Il suono della sveglia prende forma assieme a quello della pioggia. Entrambi mi riportano alla coscienza: non sono lucido, ma per istinto, o meglio per abitudine consolidata, posticipo l’allarme di dieci minuti. Me lo posso permettere: di sera mi concedo sempre dieci minuti per poter prendere familiarità con la mattina; in fondo la mattina è una sconosciuta e ci vuole una pausa per annusarla.
Ripiombo sul materasso. Con il corpo ricerco subito la sagoma di calore lasciata nella notte e con le coperte faccio ombra fin sopra i capelli: mi nascondo il mondo, sperando che così neppure lui veda me. Sono i miei dieci minuti di ritorno all’infanzia: nel mio buio artificiale anticipo la giornata e la giudico in modo del tutto personale. Spesso immagino un colpo di spugna con cui d’un tratto cancello gli ostacoli da ogni situazione che attraverso, fino a quando, godendomi quel percorso di potenza senza attriti, mi lascio a un sorriso ebete al confine tra coscienza e incoscienza.
E’ quello il momento in cui mi rivolgo anche a Dio. Gli chiedo schiettamente se i miei progetti per la giornata hanno la sua approvazione e se posso contare sul suo aiuto per metterli in fila tutti senza fare vittima. Resto in attesa per un po’, ma quando il silenzio si protrae troppo a lungo mi avvicino definitivamente al mattino e alla maturità. Ripasso velocemente tutti i progetti appena elucubrati e non riesco a non notarne il lato egoista e superonista. Smetto anche di aspettare la risposta di Dio, perché a quel punto ammetto a me stesso che pretendere un ok divino a un mondo tutto mio è un po’ pretenzioso verso il Supremo: se tutti facessero lo stesso, la sua vita sarebbe un inferno di richieste inconciliabili. “Bah - borbotto – come cavolo faccio a pregare come fossi a una vertenza sindacale?”.
Sento di nuovo la pioggia e sopra di esso il secondo richiamo dell’allarme. Ho finito il bonus. In compagnia di più prosaiche incertezze imbocco la via del nuovo giorno.
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