sabato, agosto 26, 2006

Un vino provvidenziale e una piscina insospettabile

“A Don Antonio”. Il brindisi è stato per lui, l’altra notte nella parrocchia di Trebbana, a metà tra San Benedetto e Marrani. Il prete amante della montagna romagnola in realtà non c’era, ma aveva lasciato nella dispensa un bel bottiglione d’olio da cinque litri ricolmo di vino. Un nettare a metà tra il Sangiovese, di cui aveva il gusto corposo, e il Lambrusco, di cui aveva una puntina di frizzante. Un vino provvidenziale, direi. Non tanto per la professione del suo proprietario, quanto per la capacità di essersi fatto trovare lì al momento giusto per colmare le nostre lacune da brave guide: eravamo carichi di frutta secca e acqua ma spogli, drammaticamente spogli di viveri e bevande goderecce consone a celebrare una notte in culo al mondo.

“A Don Antonio”, dunque. Anche perché il vecchio parroco sembra piuttosto estraneo alla cupa chiusura del vicino eremo di Gamogna. Lì i cartelli vietano i pic-nic, mentre a Trebbana c’è addirittura la piscina a salutare il viandante. E’ a fianco della casa e da lontano sembra un’allucinazione. L’ammetto: per lungo tempo ho continuato a credere che fosse un pannello solare. Invece era proprio una vasca. La sua acqua era verdognola e fetidina, ma era acqua e la sua sporca figura alla fine l’ha fatta lo stesso. Anzi, nel suo piccolo strizzava pure l’occhio agli acquafun di riviera: il suo fondo era in pendenza e invitava a surfate in equilibrio sulla sottile patina di melma depositata sul fondo.

“A Don Antonio”, allora. La sua Trebbana ha sempre la porta aperta nel caso foste esausti su quei crinali, lontani almeno un paio d’ore dalle forme di vita umana più prossime.



P.S. Per i malevoli che potrebbero pensare che abbiamo scroccato il vino, aggiungo che per il furto dettato dalla necessità abbiamo lasciato un dovuto extra al rimborso spese per il pernotto.

Tramonto a Trebbana

Tramonto nelle colline di Trebbana

domenica, agosto 20, 2006

Con il mare alle spalle verso chiese senza tetto

Tra le mani in questi giorni ho le ultime pagine de Nel legno e nella pietra: novanta racconti di Mauro Corona dedicati a piante, rocce e uomini dalla vita estremamente quotidiana. In compagnia delle sue storie e sfogliando ogni giorno Repubblica per leggere il viaggio di Paolo Rumiz in Appennino, mi sono sentito quasi obbligato a prendere la via del mare lasciandomelo ogni volta alle spalle. In spiaggia per un tuffo, una rosolata al sole e poi via su per l’entroterra di Alassio e attraverso le più inaccessibili vie del senese.

Andare al mare per andarmene dalla spiaggia, mi ha lasciato in dote vari borghetti tra cui spiccano, in Liguria, Castelvecchio di Rocca Barbena e, in Toscana, San Galgano. Non avevo mai sentito nominare nessuno dei due e ho constatato che non ero il solo a ignorarli. Non c’era quasi nessuno nei loro paraggi e per raggiungerli ho dovuto seviziare l’atlante stradale del Touring come fosse una cartina escursionistica: entrambi sono infatti ai margini di strade bianche, rigorosamente tortuose, prive di segnaletica e attorcigliate su campi e costate boschive.

A Castelvecchio ho provato a chiedere una Sweppes Lemon. La barista, che desidera sposarsi solo per avere un attimo di gloria all’uscita della chiesa, mi ha guardato stranita sentendo questo nome da ultimo grido in riviera e poi mi ha versato della Lemon soda. Dalla bottiglia, vecchia e sgonfia, perché non aveva più le lattine.

A San Galgano invece non ho potuto chiedere nulla. Non c’era nessun bar e neppure il Signore se l’è sentita di radicarsi lì in maniera troppo vistosa. In suo onore c’è una chiesa enorme, a tre navate, ma completamente priva di tetto. Forse l’Altissimo ha pensato che da lì non c’era poi tutto sto bisogno di una cripta per cercare il raccoglimento. Bastava guardare all’insù.

L'abitato di Castelvecchio di Rocca Barbena (a sinistra)
e la chiesa senza tetto di San Galgano (a destra)


Castelvecchio di Rocca Barbena San Galgano

Castelvecchio di Rocca Barbena San Galgano

mercoledì, agosto 16, 2006

Il Ratto e il motorino assassino

Aveva uno di quei motorini vecchio stile, tanto rumore e poca velocità. Il trabiccolo era giusto un po’ più grintoso dei normali cinquantini perché era abbondantemente truccato, come spesso capita nei paeselli, dove la marmitta è un po’ uno status symbol.

Quel giorno di qualche anno fa, come in tanti altri giorni, il Ratto apriva il gas voluttuoso per le vie del paese. “Maaahhammm” faceva per la strada statale, nel punto stretto tra la caserma dei pompieri e l'officina di Barabba. Il tracciato è dritto, privo di insidie, ma anche lì una frenata di troppo può essere fatale e lui molto probabilmente la fece. Le ruote del vecchio cinquantino un po’ truccato mollarono l’asfalto come calamite smagnetizzate mollano i ferro e lui il Ratto precipitò in terra seguendo con una sana dose di bestemmie i rotolii del trabiccolo.

Il rumore fatto fu notevole. Tale da rompere anche l’apatia dei carabinieri, che stazionavano lì vicino con la loro camionetta.. L’appuntato intuì l’accaduto e di corsa si precipitò verso l’incidentato. “Come stai, tutto bene?”, gli chiese preoccupato. Ma il Ratto non lo ascoltava. Già in piedi, sbatteva il casco in terra e con gli occhi iniettati di sangue lanciava fiammate di odio al suo cinquantino: “Eh, brutto motorino di merda mi volevi uccidere – urlava con la sua esse un strascicata -, ma non ce l’hai fatta neanche questa volta! Non avrai il mio scalpo…”.

Attonito fu il carabiniere e sicuramente un po’ infastidito fu anche Dio, coperto dalla solita lettiera di bestemmie.

sabato, agosto 05, 2006

Due valli, qualche guida, un crescione o un tortello alla lastra

Tutto fatto in casa era il menù di giovedì sera a Ca’ Lumacheto, mentre le nuove guide festeggiavano la fine del corso. Torte salate ricoperte di funghi ed erbette, piadine e affettato, formaggi e marmellate, crostate, torte di noci e succosi strudel. In mezzo a tutto questo c’erano anche quadratoni di purea di zucca e patate ricoperti da una sottile spoglia annerita qua e là dalla cottura su una lastra di terracotta rovente. Li devo descrivere, questi quadratoni, e non chiamare, perché sul nome c’è un contenzioso: le fiumane hanno scavato la roccia e inciso differenze nei dialetti. Su nel Bidente i santasofiesi li chiamano “tortelli alla lastra”. “Il tortello alla lastra è proprio questo – dicono – ripieno di zucca e patate e cottura sulla lastra”. Intuitivo, ma dove scorre il Montone quei tortelloni si chiamano crescioni. Lo dico io rocchigiano e lo conferma il dovadolese del gruppo: “Sì, sì – dice lui – anche quando li faceva la mia nonna, li chiamavano crescioni”.

Ha proprio ragione Paolo Rumiz: “Gli Appennini sono fatti per essere attraversati e non per essere percorsi”. Ci sono passi tra Emilia-Romagna e Toscana ogni cinque chilometri, ma non c’è un sola via di crinale che colleghi rapidamente una valle all’altra. Ci sono solo i monti e quelli si attraversano di rado e nel tempo che trascorre il crescione diventa tortello alla lastra.

Ca' Lumacheto: cena delle nuove guide escursionistiche dell'Emilia Romagna

mercoledì, agosto 02, 2006

Sull’Appennino dove l’uomo è estinto

Repubblica sta pubblicando in questi giorni ferragostani il diario di viaggio che Paolo Rumiz ha scritto percorrendo tutto l’Appennino, da Savona a Capo Sud. Ogni giorno una tappa. Oggi, mercoledì 2 agosto, è stata pubblicata la terza di cui riporto un passaggio molto carino. Descrive il carattere solitario e selvaggio dei crinali appenninici, un carattere che credo possa essere confermato da tutti coloro che, quei crinali, hanno provato a percorrerli a piedi o in bici.

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In Africa, anche in pieno deserto, c’è sempre qualcuno sulla strada. Qui no. La vita è altrove. L’uomo pare estinto come l’elefante di Annibale. Viaggio in uno spazio incomparabilmente più ancestrale delle Alpi. Queste non sono montagne-bomboniera. Niente alberghi a cinque stelle, niente gerani alle finestre. Solo locande anni Cinquanta con Bartali in fotografia, il manifesto dell’assemblea dei cacciatori, e qualcosa di balcanico nell’aria.
(Paolo Rumiz – La Repubblica, 2 agosto 2006)

martedì, agosto 01, 2006

Sulla strada per San Vito

Sono partitola Rocca alle due del pomeriggio di sabato scorso, subito dopo la fine del temporale. Fuori dal finestrino le colline del val Montone, ancora brumose per l’umidità. Trenta km dopo, attraversata una Forlì quiescente, sono arrivato alla pianura. Deserta, assolata, quasi bruciata. L’ho attraversata da sud a nord-est fino a Ravenna. Poi cento km in direzione nord, lungo la Romea: sulla destra in lontananza il mare aperto e sotto le ruote una stretta striscia d’asfalto circondata dalle paludi ravennati, ferraresi, e chioggiotte. Non c’erano camion a rallentare la marcia e in un giro della cassetta degli Eagles sono piombato a Venezia. Tangenziale di Mestre poco trafficata, una veloce rampa di lancio per l’autostrada per Belluno. Tre corsie vuote, finestrino aperto e Davide Van des Sfroos di sottofondo. L’ideale per puntare a nord ovest e addentrami nel Cadore, su su, tra cime sempre più alte e rocciose, fino a San Vito, mia tappa finale, raggiunta in completo relax verso le 19.

Fiori abbarbicati alle rocce delle TofaneMi è quasi dispiaciuto essere arrivato”, ho spiegato a mia sorella una volta rientrato. “Solo tu puoi pensare una cosa simile”, ha detto lei sarcastica, cullandosi sul dondolo di fronte a casa. Può darsi che sia un po’ strano, ma il piacere resta. Cinque ore d’auto, con un filo di gas, nessun passeggero a disturbare e una miriade di paesaggi da osservare. Lo ripeto e lo scrivo pure: “Mi è quasi dispiaciuto essere arrivato”. Per fortuna che a consolarmi c’era un’allegra combriccola con cui ho macinato una domenica attorno alle Tofane...