martedì, febbraio 22, 2011

Il simbolo della vespa rossa

Aveva solo quindici anni quando, con i risparmi del primo anno di lavoro, si comprò una vespa usata. La volle rossa. Era l'unico colore che poteva immaginare: lui, famiglia operaia, già operaio a sua volta, poteva viaggiare solo su quel colore. Aveva visto suo padre scioperare per un aumento contrattuale e aveva già scioperato anche lui per una pausa più lunga a metà turno. Lo sentiva come un dovere e lo viveva come un piacere: era il modo più bello per stare insieme, un'intera fetta di paese, unita, conscia di se stessa, fronte unico di fronte al padrone. La fabbrica cresceva: produceva sempre più mattonelle, era una potenza economica che in quel paese di quattromila persone aveva il peso di una multinazionale. Generava i suoi ricchi. A loro spettavano le loro battaglie e la lotta per una porzione di privilegio.

La vespa rossa era ancora la stessa, ma oggi, venticinque anni dopo, la fabbrica era solo un guscio vuoto circondato da una vegetazione anonima: erbacce tra le crepe dell'asfalto nel parcheggio, grumi di terra rappresa sulle grondaie, qualche spino e le prime robinie sotto una tettoia di eternit verdognola. Massimo Cairoli era seduto lì di fronte allo scheletro di fabbrica come un vecchio ragazzo del muretto. I capelli, venati di bianco erano ancora lunghi e acconciati come ai tempi della protesta. Il foulard, anche, era lo stesso di anni prima: bianco e nero, i colori della jihad. Lui, in gran parte era lo stesso di allora: sognava di ritrovare i colleghi fuori dell'ingresso, fare una battuta sulla macchina del capo, partire per una protesta.

Solo che ora non sapeva più esattamente per cosa e contro chi protestare. Non era mai successo che la fabbrica chiudesse. Suo nonno, suo babbo, lui avevano imparato a difendere la loro fetta. Poi non si ricordava neppure come, le sue maniere si erano estinte. I compagni lo ascoltavano alla macchinetta, ma poi il giorno dopo non erano con lui sul piazzale: uno aveva un aumento da difendere, un altro un figlio piccolo da crescere, un altro un contratto a breve termine da rinnovare, un altro, semplicemente, non voleva rischiare di suo. Erano ancora in fabbrica, ma non più uniti. E poi, chi parlava con loro, non invitava più a lottare per una fetta della torta, ma suggeriva di rinunciare a una briciola per evitare che un intero fianco si sgretolasse. Le ragioni erano varie, ampie, ramificate. Inutile parlarne.

Massimo Cairoli non voleva smettere di essere di sinistra. Gli era piaciuto esserlo: era stato operaio, con la certezza di essere diverso dal nemico storico, ma in mezzo a una quotidianità semplice, quasi rituale, si era concesso di imparare da un film che la carta bruciava a 451 gradi Fahreneit. E su quelle scene di Truffaut se l'era giocata anche con chi aveva studiato in città. Li aspettava al bar e gli pagava da bere per umiliarli della loro lacuna.

Ora non poteva consumare più nessuna vendetta. La gente non riconosceva la sua citazione, ma non si sentiva neppure in colpa per non conoscerla. Gli rispondevano che il Berlusca non stava a perdere tempo con quelle storie. E lui allora replicava ma senza troppa forza. In fondo, quel presidente che sembrava credere ancora al pericolo comunista era l'unica cosa che, per contrasto, lo faceva sentire ancora di sinistra. Per il resto aveva solo dubbi.

In quell'incertezza si era bevuto molto, compreso la famiglia. E ora era solo, senza più classe. Quella era rimasta solo alla sua vespa rossa. Un pezzo grosso del Rotary Club gliela avrebbe pagata più di seimila euro, anche solo per il telaio. Era ancora un simbolo. Ma per un altro mondo.

3 commenti:

Tomaso ha detto...

Bello questo racconto caro Silvio.
LO ho letto tutto in un fiato, e senza vorere mi sono trovato nei miei tempi duri, quando ci voleva poco per essere contenti.
Grazie di averlo scritto e condiviso con noi. Buona giornata.
Tomaso

Adriano Maini ha detto...

Per quanto fossero duri i tempi passati, questi lo sono ancor di più, perché sconvolgono certezze consolidate, creano povertà dove c'era grande sicurezza, annientano la dignità sociale e quella individuale.

silviomini ha detto...

In parte credo che il la contrapposizione che in passato poteva essere così nitida oggi sfuma perché chi si trova a protestare è spesso più abbiente dei "padroni" del passato. E così alcuni diventano reazionari, proprio come i padroni del tempo, e altri, pur fedeli ai propri ideali, non si mobilitano più perché quasi a disagio nel difendere i propri privilegi, seppur piccoli.

Forse l'impasse di risolverà, quando il segmento sociale dei precari cronici vedrà radicarsi il proprio risentimento a causa del graduale esaurirsi degli ammortizzatori sociali nascosti delle generazioni precedenti.

Quando questi fantasmi che per ora tutti tendono a ignorare, sindacalisti in primis, matureranno una coscienza di classe, credo che nuove classi assumeranno la propria identità. Magari anche con condivisione di interessi trasversali con altre categorie deboli.

Giusto ipotesi serali. Vedremo.