Non era ancora vecchio o stanco, avrebbe potuto tranquillamente restare in piedi sul binario, ma Stefano Cozzi, lucido fiscalista e consulente economico vaticano, pensò che la panchina in fondo alla pensilina fosse più in sintonia con la sua sagoma distinta. Là seduto avrebbe potuto aprire il giornale in modo più agevole ed erigere una barriera più sicura tra se stesso e il brusio circostante. Doveva aspettare otto minuti prima dell’arrivo del treno e non voleva rischiare di appendere i suoi pensieri a dettagli inutili: un paio di scarpe troppo colorate, un cellulare troppo evoluto o la voce troppo preoccupata di uno studente alla vigilia di un esame. Dettagli decisamente poco significanti come quelli non potevano compromettere il suo quotidiano incontro con il treno. Lo ripeteva ogni giorno e sapeva ormai quanto, nel proseguimento della giornata, dipendesse da quei minuti sul binario.
Cozzi aprì La Stampa nella pagina dedicata all’economia. Scritta così piccola, piena di cifre quasi illeggibili, era la più comoda da guardare come specchio dei propri pensieri. E quelli infatti uscirono immediatamente, con la precisione e la regolarità di sempre. Le piccole incombenze ereditate dal giorno precedente, i nuovi proponimenti di giornata, le strategie a cui tutto era ricondotto si ordinarono da sole come caselle di un docile foglio Excel: tutto era sotto controllo e tutto era migliorabile. Certo c’era ancora in sospeso la firma di un paio di carte e non sembrava esserci modo di prendere una decisione basata su stime precise, ma non era il caso di lasciarsi andare al turbamento dell’indecisione: bastava un’assicurazione, una piccola cautela in più, e anche quella scelta sarebbe stata ricondotta al giusto, in ogni caso.
Il treno scricchiolò sui binari proprio allora. Era uno dei pochi sempre puntuali e Cozzi lo guardò con il piacere dell’abitudine, ma senza muoversi. Non era lì per salire a bordo. Stava lì seduto sulla panchina, quel giorno e tutti quelli prima, per gustare il suo momento di incertezza. Era una cosa stupida – lo sapeva lui stesso – una costruzione del tutto mentale, ma gli regalava un piacere infinito. Ignorava il rigido percorso dei binari e si immergeva nel brulichio della partenza come nelle pagine iniziali di un libro d’avventura. Si chiedeva cosa sarebbe successo se fosse salito al posto di quel giovane con lo zainetto Napapiri o con quel signore più anziano con la borsa in pelle. Ogni volta constatava con trepidazione che non arrivava nessuna risposta certa, che in quel treno che partiva riuscivano ancora a trovare spazio decisioni per istinto, scelte per caso e azioni incerte.
Stefano Cozzi si cullava solo per pochi istanti in quel mondo di ovattato nomadismo cognitivo. Quando l’ultimo vagone era scomparso dall’orizzonte, la sua mente era già tornata alla scaletta costruita nei minuti dell’attesa dietro alla pagina di giornale non letta. Il mondo la imponeva e in fondo a lui non dispiaceva neppure troppo: aveva la sua indubbia utilità.
Ma il treno no, quello non si poteva dimenticare mai. Tutto il tempo utile del mondo non sarebbe sopravvissuto un solo secondo senza quei minuti sprecati di fronte al treno in partenza. Cozzi lo sapeva e ed era convinto che fosse davvero un bel vantaggio.
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