Il sentiero sale ancora. Continua a svilupparsi senza curve, lungo, deprimente. All’orizzonte però vedo già le balze. Mi immagino la fatica che ancora ricordo: gocce di sudore lievi su una faccia arrossata, mani umide che bagnano gli spallacci dello zaino. Sospiro al pensiero e guardo più in su alla ricerca del Lavane. Intuisco dov’è, dietro le grandi balze che lo precedono. Non ne ricordo il nome, come al solito. Ci penso ancora: non mi viene. Mi avvicino e il nome si fa più chiaro e di nuovo nitido nella memoria: le Balze delle Cornacchie. Sì, proprio loro.
E’ da lì in poi che avanza il buio più totale. Il manto verde della vegetazione si dispiega da una valle all’altra con pochi crinali a inframmezzarlo. Cerco un punto di riferimento, un punto che dia di nuovo un appiglio alla fatica che ancora ricordo, ma non lo trovo. Rido. “Deficiente - mi dico - Solo io posso pensare a passare di là: là dove non c’è nulla”. E dopo, sudore, sudore, sudore e a tratti sconforto: per ore, per una giornata intera. Lì davvero immagino di nuovo la fatica che ricordo.
Stanco, come dopo un cammino vero, richiudo la cartina. Mi piace guardare il mondo sulla carta: solo lì, dove è fermo, sicuro e innocuo, lo sento finalmente mio, compreso, a portata di pensiero. Rilassato mi appoggio allora con le spalle sulle mattonelle bianche dietro la schiena. Guardo a destra e la porta chiusa mi dà una piacevole sensazione di intimità. Guardo a sinistra e la piccola finestra aperta sulla collina sembra la cornice della quercia solitaria all’orizzonte.
Quando sono lontano da casa, ne sento sempre la mancanza: del mio stanzino bianco al piano si sopra e della mia cartina.
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