giovedì, febbraio 17, 2011

L'imprevedibile danza del desiderio

Cinquant'anni, ricercatore affermato, amministratore desiderato, Giulio portava la sua esperienza con responsabilità e autoironia. Sapeva che la fitta trama di relazioni sociali in cui era inserito aveva una consistenza reale: anzi, esistenzialista nel profondo, sentiva come un dovere la necessità di impegnarsi duramente per modificare quanto più il sistema di forze di cui era parte. Aveva sempre pensato che Sarte avesse ragione: il piacere della vita stava nella fatica di decidere costantemente la propria posizione, senza mai tirarsi indietro, senza mai lasciare scorrere gli eventi. Però, e per questo si sentiva orgoglioso, in qualche modo migliore di altri, guardava alla partita di Risiko della sua vita con distacco autentico. Il gioco poteva fare a meno di lui. Certo, se fosse scomparso, forse si sarebbe saltato un turno nel decidere a chi toccava proseguire dopo, ma poi si sarebbero riscritte le regole e la partita sarebbe continuata rigenerando se stessa eternamente. Già perché chiunque alla fine la vinca, in quei pochi casi che si arriva a un vincitore chiaro, poi si crea un nemico per ingannare la noia e continuare.

Giulio si definiva sotto voce un esistenzialista epicureo. Mica poco, pensava. E proprio per questo si sentiva profondamente irritato quando di fronte alle decisioni da prendere, sentiva l'agitazione salire. “Ancora?” si chiedeva contrariato.

Non doveva essere così. Si ricordava ancora quando ormai trentacinque anni prima si era seduto sui banchi della prima liceo. L'insegnante gli aveva chiesto se aveva paura del percorso di studi che l'attendeva e dell'esame finale che avrebbe dovuto superare per il diploma. Lui rispose che aveva paura dell'inizio, ma non della fine. I ragazzi di quinta erano già grandi e all'epoca per lui essere grandi significava dispensare certezze: i grandi conoscevano le strade, sapevano pagare le bollette, non avevano paura del buio, non avevano problemi a scrivere o a far di conto. Dunque era chiaro: un ragazzo grande sapeva come prepararsi a un esame e, conosciuta la ricetta infallibile, si trattava solo di eseguirla passo a passo per un successo assicurato.

All'esame di maturità, quando impiegò un'ora a impostare l'integrale per il calcolo del volume del prisma oggetto del problema, le sue certezze avevano già subito alcuni colpi. In geometria ogni linea tracciata era una lama nelle sue sicurezze e, a ben vedere, anche di fronte al foglio bianco del tema c'erano varie incognite: chi gli garantiva che le sue idee potessero interessare a qualcuno o che tutti le potessero comprendere agevolmente attraverso la propria esposizione?

Ora, è vero, quei problemi non lo assillavano più. Riempiva pagine, moduli, discorsi con l'agilità di una lunga esperienza. Però bastava essere un po' stanchi per restare sorpresi di fronte a una domanda: ne arrivavano in continuazione e solo la risposta giusta era accettata. Ma quale era a volte la risposta giusta? E, ancora, c'era altro che non aveva compreso: essere esistenzialisti come lui si professava significava vivere il proprio tempo bagnandosi ogni giorno nell'urgenza delle scelte quotidiane o era restare al di fuori dei giochi, guardare il Risiko degli altri e diventare sapienti studiandone le regole?

In vero c'era poi una domanda ancora più basilare che lo tormentava. Se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto vivere in pace. Se lo poteva permettere. E allora perché non accettare la quiete?
“Che domande stupide ti fai ancora?” si schernì. Se c'era una cosa che nel suo essere epicureo esistenzialista aveva imparato era proprio la risposta a questa domanda. Nella quiete può restare solo chi non l'ha mai abbandonata. Chi l'ha lasciata anche solo una volta, poi, la potrà abbracciare intensamente solo per poche ore, prima di abbandonarla e cercarla altrove nell'imprevedibile danza del desiderio.

1 commento:

Tomaso ha detto...

Caro Silvio ti do la buona giornata in fretta! oggi corro hai bagni termali, a presto.
Tomaso