In quel momento non pensava di essere uno dei più abili alpinisti del tempo. Non pensava affatto. La sua mente era pura esperienza. Sentiva le foglie compresse sotto gli scarponi, sentiva le pieghe della corteccia su cui poggiava la mano, irrigidiva le orecchie alla brezza che gli soffiava alle spalle e, nel corpo immobile, misurava con precisione i volumi d’aria che entravano e uscivano con un regolare flusso di scambio e compenetrazione.
Scattò felino, inoltrandosi in una corsa veloce e impetuosa tra le frasche del bosco. Amava, come tante volte in parete, assaporare fino in fondo quei frangenti di assoluta perfezione: quei momenti in cui era parte del mondo, unito a lui in un moto unico, armonico, avvolgente.
Fu sorpreso quando sentì il suo piede destro scivolare. Perse l’equilibrio e si ritrovò in sospensione. Pensò intensamente cercando di non dimenticare nulla nei secondi che avevano accompagnato la sua corsa, negli anni che avevano preceduto il suo ultimo scatto felino della boscaglia. Fu sicuro di essersi scomposto su un sottile velo di muschio attorcigliato alla roccia sulla riva umida del torrente. Fu anche certo di essere vicino al perché della sua corsa, di quella e delle tante che l’avevano preceduta. Fu così certo di essere di fronte a quella risposta, che sentì le sue tempie pulsare per il desiderio e il suo naso sanguinare in un delirio di ormoni e idee.
L’attimo interminabile finì allora. Il suo corpo fu accolto duramente dal terreno, tornato a essere altro, sconosciuto, nemico. Ebbe tempo di pensare che gli sarebbe piaciuto protestare, un’ultima volta. Ma il suo anelito non trovò reazione. Non ebbe più alcuna notizia da se stesso.
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