martedì, aprile 11, 2006

L'unica certezza è l'Hepatica Nobilis

Uno degli esercizi spirituali che Paulo Cohelo illustra ne Il Cammino di Santiago è il camminare con lentezza. Il concetto è semplice: rallentando l’incedere aumenta la capacità di percepire i dettagli del paesaggio. Oltre agli elementi più evidenti, come le linee di una casa o di una collina, si impara così a cogliere anche gli elementi più nascosti, come il fumo di un comignolo o le increspature di una corteccia.

Giovanni Betti, mio socio al corso da guida escursionistica, santasofiese d’origine, e naturalista di formazione, non credo che avesse in mente Cohelo lo scorso sabato, ma è riuscito lo stesso a trasformare un’escursione in una lezione di cammino lento o, come dice più prosaicamente lui, una lezione di “sguardo del naturalista”.

Eravamo lungo il sentiero dell’Acquacheta. Conosco a memoria quel sentiero: probabilmente è quello che ho battuto più spesso, almeno una decina di volte. Ma avevo notato sempre e solo il punto di arrivo: la cascata a circa quattro chilometri da San Benedetto che Dante cita nell’Inferno. Sabato scorso invece sono stato dieci minuti di fronte alla cascata e cinque ore lungo il sentiero. Guardavo in basso e c’era la traccia biologica del passaggio del lupo. Guardavo sulla destra e c’era un tronco ricurvo che raccontava del lento scivolamento del terreno. Guardavo a sinistra e c’era la fioritura giallo scura del Corniolo da non confondere con i gialli più tenui dei Salici e dei Saliconi. Guardavo avanti e c’era da far luce sull’intricata commistione tra faggi, querce, frassini e castagni. Mi voltavo in dietro e c’era un albero isolato che raccontava la storia del pastore che ne sfruttava l’ombra mentre il suo gregge pascolava nel prato circostante.

Camminare con lentezza o, se si preferisce, adottare lo sguardo del naturalista mi ha avvicinato a una galassia di simboli di difficile decifrazione, perché le variabili naturali giocano a combinarsi in modo subdolo e mascherano l’una gli effetti dell’altra. C’è l’altitudine che ferma i faggi sopra gli 800 metri, ma poi c’è il fiume che aumenta l’umidità e li spinge più a valle fin quasi al paese. Allora, per capire se ciò che ci è di fronte è un faggio o un carpino, si è costretti a concentrasi sulla corteccia. Quella del faggio è scura e liscia, mentre quella del carpino è più chiara e increscapata. Ma la regola non vale sempre, perché il carpino giovane ha a sua volta la pelle liscia. E poi c’è non va dimenticata la quercia: anche lei ha la corteccia ruvida...

Quello del naturalista mi è parso insomma un mondo dominato da verbi al condizionale. L’unica certezza acquisita riguarda la pianta della foto qui a fianco, scattata proprio da Giovanni: è l’Hepatica nobilis. E’ una pianta semplice da riconoscere e molto comune. Chiaro, no? Ricordate però che la stessa pianta può chiamarsi anche Occhi di gatto, Anemone hepatica o Erba trinità...

“Cogito ergo sum”, diceva Cartesio. “Cogito ergo dubito”, dico io. Parola di guida fallita.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Innanzitutto complimenti!, bello il blog e molto gradito il paragone con Cohelo. Come hai visto sono molte le cose che la natura può insegnarci, infinita è la variabilità di forme distinguibili nel territorio, occorre solo la pazienza e la voglia di osservarle.
A causa del poco tempo che noi uomini dedichiamo all'ambiente, le sue migliaia di sfumature ci lasciano spesso con alcuni dubbi o insicurezze.In realtà, a parte la mia vacillante esperienza, voglio ricordarti che entrare in intimo contatto con questo mondo vul dire entrare in quello di più vero che il mondo stesso ha da offrirci e che i verbi condizionali, che non dovrebbero adoperarsi si rendono a seconda dei luoghi e dei periodi necessari.il problema fondamentale è l'immensa varietà di forme e adattamenti.
Ogni stagione ha comunque le sue verità da offrirci: ad esempio la primavera nei sottoboschi romagnoli ha le sue(vedi Hepatica).
Per eventuali escursioni sarà sempre un piacere partecipare....
Buon proseguimento da Giovanni Betti