Per essere del tutto sincera, Ada lo scrisse solo sul diario segreto. Si tirò la coperta fin sulle orecchie e, su pagine che affondavano nel materasso, portò sulla carta i pensieri che erano sbocciati nel dormiveglia.
Non ne era ancora sicura, ma, nel torpore dell’alba, le era sembrato di rivedere la scatola nera dai contorni scivolosi. Era lo spettro con cui le si facevano incontro le situazioni più difficili: i dilemmi irrisolvibili, le scelte di fronte a cui si trovava del tutto sola, senza mai avere la possibilità di sfogare la tensione nella comprensione altrui. Ada vedeva la scatola scura: lei dentro, le pareti scivolose, il nero più nero della notte, la fine profonda come l’abisso, il respiro affannoso di chi perde la lucidità.
C’era già finita due volte, la ragazza, dentro a quel cubo. Un po’ per i casi della vita, un po’ per la sua vita, dove ogni tanto succedevano cose che si sentiva a disagio a condividere. Le sembrava che fuori da se stessa potesse trovare solo ostilità e allora spegneva le ultime luci e si trovava dentro la scatola. E del resto era solo lì, nel fondo e nel buio più totale, che riusciva infine a iniziare la risalita dall’unico, stretto, ripido e accidentato, sentiero che conduceva al rifugio desiderato.
Seminò questi suoi pensieri in appunti sparsi, poi abbozzò il disegno di un cubo e scrisse in caratteri eleganti il nome di Eschilo, perché le sembrava di essere la protagonista di una tragedia greca, stupidamente intrappolata in due realtà inconciliabili. In una pagina bianca tracciò ancora qualche scarabocchio. Infine chiuse il tutto e, accennando un sorriso, scacciò le coperte. Lì sotto si poteva vedere meglio, ma non era lì, nel loro ipocrita abbraccio, che partiva il sentiero che usciva dal cubo.
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