vedere gli Uomini conversare con i Libri, e faticavano a credere che la Carta potesse parlare...”
(John Wilkins – Mercuri, Or the Secret and Swift Messenger”)


Non fu certo per necessità interiore che Jacopo 617 mise mano alla penna il 17 aprile del 2005. Probabilmente fu solo per noia. Quel giorno, come tanti altri in precedenza, era salito da solo fino al bivacco di Sassello (immagini). Si sentiva a suo agio in quella casa a metà: perfettamente integra a nord, monca a sud, dove i tedeschi, nel corso di un rastrellamento, avevano appiccato un incendio. Jacopo era arrivato fin lassù senza alcun proposito, attraversando boschi e pascoli solo per la voglia di andare avanti fino a una meta, fino a un posto come un altro. Scelse Sassello perché era il posto più vicino alla sua rotta e perché ormai rivedere quella stanza con il grande camino, il tavolo in legno al centro e la scala per il soppalco, era un po’ come rivedere casa. Quando Jacopo finì la marcia e varcò la soglia si sentì però a corto di senso: non sapeva come riempire il suo tempo lì tra piante colorate dai primi accenni di fioritura.

Fece allora ciò che lui, falegname, non era solito fare. Prese la penna e inaugurò un diario. Sulla prima pagina di un quaderno a righe dalla copertina rigida ripensò ai due daini che aveva incontrato poco prima lungo la salita da Valbonella. Scrisse ciò che secondo lui aveva pensato l’animale maschio: scrisse che la bestia aveva probabilmente provato gioia nel mostrare il proprio palco agli occhi invidiosi dell’uomo. Jacopo raccontò tutti i particolari dell’incrocio di sguardi tra sé e la coppia di daini, dicendo anche che il suo essere lì, così casuale, lo faceva sentire un po’ un cane sciolto. Scrisse tutto ciò e poi ripose il quaderno sul piccolo tavolo a fianco dell’ingresso.

I messaggi che vengono inviati al mondo spesso si perdono nel fruscio di fondo, mentre quello di Jacopo, abbandonato nel vuoto di Sassello, si propagò nell’aria del rifugio fino a generare un’eco. Stefano lo intercettò alcuni giorni dopo, il 24 aprile del 2005. Leggendo le frasi di cane sciolto scelse di mettere a sua volta mano alla penna. Si sentì in dovere di consolare la malinconia che lui riconduceva a quello pseudonimo. Allora, firmandosi a sua volta "cane sciolto", scrisse che il daino probabilmente non era inorgoglito per il proprio palco, ma invidioso per la libertà dell’uomo: l’animale si vergognava di essere stato scoperto lì in quel pascolo in cui era andato solo per nutrire la sua compagna e invidiava il viandante che poteva invece prendere la direzione che più preferiva, su fino al rifugio di Sassello o giù di nuovo verso Valbonella.

Il dialogo tra i due cani solitari per un lungo anno naufragò anonimo tra i commenti di routine che i passanti casuali lasciavano sul diario, riposto sempre sullo stesso tavolino a fianco dell’ingresso. Ma né il tempo, né il caos cancellarono l’eco delle parole iniziali di Jacopo. Un anno dopo, nell’aprile del 2006, Jessica volle imporre la propria voce di donna su quei lamenti maschili: “Cari uomini sconsolati – scrisse Jessica al centro di un lungo intervento – chi vi parla è una donna che come voi ama la libertà. Quello che vi voglio dire è semplicemente che essere liberi non significa necessariamente essere soli. Quello che affermate è solo una maschera che vi portate per nascondere la vostra mancanza”.

Forse Jacopo, firmandosi “cane sciolto”, non pensava alla propria solitudine. Forse Stefano aveva sbagliato a leggerla come tale e a elogiarla. E forse non aveva avuto senso la lunga critica ai due uomini lanciata da Jessica. Ma questo oggi non importa più molto, perché l’eco della parola scritta che si propaga nel vuoto di Sassello prosegue la sua marcia senza più timore di rimanere fedele al grido da cui era partita.

Faggeta d'autunno

Strada di crinale dei Tre Faggi

Bivacco di Sassello

bivacco di Sassello
bivacco di Sassello

Leggi la storia di Cane sciolto e l'eco infinita del diario di Sassello.

domenica, ottobre 14, 2007

Il soldato brasiliano che morì sulla via del ricordo

Il ritmo di samba non pulsava più nelle vene. Il respiro del soldato brasiliano, macchiato di sangue e fango, seguiva il suono interno e tambureggiante della paura. Attorno a lui c’erano solo simboli di una geografia ignota: querce e carpini spogli per l’inverno, ripidi crinali calanchivi, masi diroccati dai bombardamenti. Non c’era nulla che parlasse di casa, di spiagge e di foreste tropicali. Non c’era nulla che aiutasse il soldato a rispondere alle sue domande. Dentro di lui, gli interrogativi si intrecciavano convulsi, nella foga di una morte che poteva arrivare assieme al sibilo dello sparo successivo. Cosa ci faceva lui tra i boschi di Semelano? Cosa c’entravano lui e i suoi amici dalla pelle creola con i Tedeschi che avevano invaso l’Appennino emiliano e con gli Italiani che avevano cambiato bandiera una volta ancora? Perché ora erano lì in prima linea tra le fila dell’esercito alleato? Gli ordini iniziali erano diversi: loro, i brasiliani, sarebbero dovuti rimanere fermi nelle seconde linee, solo con responsabilità di appoggio. E invece erano lì alla ricerca del faccia a faccia col nemico a pochi di chilometri da Zocca.

Quando l’adrenalina della paura dava una tregua, la mente del soldato brasiliano cercava di tornare a ragionare come se di fronte avesse un futuro certo, o almeno probabile come quello di un uomo giovane e sano. Il militare latino si chiedeva allora se mai, una volta finita la guerra, avrebbe potuto amare quel luogo e quella gente. Si chiedeva se mai avrebbe avuto la capacità di ridere, ballare e mangiare al tavolo di quei contadini sconosciuti per la cui libertà stava rischiando la vita. Da uomo, si chiedeva, avrebbe avuto ancora qualcosa da spartire con quelle montagne lontane su cui il suo pazzo destino da soldato l’aveva spedito?

Sessant’anni dopo quel soldato brasiliano, ormai solo un vecchio reduce, entrò nell’aeroporto di Rio per cercare le risposte alle sue domande di guerra. Dopo otto ore, o giusto qualcosa in più, avrebbe infine rimesso piede in Europa, a Semelano, per commemorare le proprie gesta di oltre mezzo secolo prima. Finalmente avrebbe saputo se c’era ancora un legame tra lui e loro, tra lui e gli Emiliani.

Poche ore dopo, a dodicimila metri di altezza sulle acque dell’Atlantico, il cuore del soldato brasiliano si fermò. Morì sulla via del ricordo, pochi istanti prima di raggiungerlo.

venerdì, ottobre 12, 2007

Anche le macchine, a volte, non sanno cosa dire

Dal manuale Uso manutenzione, sicurezza di Opel Meriva (edizione agosto 2006):

"Spia controllo motore"

"L'accendersi della spia durante la marcia indica un guasto al motore o al cambio elettronico. In tal caso il sistema elettronico inserisce un programma di emergenza che può aumentare il consumo di carburante e pregiudicare le condizioni della vettura.

Qualche volta spegnere e riaccendere il motore può eliminare il guasto. Se, a motore avviato, la spia si illumina nuovamente, rivolgersi a un'officina (...).

Un breve e non ripetuto accendersi della spia luminosa controllo motore è priva di significato".

lunedì, ottobre 08, 2007

A piedi tra i banchi di scuola

Si vede che la casa di Castel dell’Alpe è figlia di un progetto antico, retrodatabile al 1200. Le finestre interrompono la parete disponendosi lungo una diagonale, perché dentro ogni stanza è su un piano diverso. Attorno alla casa, però, non si vedono più gli indizi delle fortificazioni che avevano dato il nome al luogo. All’imbocco della strada, lungo la statale dei Tre Faggi, i cartelli – pannelli bianchi verdi con cornice di legno - parlano ancora dei ruderi della vecchia rocca e della vecchia botte. “Ma non è mica vero niente” ci ha detto la signora che abita lì da cinquantacinque anni. “Non so cosa faccia il comune: qui è crollato tutto nel seicento”.

E’ stata un po’ una delusione dopo la strada fatta per arrivare fin lì. Ma a volte il vuoto del luogo può lasciare più spazio alle voci delle persone che lo percorrono. Come riflette il sociologo francese David Le Breton, in un saggio dedicato al cammino (Il mondo a piedi, Feltrinelli), “si cammina anche per scrivere, raccontare, cogliere delle immagini, cullarsi in dolci illusioni, accumulare ricordi e progetti”. Sulle pendici del Monte Tiravento, nel crinale tra la valle del Bidente e quella del Rabbi, è stato il ricordo a farla da padrone. Il ricordo di scuola in particolare.

Il viaggio a ritroso tra le memori degli escursionisti è partito in una seconda ragioneria di quasi vent’anni fa. Alberto M. – raccontano i suoi vecchi compagni di classe – sostenne allora in un’interrogazione di storia che Plinio il Vecchio, il celebre naturalista latino, fosse morto assiderato sotto l’eruzione del Vesuvio. Chissà se Plinio, morto in realtà a causa dell’asma, rise a quella risposta. Certo è che non lo fece l’insegnate che a fine anno fece bocciare l’allievo. Fu un brutto schiaffo per il giovane Alberto che però reagì prendendo a calci il pallone, su su fino al Napoli di Maradona e Ciro Ferrara.

Senza un epilogo così glorioso fu invece il difficile percorso da obiettore di coscienza di un geometra della bassa forlivese. Il suo percorso fu travagliato dall’inizio. La posta non gli recapitò la comunicazione di inizio servizio e i carabinieri giunsero puntuali a casa sua per portarlo in caserma e chiedere lumi sull’accaduto. Nulla più che un accertamento di routine. Sfortunatamente, però, una comare alla finestra diffuse la notizia del suo presunto arresto prima che l’interessato potesse tornare a smentirla. E, nelle piccole comunità, si sa, le etichette sono più appiccicose che altrove. E, chissà, le malelingue contribuirono con le loro maledizioni a portare il geometra in un posto difficile come la casa di riposo del cesenate dove pochi giorni dopo approdò. Fu lì, ancora adolescente, che realizzò per la prima volta che le persone invecchiavano e che ai colpi del tempo qualcuno aggiungeva anche i propri. Vide tutto il giorno in cui un’anziana signora malata di Parkinson fu bloccata con le mani e la bocca sporche del pongo utilizzato per il Gesù bambino del presepe. E ascoltò tutto, quando l’infermiera reagì all’emergenza chiedendo alla sua superiore: “Ma ora che ha mangiato Gesù, gliela devo dare lo stesso la merenda?”.

lunedì, ottobre 01, 2007

Loop informativo: dal blog a Radio2 e ritorno

La ragazza ha parlato al ragazzo del blog dell’amico. La ragazza ha poi parlato all’amico del programma del ragazzo. La sua idea era di far parlare nel programma del ragazzo del blog dell’amico. Ciò è avvenuto: il ragazzo ha intervistato nel suo programma l’amico della ragazza facendogli domande sul blog che scriveva. Ora completo il ciclo, collegando da qui il file audio del programma dell’amico dove abbiamo parlato di questo blog. Insomma, per usare frasi tecniche, un ottimo esempio di loop informativo tra personal media e broadcaster.

Buon ascolto di Versione Beta andato in onda su Radio 2 sabato 29 settembre a partire dalle 10.30
(l'intervista è pochi istanti dopo la sigla iniziale):

venerdì, settembre 21, 2007

Contributi? Volerli versare non è sufficiente

"Non è difficile guadagnare soldi" disse.
"Ma guadagnare dedicandosi a qualcosa di utile".
(Carlo L. Zafon - L'ombra del vento)


Mi dispiace un po’ affrontare l’argomento. Mi dispiace un po’ aver trascorso sei mesi in Australia parlando solo di persone e tornare in Italia e finire a scrivere di fisco. E’ una materia che odio e che tralascerei sempre. Però il destino mi ha sottoposto una piccola serie di sventure, che mi è troppo “divertente” per essere taciuta, soprattutto perché la serie non è poi così corta.
I fatti sono questi.

Per ricondurre a un’unica modalità di pagamento tutte le sue collaborazioni, il piccolo giornalista apre la sua attività autonoma con partita Iva nel gennaio del 2006. All’epoca non è ancora iscritto all’ordine dei giornalisti e la sua cassa previdenziale diventa dunque la gestione separata dell’Inps. La sua situazione cambia dopo circa sette mesi, precisamente il 22 luglio, quando il suo nome viene aggiunto all’elenco dei pubblicisti dell’ordine di Bologna. Il piccolo professionista adempie alle spese burocratiche per la pratica, ma trascura un particolare relativo alla sua posizione contributiva: ignora che, stante il suo nuovo statuto, da quel giorno in avanti per lui vige l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dell’Inpgi, ovvero la cassa previdenziale dei soli giornalisti.

L’errore rimane nell’ombra a lungo. Non succede nulla negli ultimi mesi del 2006, mentre il giornalista prosegue la sua attività nel bolognese, né nel 2007 quando lo stesso trascorre un lungo periodo in Australia. L’errore rimane nascosto anche nel luglio 2007, quando il commercialista effettua, a termini di legge, la dichiarazione dei redditi relativi all’anno precedente. I contributi vengono calcolati secondo le aliquote Inps e, proprio a questa cassa, il 18 luglio il commercialista versa la prima rata delle tre in cui si era deciso di scindere il pagamento per meglio fronteggiare la spesa (ingente).

Un paio di settimane dopo quella data il giornalista rimette piede in patria e, scorrendo la corrispondenza del semestre precedente, nota una missiva dell’associazione stampa italiana che gli ricorda, stante la sua iscrizione all’ordine, l’obbligo del versamento dei contributi provenienti da attività giornalistica alla gestione separata dell’Inpgi. Il giornalista fiuta l’omissione, telefona alla sede romana del proprio istituto di previdenza sociale, dal quale arriva la conferma che i contributi maturati successivamente all’iscrizione dell’ordine devono effettivamente andare all’Inpgi. La telefonata avviene nei primi giorni d’agosto: per il giornalista inadempiente sembra che tutto si possa risolvere agilmente avviando la pratica di iscrizione all’Inpgi, versando in tale cassa i contributi per il periodo luglio-dicembre 2007, e richiedendo successivamente il rimborso dei contributi in eccesso versati all’Inps. L’unico inconveniente sembra sul momento una mora sull’acconto dell’anno precedente non pagato all’Inpgi a causa della mancata iscrizione.

In realtà però la situazione non è così semplice. Il commercialista di rientro a Bologna fa notare che la dichiarazione dei redditi è unica e che l’iscrizione a una cassa professionale comporta solitamente la cancellazione dalla gestione separata dell’Inps. Il giornalista si reca allora all’Inps per sottoporre la questione, naviga attraverso tre sportelli e alla fine arriva all’ufficiale preposto. Questi parla anche direttamente con il commercialista, che a sua volta si informa con l’Inps di Bologna, e tutti insieme concludono che l’Inps non ne deve più sapere nulla. Il giornalista, che nel frattempo si è iscritto alla sua nuova cassa, chiama la stessa per un paio di delucidazioni in merito alla compilazione del modulo per la dichiarazione dei redditi. Ottiene le sue risposte e alla fine conclude affermando che presto invierà il modulo in questione con tutti i redditi del 2006, come concordato con l’Inps. La risposta è un’accusa malcelata di infermità mentale. La signorina al telefono, che può parlare solo con me e non con il mio fiscalista (perché?), mi dice che l’Inpgi è tenuta a ricevere soli i contributi relativi ai redditi maturati successivamente alla mia iscrizione.

E’ l’impasse. Il giornalista, ormai alterato, chiama di nuovo il suo commercialista, che rimane basito a sua volta. Il commercialista si offre di chiedere informazioni ad altri colleghi e dà al giornalista il numero dell’Inps di Bologna per un ulteriore accertamento. Il giornalista si improvvisa a sua volta fiscalista, chiama l’Inps di Bologna e spiega, cercando di essere chiaro e sintetico, la sua situazione. L’ufficiale dall’altra parte della cornetta avvalla questa volta la volontà Inpgi. Se loro vogliono solo i mesi successivi all’iscrizione, loro devono avere quelli e solo quelli; i precedenti rimangono all’Inps. L’ufficiale mi dice che chi mi cura la dichiarazione dei redditi si deve limitare a scindere il reddito in due righe: una con il reddito del primo semestre, l’altro con il reddito del secondo semestre. Al primo valore corrisponderà un F24 per il versamento dei contributi all’Inps, al secondo invece un F24 per il versamento dei contributi all’Inpgi. L’ufficiale, sentendo il mio smarrimento di fronte alla proliferazione dei moduli, mi consola dicendo che, in caso di iscrizione a doppia cassa, l’Inps applica una tariffa agevolata.

Il commercialista, sentendo il mio resoconto, mi ripete che la cosa gli continua ad apparire strana, perché, spiega, il modello unico non prevede distinzioni interne al lavoro autonomo. Però ammette di poter procedere in tale senso se quello è ciò che ritengo giusto. Siccome quello sembra l’unico modo per soddisfare l’Inpgi senza evadere i sei mesi precedenti, la risposta è “sì”. Ovviamente senza certezza di essere nel giusto.
Ma non è finita qui.

Mentre il giornalista è al telefono con l’Inpgi e l’Inps, la banca lo contatta con urgenza per segnalargli di aver bloccato i pagamenti delle due rate contributive spettanti all’Inps. I pagamenti erano infatti andati avanti regolarmente perché contenevano anche l’Irpef, comunque obbligatoria a prescindere dalla cassa di appartenenza. La ragione dello stop è una discordanza tra il mio codice fiscale in loro possesso e il mio codice fiscale inserito nel modulo F24 elettronico. L’errore in effetti sussiste. Chiamo quindi il commercialista per comunicargli l’avvenuto e invitarlo a ripetere la procedura. Il commercialista ravvede l’errore, ma mi fa notare che lo stesso codice fiscale errato era anche nel pagamento effettuato il 18 luglio. Chiamo allora la banca per sapere perché in quell’occasione il pagamento era stato avvallato e la risposta, dopo un’attesa di circa trenta minuti, è la seguente: un errore della macchina.
Sorrido. Sfighe ben più assurde capitate ad amici mi dicono che in fondo non è nulla di grave.

Comunque, in attesa di capire se la quelle Inpgi/Inps è al termine, la mia situazione risulta la seguente. Il mio primo versamento effettuato all’Inps (forse erroneamente) il 18 luglio è partito dal mio controcorrente, ma all’Inps non risulta a causa del codice fiscale errato, che ora il commercialista dovrà cambiare recandosi direttamente all’agenzia delle entrate. Quanto alle altre due rate (forse sbagliate), a causa dell’invio ritardato, sono partite dal mio controcorrente rincarate con mora. Insomma, niente è sicuramente giusto.

Ciò che rende divertente tutto questo è l’ammontare di soldi spesi in telefono, il tempo perso e le migliaia di euro versate senza alcuna certezza. A fronte di un errore mio, direte certo voi, ma solo fino a un certo punto ho invece capito io. Il conflitto tra Inps e Inpgi, infatti, che è la questione più annosa e che nel mio caso si è presentato per una ragione temporale (dilazione tra inizio attività e iscrizione ordine), si verifica anche ogni volta in cui un’attività non giornalistica si affianca a quella giornalistica. Ovvero spesso. Se per esempio uno opera da guida turistica o da muratore, l’Inpgi non vuole sapere nulla dei contribuiti derivanti da prestazioni non giornalistiche, richiedendo di nuovo, alla faccia dei principi di aggregazione che di solito regolano le casse, la scissione dei redditi da lavoro autonomi. Insomma, a chi ha la gestione separata dell’Inpgi di mezzo tocca quasi per forza l’iscrizione a una doppia cassa.

Considerazioni:

1) Al momento della pensione, tutti i contributi versati vengono aggregati in un’unica cassa. Perché allora tutta questa importanza nel versare i contributi da una parte e dall’altra?
2)Perché esistono le casse professionali (legate agli altrettanto inutili ordini)? Non sarebbe tutto più snello con un’unica cassa e la sola distinzione fondo per lavoratori dipendenti e fondo per lavoratori autonomi. Accade in Australia e anche in Algeria (cazzo, anche lì!).
3) A chi fatturo il tempo perso, i soldi spesi per il telefono e le more dovute a un regolamento ignoto anche agli addetti ai lavori?

Dopo aver ironizzato per molte righe sulla normativa fiscale italiana, mi dispiace ancora di più affrontare l’argomento. Mi dispiace cioè ricordare che, prima di lasciare l’Australia, ho effettuato online (da solo, senza commercialista) la richiesta per la restituzione dei contributi lì versati e, dopo due settimane, ho ricevuto indietro i soldi. Vorrei sottolineare questo punto: là non è stato facile versare i contributi, ma addirittura è stato facile riaverli indietro.

L’anno prossimo tenterò di evadere tutto. Non dovrebbe essere più difficile, né molto più costoso in caso di “sgamatura” di quanto lo sia stato la regolare dichiarazione di quest’anno.

martedì, settembre 04, 2007

La pace attorno al dolce

Bocconi“Non ne sono sicuro” disse qualcuno con la saggezza delle canizie sulle tempie mentre guardava il banchetto nella piazza di Bocconi. Motociclisti senza fretta, escursionisti a piedi scalzi e signore con la gonna sotto le ginocchia mangiavano in piazza ciò che rimaneva della festa del giorno prima. Era stata baracca grossa, perché il Comune aveva reso omaggio alla bandiera arancione per la qualità della vita che il Touring Club Italiano gli aveva conferito poco prima.

“Non ne sono sicuro - ripeté in romagnolo il vecchietto con le canizie di fronte al quieto intreccio di quelle diverse tribù del tempo libero – ma secondo me, quando scoppiano le guerre, dovrebbero mettere un tavolo come questo al centro del campo di battaglia. Al dolce si fermerebbero già per fare la pace”.

Forse no, ma come disse qualcun altro, quel giorno la manna del cielo quel giorno era comunque caduta a Bocconi.