mercoledì, marzo 24, 2010

Quotidiane vicissitudini di un ego liquido

Supera la periferia e accelera, supera i camion, supera le auto, supera i treni, gli altri quelli normali. Sul binario rettilineo steso in mezzo a una pianura senza punti di riferimento, la velocità si perde in un sibilo che ti lascia immaginare senza prove relative. Avevi camminato mezz'ora per raggiungere la vicina stazione, attraversando i corsi ortogonali di Torino, fai appena in tempo a sistemarti prima di scendere tra gli angoli acuti e ottusi dei portici di Bologna. Finalmente a bordo della Freccia ti apri al tempo che corre e ti godi il tuo personalissimo delirio neofuturista. Attorno, utenti del mondo primario della rete rimangono impassibili, mentre i loro corpi si spostano da un punto all'altro del loro secondario contesto fisico: postano e dunque sono, dove e quando importa solo fin quando offre loro uno spunto alle rispettive narrazioni digitali.

Tutto elettrizzato dai virtuosismi del perenne contatto con la rete Internet, con la massa alleggerita dalla velocità che cresce ancora sui binari della rete fisica, mi sorprende quasi l'eco di un bisogno antico. Spingo il bottone per ritirarmi il minimo necessario a ciò che rimane del mio vetero ego biologico, ma non succede nulla. Cazzo, cazzo, la porta del bagno è rotta e il mio essere liquido in una società fluida diventa d'un tratto difficile da gestire senza un tubo fisico in cui farlo scorrere.

martedì, marzo 09, 2010

La piccola percentuale di penna adulta e mente bambina

Ricordo la mattina nell’aula di via Centotrecento a Bologna in cui lo studente più artista di noi professò la sua fede per la narrativa libera e il suo scarso interesse per le gabbie argomentative del saggio. La docente lo guardò senza stupore, probabilmente già abituata dall’esperienza a maneggiare quel cocktail di alcol e ormoni in sovrappiù nascosto in abiti dalla simbologia pop: “Il rapporto tra narrativa e saggistica può essere più articolato di quanto tu credi – gli disse – Eco per esempio spiega di scrivere romanzi ogni qualvolta ha un’idea troppo imprecisa per dare forma a un saggio. Racconta quell’idea nel tentativo di chiarirla strada facendo, dando vita a una trama di cui lui stesso, all’inizio, non conosce l’epilogo”.

Non è forse così per tutti, per tutti coloro, anche i molti che non lo ammettono, che si prendono la briga di raccontare se stessi e il mondo nelle pagine di un diario? Lì ci finisce quello che è di troppo attorno a un tavolo, sui seggiolini di un’auto o di fronte a un camino. Lì ci finisce lo spirito letterario – nel senso di analitico, critico e trasparente – che ognuno ha. Ognuna di quelle pagine è il germe di un libro, l’abbozzo di una storia che meriterebbe di essere raccontata. Solo che nella maggior parte dei casi soccombe a se stessa, a un io troppo debole per essere immune al resto del gruppo anche quando fisicamente è ben nascosto e protetto. Provate a raccontare voi stessi e la vostra visione del mondo con assoluta onestà e trasparenza, senza alcuno sconto, senza alcuna concessione all’io o alla visione del mondo più conveniente o a quello che lo sarebbe. Anche in mezzo a parole a cui non vorrete mai dare circolo, vi troverete a combattere con una serie di maglie di cui neanche sospettavate l’esistenza: ciò che vi sembrerebbe così astruso e cerebrale leggendo Durkheim e Goffman d’un tratto vi parrebbe più solido e concreto di un cancello o un muro di cemento.

Siamo allo svincolo chiave tra uno qualunque e uno scrittore, non credete? La maggior parte racconterà qualcosa di ovvio e scontato, qualcosa che chiunque senza fatica potrebbe immaginare. Una piccola percentuale invece butterà qualche parola al di là dei solchi che il mondo prepara per incanalarle. In quella piccola percentuale di persone è come se nella tecnica di una penna adulta di inserissero la voce di una mente libera e bambina. Ed è allora che chi leggerà sentirà l’eco di uno schiaffo o di una carezza e, con la matita, sentirà il desiderio di sottolineare le parole in cui ciò che aveva sempre pensato senza avere mai il modo di ammettere ha infine trovato voce.

domenica, febbraio 21, 2010

In cammino, nudo di eroismo e romanticismo

Quando a buio inoltrato ti avvii su per la montagna più alta di Romagna e ti ritrovi circondato da una tormenta di neve, qualche domanda ti sovviene. Almeno a me, ieri, è sovvenuta e non mi pare onesto liquidarla sotto silenzio, avvolta dalla retorica del ritorno. Già migliaia di persone hanno raccontato qualcosa che potrebbe suonare così: “La nebbia scendeva sempre più fitta e nascondeva anche i rumori: nell’aria solo vento e respiro ed eco di passi, incerti sulla direzione da prendere. Nella testa una lotta silenziosa tra il panico e l’auto-controllo alla ricerca della scelta giusta, dell’indizio che ti tiene sulla via del ritorno. Chiusi gli occhi per proteggermi dalle frecciate di ghiaccio lanciate dalla tempesta e nel buio ripercorsi il sentiero con la memoria fino a trovare la casa sul bivio dei prati della burraia e di lì il cunicolo nella neve che riportava alla Calla”.

Va bene, siccome sono qui che scrivo, la nebbia e la neve sono alle spalle, felicemente domate e io potrei decantare la solidità fisica e morale dei quattro che ieri notte hanno fatto l’impresa. Però non sono dell’idea. Quella critica d’arte molto critica, al secolo Rebecca Solnit (già citata), ha sezionato questa letteratura eroica come il cuore di un topolino in un centro di ricerca. Ma non solo. La perfida si è anche divertita ad andare oltre e a smontare la pretesa naturalezza dell’amore per gli spazi naturali. Tu vai pure su per le salite, pensando di consumare un’originale protesta contro la società di massa, ma sei invece figlio di un chiaro processo storico culturale che infatti il marketing ha studiato e messo a profitto. Tu sali lassù, in quei luoghi orridi che i contadini della zona battezzavano come inutili e inospitali, perché una schiera di aristocratici e poeti, passando attraverso i giardini francesi e quelli inglesi, si è alla fine convinta che la natura selvaggia fosse un oggetto d’arte e che saperla contemplare e apprezzare fosse oggetto di vanto, insomma che “facesse abbastanza fico”. E così schiere di emuli lettori hanno iniziato a calcare le medesime vie fino a diventare un gruppo che il mercato ha preso a blandire con foto di ragazzetti vesti alla Rambo issati su cime che farebbero rabbrividire qualsiasi mamma dai sani principi.

Coi resti dell’analisi anatomica fatta alla mia fase “naturale crepuscolare” del cammino, non posso certo lasciarmi andare a frasi del genere
: “Mentre il bianco della neve e il grigio della nebbia isolava il ritmo del respiro, ritrovai la congiunzione dell’io con il tutto, l’estasi di vivere le braccia come rami e i piedi come radici”. Bah, pensate a cosa direbbe un faggio secolare, piantato su radici rugose e imponenti, se scoprisse di dover ergersi per altri cento anni sulle vostre radici-piede? Capite che il discorso non tiene: lasciamo dunque perdere la storia dei piedi radice e le altre consimili naturalizzazioni forzate di arti e istinti umani...

E allora. Qualcuno, suppongo con una certa soddisfazione, potrebbe dire: “Vedi, pirla, che alla fine avevo ragione io: tanto andare non serve a nulla, specie quando una nutrita serie di ritrovi cittadini offre alternative baccanali di ben altra portata, da espletare senza appendici ai piedi per non scivolare sui ghiacci”. A parte che, con la giusta compagnia, so già apprezzare anche i luoghi suddetti, dove - vi assicuro, con assoluto stupore - ho capito addirittura di aver un palato sufficientemente sensibile per poter bagnarsi di gioia in un pregiato whisky scozzese.

Ma non è questo il punto. Perdere l’animosità dello spirito eroico delle riviste patinate o la verve crepuscolare della letteratura romantica non significa perdere tutto, svuotare un gesto di ogni significato. E’ tutto l’opposto. Significa che tutta quella strada percorsa non è passata inutilmente ma lasciando un’eredità: luoghi, persone, immagini, cartine, libri che, come tanti scalpellini, hanno rimodellato la geografia dei tuoi dubbi, delle tue certezze della tua capacità di dialogo. E non solo in quelle poche ore in cui cammini, ma anche in tutto il resto: quando viaggi, baci, scrivi, leggi, brindi, condividi una foto online o rispondi all’email di un amico. In tutto insomma. E se è vero che questo dialogo con il passato e con gli altri fa sembrare vagamente stupide e ripetitive tante delle cose che hai fatto è però vero che isola quel poco, spesso un frammentino nascosto, che invece, nonostante tutte le analisi del mondo, resta originale e dunque unico e prezioso, non solo per te, ma soprattutto per gli altri che, impegnati in un percorso affine, sono alla ricerca di punto di incontro e di scambio per viaggiare, baciare, scrivere, leggere, brindare, condividere una foto online o rispondere all’email di un amico.

Nudo di eroismo e romanticismo, nel prossimo cammino, ci penserò ancora.

venerdì, gennaio 29, 2010

Silenzio, fino alla prossima puntata

Tra madre e figlio, seduti ai due lati del salotto, si inseriva il rumore della fiamma scoppiettante della stufa in ghisa. Per il resto, silenzio. Ovvero un accorgimento per lasciare ancora un po' le cose come erano sempre state.

L'una vi leggeva lontananza e un poco di alterigia. L'altro una forma di protezione e un vago senso di colpa. Una differenza di conoscenza li separava e li riuniva solo nel rammarico di quel momento.

Ma non sarebbe durato a lungo. Quel silenzio sentiva già l'affanno dell'emozione che l'avrebbe travolto. Lo sapevano entrambi. In questo erano di nuovi uniti. Ma poi la madre e il figlio si separavano di nuovo. L'una si chiedeva se avrebbe mai riavuto quello che aveva sempre amato. L'altro si chiedeva se avrebbe mai accettato quello che non era ancora mai stato.

Alla prossima puntata per la descrizione dei fatti. Più chiari, come sempre lo sono rispetto ai presentimenti che li circondano.

mercoledì, gennaio 27, 2010

Per scendere infine in mezzo agli altri

Sentiva quella voce forte e chiaro: “Dì, dì tutto: qualunque cosa sia, dilla, sarà meglio, comunque meglio del silenzio”.

Fu allora che la guardò negli occhi, mentre le mani, lievi, scendevano sulle sue braccia. L'accarezzò a lungo, cercando di lasciarle sulla pelle le ultime tracce di un affetto incompleto ma sincero. Lei gli aveva regalato la calma che lo rendeva capace di godere appieno di ogni momento, capace di vedere ogni gesto come la tappa di un percorso, capace di trasformare ogni conquista in un traguardo da condividere, capace di rendere ogni luogo quello perfetto per quel momento. Aveva avuto il privilegio unico di entrare fino a in fondo a lui e lì aveva preso le sue paure più nascoste e, come una madre, più di una madre, le aveva fatte sembrare piccole piccole.

Solo che ora il coraggio di lei era anche il coraggio di lui. E in quel coraggio non trovava più spazio la debolezza del compromesso, neppure di quello che, incantevole fatalità, aveva portato all'incontro di lei.

In cima a quel picco di sincerità aveva già posto il suo vessillo il rimpianto, ma solo affrontandolo e trasformandolo avrebbe trovato lo spazio per riscendere in mezzo agli altri e trovare tra di loro il piacere troppo spesso fuggito.

lunedì, gennaio 25, 2010

A chi mi domanda… (alcune risposte a domande frequenti, loro e mie)

A chi mi domanda perché passo tutto quel tempo in compagnia di pochi e scelti amici a spasso per i luoghi più ameni e inospitali, rispondo citando Storia del Camminare: “Continuavo a ripercorrere questo itinerario per concedere una tregua al lavoro, ma anche per alimentarlo, perché, in una cultura orientata alla produzione, pensare è generalmente come fare niente, e il fare niente è difficile da fare. La via migliore per realizzarlo è di mascherarlo nel “fare qualcosa”, e ciò che più si avvicina al fare niente è il camminare”. Lo scrive, bene, Rebecca Solnit, ma giuro che lo pensavo, forse peggio, già da tempo io stesso. Del resto, come dice Proust, si legge per imparare cose nuove, ma, principalmente, per trovare conferma alle proprie idee. Quindi, se ho letto Solnit è perché pensavo di trovare nelle sue parole conferma alle mie idee. Lapalissiano.

A chi mi domanda perché, con costanza quasi autarchica, mi ostino a camminare nel mio Appennino, rispondo con un poco di buon senso e un tocco d’amor proprio. L’Appennino è lì, così vicino che un’idea è già un cammino, senza progetti a lungo termine che non partono quasi mai. E poi è una ragione di orgoglio. Per una vita la casa in collina è stata quasi una colpa e un oggetto di scherno. Oggi invece è un vanto, forse addirittura una vena di fascino. La conosco così bene, vi calo con così tanta naturalezza alcune delle parti migliori di me, che in colpa si sente, a volte, colui che non c’è mai stato, colui che ignora un luogo geografico e sente la mancanza di un terreno così fertile per, apparentemente, molte cose da cui risulta escluso.

A chi mi domanda se non ci sia un po’ di presunzione in questo, dico che sì, a volte potrebbe esserci, ma ho passato così tanto tempo a nascondere le mie idee perché gli altri già sapevano di latino o teatro mentre io ero più naif da non ritenere opportuno sprecarne oltre. Preferisco confrontarmi talvolta partendo da presupposti sbagliati o incompleti, piuttosto che non farlo per non svelare quell’errore o quell’incompletezza.

E a chi mi domanda quanto siano grandi queste lacune e quando vi porrò rimedio, rispondo che almeno quel complesso ho la presunzione di averlo superato. Sono pronto a divorare tutto, spesso lo faccio, – da Goncarov a Larson, passando da Ammaniti e Severgnini – ma solo quando ha un senso per me. Sono loro – Goncarov, Larson, Ammaniti & co. – a dover essere utili a me, non io a dover, per forza, ricordare tutto quanto hanno scritto. Sensi di colpa sociali, insomma, “meno uno”: leggere serve per emanciparsi, anche dallo stesso rapporto coatto con la lettura.

E presto me ne libererò da altri. Non prima però di aver fatto qualche altra, inutile, passeggiata.

mercoledì, dicembre 23, 2009

Le ragioni di Simon, in fondo al gruppo

Da ore Carl Simon teneva lo sguardo basso. Uardava rimbalzare a terra la pioggia che cadeva da ore. Guardava le scarpe fradice di chi muoveva i piedi davanti a lui. Guardava quelle cadenze ritmante – dell’acqua e dei piedi – per trattenere i pensieri. Ma non sapeva nulla. La mente del giovane allievo americano volava sulle teste di tutti i membri della comitiva e si appoggiava, in testa, sulle spalle di Ludwig von Nierentoff, la canuta guida austriaca che aveva scelto l’itinerario.

Aveva scelto il percorso più lungo: lo conosceva, era sicuro, l’aveva sempre fatto, ogni alternativa era fuori discussione. Anche se le previsioni erano pessime, anche se il cielo permetteva solo diluvio a chi fosse stato sotto di lui nel pomeriggio.

Simon pensava a Nierentoff ma odiava se stesso. La sera prima, lui aveva pensato l’alternativa: una scorciatoia rettilinea tra sé e la meta, un tragitto in mezzo ai picchi della forcella centrale, una via impegnativa ma rapida. L’aveva proposto, ma non se l’era sentita fino in fondo di imporsi. Nierentoff l’aveva schernito acidamente con la forza della regola dettata dall’esperienza e lui aveva ritenuto opportuno tacere, non scivolare oltre, non trasformare l’irrequietezza della sua alternativa mai praticata in un cieco, presuntuoso e irruente attacco a ciò che era stato. Aveva alzato lo sguardo con l’energia di chi difende un proprio diritto, ma l’aveva abbassato con il pudore di chi teme di violare il giusto rispetto. Aveva desiderato dimostrarsi tenace, ma aveva temuto di rivelarsi testardo.

Nell’eco dell’acqua che cade a terra e dei piedi che calpestano il fango, ora si diceva che aveva sbagliato. Con la mente che volava in cima al gruppo sulle spalle di von Nierentoff si ripeteva ossessivamente: “Ho sbagliato, ho sbagliato, ho sbagliato di nuovo”. Ed era proprio questo che temeva e lo turbava. Solo le persone insicure delle proprie ragioni, si ripetevano così tante volte ciò di cui neppure loro erano fino in fondo davvero convinte.

E il gruppo continuava a procedere sulla via più lunga.

martedì, dicembre 22, 2009

La macchinina e la ninna nanna

“Ssshh” fece la nonna chinandosi sul nipotino. Gli carezzò la testa, cercando di rubare con la mano l’euforia e l’agitazione che non facevano dormire il ragazzino. Ma non era una notte da sonno quella, non per lui. Di giorno era arrivata una macchinina nuova. E con lei una fantasia senza limiti.

Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava: l’avrebbe fatta vedere a Marco e poi a Daniela e dopo a scuola – in fondo non era così male tornarci – e dopo ancora a chissà quanti altri. Chissà cosa avrebbero raccontato facendogliela vedere: la sua fantasia era un treno. Chissà cosa avrebbero risposto gli altri ragazzi: la nuova macchinina era un pezzo pregiato, non passava inosservato.

Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava, a volte a voce alta, e la nonna catturava i suoi pensieri e la sua gioia. Allora lo guardava con tenerezza. E con timore: qualcuno avrebbe potuto invidiare quella macchinina, qualcuno avrebbe potuto invidiare chi la possedeva e cercare di metterlo in cattiva luce con Marco e poi con Daniela e dopo a scuola – sarebbe stato ancora più difficile andarci – e dopo ancora con chissà quanti altri.

La mamma pensava ma non parlava. Non voleva rubare il tempo a ciò che il tempo rubava di per sé. E allora sussurrava e, nella luce bassa della sera, cantava le ninna nanna con le verità così piccole da non cambiavano mai.

lunedì, dicembre 21, 2009

Parola di water

(citato al bagno della pasticceria di Castrocaro Terme)

“Se dopo avermi usato non mi pulisci,
pensa se incontri qualcuno mentre esci.
Io sarò ripulito mentre tu per lui rimarrai sempre sporco”.


Il water

martedì, dicembre 08, 2009

Il consulente paroliere e l’ansia del desiderio e del dovere

Serata insonne. E’ una di quelle che capita quando l’ansia di svegliarsi presto il mattino successivo ruba anche le poche ore a disposizione. Ogni forma di tempo ti sottrae un po’ di forze: il giorno passato che è finito solo molto tardi; il presente irrequieto che non ti fa riposare; e il giorno che viene, con la minaccia di non farti nessuno sconto sulle fatiche che non hai smaltito. Passato, presente e futuro come in un unico blocco che dondola nella testa ogni volta che cambi posizione sul letto.

E’ allora che mi arrivano i pensieri più vivaci e assurdi – dissi al mio consulente paroliere – quelli a cui non riesco a dare forma scritta anche se la meriterebbero più di altri”. Il consulente paroliere rispose conciliante come suo solito: “Eh, beh, certo, è così, è normale che sia così. E’ nel limbo dell’inconscio che emergono le verità più vere, ma anche più difficili da raccontare”.

Ascoltai quelle parole con il solito piacere. Non avevo ancora esattamente capito perché quel professorino mi avesse preso in custodia filosofica-esistenzial-letteraria – per paternità surrogata, vocazione didattica insaziabile, semplice simpatia o altro – certo era che avere uno specchio in cui riflettere in maniera mediata il mio gomitolo di pensieri e di racconti mi faceva un gran piacere. Srotolare quel gomitolo e darlo in pasto alle orecchie altrui mi dava l’ebbrezza di provare le sensazioni di uno scrittore vero o, almeno, di qualcosa di molto simile.

Conclusi quel lungo filo di considerazioni molto rapidamente, quasi stupendomi della mole di idee e contro-idee, al limite del machiavellico, che riuscivo a stipare negli istanti morti delle conversazioni. Era un micro-mondo che una volta ignoravo e ora mi era diventato strategicamente familiare. Uscii da quel mondo e aggiunsi: “Credo anche, in verità, di iniziare a conoscere ciò che separa la storia perfetta che sfioro nel dormiveglia da quelle un po’ monche che riverso sulla carta”.

Non ebbi risposta dal mio consulente paroliere e per un attimo mi fermai, di fronte al solito bivio: esternare una sentenza “clamorosa” che ti poteva far passare o per una sottile mente profonda o per un grosso e piatto presuntuoso. Cincischiai per qualche istante e poi, scimmiottando la sicurezza che in realtà non avevo, cercai di proseguire attivando l’opzione uno: “sottile mente profonda”.

Credo – aggiunsi – che nel mio inconscio segua solo la fantasia e il desiderio, mentre sulla carta finiscono anche il realismo e il senso del dovere. Di notte, nell’insonnia, parlo, o vaneggio, solo per me, mentre di giorno, sulla carta, scrivo, o ragiono, per tutti i “me” che gli altri credono e pretendono che io sia”.

Il mio consulente paroliere interruppe il suo cammino, infilò una mano nell’abbottonatura del giubbotto e, serio, mi chiese se avevo già studiato qualcosa per ripulire la carta dalle interferenze del dovere e della società. Il consulente insomma aveva seguito e capito le mie parole e non sembrava minimamente aver pensato alla opzione due: “grosso e piatto presuntuoso”. E, dunque, se tutto quello che avevo detto aveva un senso, dovevo assolutamente andare oltre, perché forse, anzi probabilmente, ero nella direzione giusta.

Solo che – maledizione! – sapevo muovermi ben poco oltre. “Non ci ho ancora pensato” risposi trafelato. “E’ che è un po’ come dice Ann Deveria… non si può ripulire il desiderio dal dovere senza farsi male”.

Non dissi altro, ma ci avrei lavorato su, nelle notti insonni, quando l’ansia di ciò che avrei scritto sarebbe stata ancora maggiore dell’ansia di doversi svegliare presto.

domenica, novembre 22, 2009

Il ponte tra Ravenna e Santa Caterina

Alzai lo sguardo verso l’alto, verso la volta musiva della basilica di San Vitale a Ravenna. Non per la prima volta in assoluto, questo no, ma per la prima volta alla ricerca di un frammento di me stesso dal recente passato. Fissai gli occhi del Cristo e la memoria fece riaffiorare le parole che l’egittologo John mi aveva detto al Cairo la sera prima della mia partenza per il Monastero di Santa Caterina nel Sinai. “Le icone – mi disse John allora con un Macintosh surrealmente adagiato di fronte al piatto – non sono fatte per essere guardate, ma per guardare. Sono lì ferme, immobili, stilizzate: completamente irrealistiche ma altrettanto penetranti. Finché sono sole non dicono nulla, ma, prova a guardarle, prova a fissare il loro sguardo che non si abbassa mai, e allora diventeranno porte per un viaggio infinito. Le icone non dovevano decorare; dovevano dialogare, essere specchio dell’anima e finestra sulla perfezione del divino”.

Rimasi immobile sotto quegli occhi costantemente aperti e mi chiesi come fosse possibile che non l’avessi mai notato prima. Ma fu solo il disappunto di un momento. Ero stato lontano, avevo ascoltate parole straniere e ora ero lì, a pochi passi da casa mia, e la compagnia di quei ricordi si fondeva con la conoscenza di me e della mia terra.

Sentii l’inevitabile piacere di qualcosa che si univa. Era come se lo vedessi: due ricordi destinati a perdersi erano ora uniti da un ponte che li avrebbe sorretti entrambi. Prima erano deboli e solinghi; ora erano forti e spavaldi. Semplice, efficace, immensamente piacevole.

Abbassai gli occhi sulla persona che stava in piedi con me sotto la cupola.
“Ti è venuto in mente qualche lunga storia da scrivere?” mi chiese con il tono di chi ha voglia di piacere e sa come farlo.
“Non esattamente” risposi un po’ furbetto, con il tono di chi finge di conoscere le regole del gioco, ma ha in realtà tanta voglia di starci, al gioco, e di scoprire le sue carte al mondo intero.

“Non esattamente” ripresi. Poi, appesantito dal mistero, ma anche conscio del suo fascino, risposi sibillino: “In realtà, sì, avrei voglia di scrivere come non mai, ma solo una storia non semplice, la storia che unirebbe me e il mondo come il ponte tra i mosaici di Ravenna e di Santa Caterina”.

martedì, novembre 03, 2009

Passaggio di fronte al rudere dalla memoria roca

C’è un rudere nascosto in una corona di colori autunnali di un bosco dalle tinte orride. E ci sono gruppi di persone che sfiorano quelle pietre dalla memoria ormai roca, incapace di farsi sentire forte. E ci sei tu che, volontariamente seduto più lontano, osservi i gruppi che passano e i loro occhi che guardano il rudere e la sua memoria roca.

Passa il gruppetto dei ragazzi che corrono verso il futuro. Lo portano scritto negli abiti all’ultimo grido, nella tecnologia che li lascia mai veramente dove sono. Li vedi, i loro sguardi. Sono di sfida e compassione. Dicono che loro da quel rudere pietoso non torneranno più: se ne andranno più lontani possibile.

Passa il gruppetto che segue la donna con la bandierina che parla al microfono senza guardarsi indietro. Loro, il rudere, non lo vedono. Vedono solo ciò che la guida dice loro di vedere. “Salite su quella pietra: di lassù le foto vengono bellissime”.

Passa poi il gruppetto che viene dalla città vicina. Lo senti prima che arrivi, dall’accento familiare ma non troppo. Nessuno ci ha mai vissuto nel rudere o nei suoi fratelli ormai macerie né nessuno lo farà mai, ma puntuale qualcuno vagheggia di trasferirvisi.

L’attendi, infine, ma non passa il residente. Poco lontano dal rudere ci vive, ma non ci va mai. Troppo vicino per raccontare un viaggio che qualcuno ascolti, troppo lontano per essere raggiunto con la passeggiata della sera.

E poi ci sei tu che guardi tutti i gruppi che passano. Non solo senza un sottile e tagliente sarcasmo. Tu hai già studiato tutti quei comportamenti superficiali. Hai letto le parole di chi li ha descritti e hai anche ascoltato chi ha suggerito il modo giusto per riappropriarsi di quel rudere e del suo paesaggio in modo concreto e simbolico. Per questo ti sei messo seduto più lontano e hai lasciato corda libera alla deriva dei significati del luogo e delle letture che li hanno alimentati.

Passa però uno spazio così ampio tra il mondo e i simboli con cui lo leggi che ti chiedi se in realtà anch’essi non siano finti e artificiosi, se anch’essi servano a qualcosa o a nessuno, né a te che vi rimani intrappolato, né ai gruppetti di passaggio che non li comprendono, né al rudere la cui memoria rimane roca.

venerdì, ottobre 23, 2009

L’antica Tebe e il cellulare del marinaio Hacmed

Il sole che tramonta spinge gli ultimi raggi sull’antica Tebe e le colonne del tempio di Luxor intrecciano le loro ombre, sempre più lunghe. Mi siedo su una panchina nella sponda orientale del Nilo e con il teleobiettivo cerco il volto di un bambino che tiene in mano le redini di un calesse, di un ragazzo che corre tra le rovine del tempio di un vecchio che urla dal finestrino di un minibus.

Cerco di isolarmi in uno spazio tutto mio, ma non si è mai veramente soli nelle sponde del Nilo.
“Hello my friend” mi dice una voce da dietro le spalle. E’ un ragazzo, anzi no ha qualche capello bianco che lo fa già uomo. Ha i sandali, l’abito lungo, la carnagione scura. E’ un marinaio. “Un giro in feluca nel Nilo, un’ora, non costa quasi nulla”.
“Tra poco parto” gli dico nascondendomi dietro l’obiettivo.
“Allora una mezz’ora, per dire arrivederci al fiume della vita”.
“Non mi va di correre”.
Silenzio. Strano. In Egitto la contrattazione non si ferma mai.
“Sono stanco signore” mi dice mentre lo credevo già lontano. “E’ da troppo che parlo con i turisti. Ho bisogno di un tè. Vuoi essere ospite della mia barca?”.
“Ti ho detto che non farò un giro in barca” gli rispondo ancora, questa volta guardandolo in faccia.
“Solo per il tè, un tè sul Nilo” ripete lui.
Resto scettico. “Sicuro che non insisterai tutto il tempo per vendermi un giro?” lo incalzo.
“Sicuro. Solo un tè. Io non modificherò l’accordo. Se lo farai tu, ne sarò felice, la mia famiglia te ne sarà grata. Ma io non modificherò l’accordo”.
“Mi chiamo Hacmed” dice lui allungando la mano.
“Silvio” gli rispondo ricambiando il gesto.

La feluca di Hacmed è ormeggiata a pochi passi, in una giungla di corde e alberi maestri, di giovani apprendisti marinai che corrono su stretti passaggi in legno che scricchiolano senza però cedere. Mi siedo a poppa tra piccoli tappeti umidi. Hacmed invece si inginocchia a prua: è lì, in una piccola coperta, che si trova la cucina. Un fornello a gas, qualche fiammifero, una giumella deformata dal calore e un sacchetto di fiori rossi, fiori di ibisco. Hacmed tuffa la giumella nel Nilo: “L’acqua bollirà – mi dice – non ti farà niente”.

Poco dopo una bevanda rossiccia dondola in bicchieri trasparenti seguendo le onde del Nilo. Hacmed dice che la sua barca può contenere fino a otto persone per una crociera sul Nilo. Ha alcune assi che lo aiutano a costruire un unico piano, dove la notte si può dormire tra il verde delle acque e il nero del cielo. “C’è un unico pericolo” racconta. “Alcuni pescatori la notte si avvicinano alla feluca e derubano i turisti dei loro piccoli oggetti”. “Per questo – aggiunge – io la notte non dormo mai”.

E’ già buio quando Hacmed finisce di descrivermi la sua famiglia. Una sorella giovanissima, ancora da sposare. Una sorella più grande, con tre figli, lasciata sola dal marito, ma in grado di mantenersi da sola con piccoli oggetti di sartoria che vende al bazar. Il fratello maggiore, per un lui un padre, ma ormai lontano, in Norvegia, con la moglie.
“Per me è ora di rientrare” gli dico.
“In che hotel alloggi?” mi chiede lui.
“Al piccolo El Gezira – rispondo – sulla sponda occidentale”.
Sorride. “Lo conosco bene – racconta -. E’ stato il primo hotel di quella sponda. Vivo proprio lì dietro. E’ come se fossimo vicini di casa. Come rientri?”.
“Col traghetto. Recupero la bici e poi attraverso il Nilo in traghetto”.
“Allora possiamo rientrare assieme. Così ti aiuto a far scendere la bici fino alle sponde del Nilo”.

La sponda ovest dell’antica Tebe resta ancora un villaggio. Sopra l’attracco del traghetto c’è un campo da calcetto, dove i giovani abitanti di Luxor rincorrono il pallone fino a notte fonda. Un’unica strada penetra nei campi coltivati fino a raggiungere i giganti di Memnone e le tombe della Valle dei Re. Ai bordi della carreggiata, una miriade di basse abitazioni in terra che disegnano intricate geometrie di viottoli e cortili. Hacmed abita con le sue sorelle e i suoi nipoti in una delle abitazioni più grandi: “Mia madre – spiega – non ha mai voluto vendere. Qui il terreno costa caro e molti lo volevano, ma lei si è sempre rifiutata. Diceva che questo sarebbe stato il cortile per i suoi figli e i suoi nipoti”. Da quel cortile Hacmed esce ogni mattina per approdare alla sponda orientale e cercare di sovrastare con la sua voce la voce degli altri marinai di feluca. Torna per il pranzo e poi di nuovo via a gridare fino a sera. Quando fa tardi alla notte rimane a casa, ma lo fa poche volte. “Mi piace attraversare il fiume e immergermi nel caos. Anche quando non raccolgo nulla, mi sento utile per la mia famiglia e mi sento vivo. Bisogna vedere un po’ di vita per sentirsi vivi”.
Si rivolge alla sorella in arabo e questa porta tre limonate fresche con lo zucchero. Una per Hacmed, una per me e una per la bambina più piccola. La spremuta è quasi cremosa. “Mia sorella la prepara come nessun altro”.

Tutti sediamo su panchine in legno, tra muri bassi e rovinati. C’è poca luce e poca acqua. Ma i cellulari brillano in quel mondo come e più che altrove. Mi mostra il suo, con un grande schermo, e mi invita a guardare la danza frenetica della festa in occasione del matrimonio della cugina. “Se vuoi te lo invio” mi chiede.
“Il mio cellulare non consente di vedere i video” gli rispondo.

Il muezzin chiama alla preghiera dalla vetta del Minareto. Hacmed si dirige verso la moschea, io verso il volo che mi riporterà tra i ventiquattro milioni di abitanti del Cairo.

Hacmed non hai mai fatto quel volo e forse non lo farà mai come tanti altri abitanti dell’antica Tebe. Ma con lui c’è quel cellulare supertecnologico. Il marinaio Hacmed lo guarda come il soldato di Buzzati guarda il deserto e aspetta che lì, sul grande monitor, si affaccino i Tartari. Il cellulare è legato alla grande rete, al tutto. Da lì forse un giorno uscirà una voce e la sua vita cambierà per sempre.

Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili

Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili
Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili
Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili
Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili

Cairo: sfingi e piramidi

Menfi:sfinge
Giza: sfinge
Giza: piramidi

Cairo: la Moschea di Mohammed Ali

cairo: moschea di Mohammed Ali
cairo: moschea di Mohammed Ali

Antica Tebe: vita sulle sponde del Nilo

Nilo: tramonto sull'antica Tebe
Nilo: giovane calessiere
Nilo: feluche ormeggiate al tramonto

Antica Tebe: templi di Karmak e Hatshepsut

Tempio di deir Hatshepsut
Tempio di Karmak: sala ipostila
Tempio di Karmak: sala ipostila
Tempio di Karmak: ingresso

Deserto del Sinai: montagne e cammellieri

Deserto del Sinai
Deserto del Sinai: cammelliere
Deserto del Sinai: cammelliere

domenica, ottobre 11, 2009

Il cubo nel diario segreto

Per essere del tutto sincera, Ada lo scrisse solo sul diario segreto. Si tirò la coperta fin sulle orecchie e, su pagine che affondavano nel materasso, portò sulla carta i pensieri che erano sbocciati nel dormiveglia.

Non ne era ancora sicura, ma, nel torpore dell’alba, le era sembrato di rivedere la scatola nera dai contorni scivolosi. Era lo spettro con cui le si facevano incontro le situazioni più difficili: i dilemmi irrisolvibili, le scelte di fronte a cui si trovava del tutto sola, senza mai avere la possibilità di sfogare la tensione nella comprensione altrui. Ada vedeva la scatola scura: lei dentro, le pareti scivolose, il nero più nero della notte, la fine profonda come l’abisso, il respiro affannoso di chi perde la lucidità.

C’era già finita due volte, la ragazza, dentro a quel cubo. Un po’ per i casi della vita, un po’ per la sua vita, dove ogni tanto succedevano cose che si sentiva a disagio a condividere. Le sembrava che fuori da se stessa potesse trovare solo ostilità e allora spegneva le ultime luci e si trovava dentro la scatola. E del resto era solo lì, nel fondo e nel buio più totale, che riusciva infine a iniziare la risalita dall’unico, stretto, ripido e accidentato, sentiero che conduceva al rifugio desiderato.

Seminò questi suoi pensieri in appunti sparsi, poi abbozzò il disegno di un cubo e scrisse in caratteri eleganti il nome di Eschilo, perché le sembrava di essere la protagonista di una tragedia greca, stupidamente intrappolata in due realtà inconciliabili. In una pagina bianca tracciò ancora qualche scarabocchio. Infine chiuse il tutto e, accennando un sorriso, scacciò le coperte. Lì sotto si poteva vedere meglio, ma non era lì, nel loro ipocrita abbraccio, che partiva il sentiero che usciva dal cubo.

domenica, settembre 27, 2009

Il ritardo

Resto appoggiato per un po’ al palo di un’insegna stradale. Mentre aspetto il gruppo a cui mi unirò per la serata, scorro casualmente i numeri della rubrica sul cellulare. Non me ne interessa nessuno in particolare in quel momento, ma mi sento in dovere di impegnarmi in qualcosa. Si osserva sempre con sospetto una persona ferma in uno spazio pubblico senza ragione. Meglio non apparire tali, meglio non dimostrarsi troppo a proprio agio e dare adito ad ancora maggiori sospetti. Meglio maneggiare il cellulare e rendere evidente l’attesa di qualcosa e l’inquietudine per il suo ritardo.

Pochi minuti il gruppo arriva. Il telefono può tornare in tasca e la spalla può allontanarsi dal palo. E’ tutto a posto, ora, non serve più nessun aggancio per sostenere la propria presenza lì.

Quando è già tutto un vociare e un rumore di sportelli che si aprono e si chiudono, ripenso agli attimi precedenti. Forse tutte le elucubrazioni fatte per giustificare la mia sosta vicino al cartello erano un po’ eccessive. A chi poteva interessare in fondo? Solo io dovevo avere quei pensieri in testa, nessun altro. Alla prossima occasione – mi riprometto – siederò più tranquillo, alzando gli occhi per curiosare tra la gente della via. Ma sono dubbioso sulla bontà dei miei propositi. So già che quelle stupidi inquietudini sociali sono proprio quanto a cui non mi decido mai a mettere mano.

domenica, agosto 23, 2009

La doccia

Arriva il giorno successivo. E la doccia come un rito purificatorio dopo il risveglio. L’acqua che scende sprigiona dalla pelle gli odori di ciò che è stato prima del sonno. Si alzano d’improvviso, con un’intensità penetrante, profumi che evocano atmosfere, luoghi, persone, corpi, gesti. Mentre il vapore dilata le narici e i rigagnoli d’acqua scorrono sulle anche, l’esperienza si fa ricordo e la memoria identità.

E’ l’ebbrezza di un momento. Anche l’ultimo torpore del giorno prima presto se ne va. Il presente torna al suo posto. Come se niente fosse stato, come sempre, un biscotto che affonda nel caffelatte saluta già il futuro che non tarda mai.

sabato, agosto 22, 2009

Il diario per Dio

Il fisico Leo Szilard un giorno rivelò all’amico Hans Bethe l’intenzione di tenere un diario: “Non intendo affatto pubblicarlo. Voglio solo tenere un registro dei fatti per poter informare Dio”. “Non credi che Dio lo sappia già, come sono andati i fatti?” gli chiese Bethe. “Certo che lo sa” disse Szilard. “Però non conosce ancora la mia versione”.

Hans Christian von Baeyer – Taming the Atom
Citato in Bill Bryson – Breve storia di (quasi) tutto

domenica, agosto 02, 2009

L’eremita, l’apparenza e il pregiudizio

Mulattiera di Sant'Alberico“Ho girato il mondo per quindici anni e poi ho voltato pagina e mi sono fermato qui”. Così inizia a parlare l’eremita, l’unico solingo abitante delle pendici del Fumaiolo, fatte luogo di fede dal passaggio di Sant’Alberico. Avvolto nella sua veste bianca, l’eremita parla molto: di fede, terremoto, mondo, ospiti dell’eremo, preghiera, rapporto con gli animali. Parla molto e a volte sbaglia: sbaglia l’altitudine, i sentieri e la distribuzione delle fonti d’acqua del luogo dove vive solo da quattro anni.

Con un po’ di disappunto, mi chiedo se un profeta della solitudine può usare il carattere estremo dell’eremitaggio come strumento per apparire. Mi rispondo di no e trascuro le sue parole, cercando nella nuova mappa quella visione del territorio che l’eremita non mi sembra dare.

Me l’avevano detto del resto. “E’ uno dei sentieri più belli del nostro Appennino, ma l’eremita no, l’eremita mi sta sulle palle”. Riascolto quelle parole e le sento pienamente mie. Anche troppo forse e mentre cammino già verso Cella, mi viene il dubbio di essere stato vittima di un pregiudizio e di aver ignorato l’eremita senza mai aver provato ad ascoltarlo davvero.

lunedì, luglio 06, 2009

La foglia del temporale

La pioggia violenta del 5 luglio 2009 mi chiuse all’improvviso l’orizzonte lungo il crinale del sentiero 303 sopra Fiumicello. Nubi veloci nel cielo oscurarono il sole e coprirono le vette. Tuoni con l’eco tutto attorno mi fecero piccolo piccolo. La cima, il passo, il crinale furono dimenticati. Sotto l’ombrello, rannicchiato, con l’udito intorpidito dal cappuccio, mi rannicchiai tra le frasche. Il campo visivo era strettissimo: di fronte a me vedevo solo pochi germogli di faggio che ondulavano e sulla vetta di uno di questi una foglia ingiallita.

Era una foglia giovane, ma invecchiata in fretta. Aveva perso la linfa e l’acqua la scuoteva senza pietà rendendo evidenti le ferite che già segnavano la sua superficie. La guardai con lo stupore che evoca il dettaglio che si staglia su un orizzonte sterminato: se non avesse iniziato a piovere, non l’avrei mai notata, se non mi fossi nascosto tra quelle frasche non l’avrei neppure percepita e invece ora lei esauriva il mio mondo. Tuoni e lampi proseguivano minacciosi e violenti e allora guardavo la foglia con ancor più attenzione: un po’ di sfortuna e quella fogliolina sarebbe stata il mio ultimo incontro. Le ancorai una fitta rete di pensieri: le mie prospettive escursionistiche che non contemplavano temporali così violenti; la promessa di eliminare in futuro progetti troppo temerari; il pensiero dell’auto sicura a fondovalle; il riferimento agli animali, chissà quanti nei paraggi, che sotto frasche simili alle mie avevano fermato il loro vagare a causa del temporale.

Spiovve dopo pochi lunghi minuti
. Un raggio di sole, il primo ad avventurarsi tra le nuvole, trapassò la mia fogliolina trasformando in oro il giallo opaco di pochi istanti prima. Una cortina di vapore si alzò dalla lettiera di humus del terreno e qualche goccia riverberò nel bosco come una lucciola nella notte. Ero asciutto, nessun fulmine mi aveva toccato e gli ultimi tuoni suonavano ormai lontani già proiettati verso il Monte Falco.

Uscii dalla mia nicchia e godetti il sole che aspirava da me l’umidità residua della tempesta. Il vecchio sentiero aveva quasi il gusto di una novità assoluta. Avevo rischiato di perderlo per sempre, ma ora potevo festeggiarne un dettaglio in più, forse noto solo a me: quella fogliolina che non riuscivo a capire quanto, poco o tanto, avesse arricchito la mia esperienza di quel luogo e del mondo tutto.

sabato, luglio 04, 2009

Un protagonista ancora sconosciuto

La guerra nelle montagne di Berceto era durata esattamente quattro anni, nove mesi e venti giorni. Alfio non ricordava chi gli avesse dato un'informazione così precisa. Alfio si doveva fidare: era nato a ostilità avviate, troppo tardi anche per vedere suo padre, tra i primi chiamati al fronte. Si abituò a fare come se non esistesse, come se non dovesse tornare mai più, destino frequente, anche se al fine suo padre tornò.

Quando accadde Alfio era a scuola. La maestra, sempre molto rigida, quel giorno si sciolse. Ruppe il protocollo della lezione, rivolse un sorriso al ragazzo e lo lasciò libero di andare senza ulteriori indugi. La notizia era nell’aria, ma Alfio la accolse lo stesso impreparato. Mentre correva a perdifiato lungo la strada sterrata che portava a casa sua, in testa i numeri delle tabellone contendevano ancora lo spazio all’emozione dell’incontro che gli si stava facendo innanzi. Come sarebbe stato l’uomo che gli aveva dato la vita? Ancora simile all’unica foto sbiadita e tagliuzzata che gli avevano sempre fatto vedere? Oppure sarebbe stato un mutilato come tanti altri reduci? Avrebbe sentito verso quell’uomo qualcosa di particolare, qualcosa di paragonabile all’attaccamento viscerale che aveva verso la madre, o avrebbe dovuto solo fingere verso un estraneo? Era smanioso di raggiungere il finale di una storia che aveva sempre immaginato, ma sentiva anche la paura di toccare una realtà che poi non avrebbe più potuto modificare.

Alfio spalancò la porta di casa, saltò due a due i gradini della scala, scartò con un salto nel corridoio e, ancora ansimante, si buttò addosso all’uomo in divisa che era in piedi in salotto. Ci fu un attimo di silenzio, poi sua madre sorrise, lo prese per mano e gli indicò un uomo all’angolo destro della stanza.

Questa volta timidamente, il ragazzo camminò verso il nuovo sconosciuto protagonista della sua vita
.