Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
martedì, dicembre 21, 2010
martedì, dicembre 14, 2010
Solo, sull'isola, l'uomo che accelerava il tempo
Per una volta, ho ringraziato fino in fondo di essere ciò che sono.
Difficilmente, altrimenti, sarei stato lì ad ascoltare.
Difficilmente, altrimenti, sarei stato lì ad ascoltare.
Un colpo di tosse sporco accentuò il tono di rimprovero di Marcello verso l'amico. Italo non poteva essere davvero quello che rispondeva prima al cane che a lui, non era possibile, non era accettabile. Un cane, per giunta stupido, non poteva stare lì tra i piedi, non poteva continuare a essere il centro di quel tavolo dove si parlava di Mozart, di etica, e di Aarus, lo sconosciuto scrittore svedese che Marcello aveva incontrato da ragazzo, quando pensava di leggere in ordine alfabetico tutta la biblioteca di Venezia. Quel cane era davvero troppo. Non un animale ma l'abiura della libertà dopo una vita trascorsa a impersonarla.
“No, Italo, il posto del cane è là fuori in terrazza” disse Marcello ancora una volta la sera a nordest prima di partire per l'isola greca di Milos.
Italo versò allora all'amico un altro bicchiere di grappa, l'ultimo prima di un saluto dal sapore definitivo. Non aveva problemi ad accettare Marcello per chi era diventato, ma non poteva accettare che Marcello non facesse altrettanto con lui. L'avrebbe salutato presto, dunque, lasciato salpare solo, in compagnia dei suoi fantasmi, verso l'isola in cui lui, anni prima, era arrivato con un giorno di ritardo. Un giorno che ancora non si perdonava.
Italo e Marcello erano amici da sempre. Pordenonese il primo, veneziano il secondo, erano entrambi rimasti nella provincia senza perdere mai contatto con le idee del centro. La politica, le biblioteche, i circoli letterari, le scelte individuali li avevano visti protagonisti. Le loro strade si erano però unite principalmente per lei, Sonia, moglie di Marcello, amica più cara di Italo. Persona speciale – eclettica ma comprensiva, intelligente ma sensibile – Sonia era stata anche colei che aveva avvicinato per la prima volta Marcello a Milos. L'avevano sfiorata più volte in anni di navigazione fianco a fianco nel Mediterraneo e fu sull'isola che la donna scelse di ritirarsi assieme all'uomo che amava per allontanarlo dall'alcool. Gli disse di rifugiarsi su quel lembo di terra in mezzo al mare, lontano da tutto. Gli sarebbe rimasta vicino lei, a patto che lui smettesse di bere. La forza dell'amore, costruito giorno dopo giorno per trent'anni, ebbe la meglio sulla resistenza del vizio. Marcello, lì da solo sull'isola, con la sua donna di sempre, smise di bere.
Assieme alla pace, però, arrivò anche il male. Un tumore rapace che in Sonia, là da sola sull'isola, con Marcello, trovò lo spazio per correre ancora più forte. L'uomo ebbe poco tempo per pensare. Chiamò Italo per la paura di affrontare da solo l'agonia. L'amico rispose: sette giorni dopo, chiuso l'ufficio elettorale, sarebbe stato lì da lui. Il settimo giorno fu di troppo. Marcello chiamò di nuovo Italo. Questi corse di fretta all'aeroporto, senza più speranza di fuggire al proprio senso di colpa. L'altro invece corse solo alla bottiglia: ne esplorò il fondo per dire all'amico a cui aveva regalato un tormento senza data di scadenza che era stato lui ad accelerare il tempo, perché da solo quel dolore non poteva essere sopportato oltre.
Finì la bottiglia, disse questo all'amico e poi scoprì la passione. La trovò sul continente in uno dei viaggi di ritorno: una piccola imprenditrice, una “partita Iva veneta”, che in una sola notte di amore scatenato riuscì a regalare a Marcello più orgasmi di una vita intera a fianco dell'amore davvero amato. La partita Iva, che aveva sempre preferito le imprese alle biblioteche, in fondo si affezionò davvero all'uomo che aveva letto Aarus credendo di poter esplorare tutti gli autori della biblioteca di Venezia dalla A alla Z. Vi si affezionò così tanto da accettare anche lei un esilio sull'isola greca. Fece come Sonia: disse a Marcello che si sarebbe fermata con lui se avesse smesso di bere. Lui lo fece, ma nascose in credenza l'ultima bottiglia. All'amore senza sesso ci si può dare integralmente, ma al sesso senza amore occorre invece una via di fuga. La partita Iva tornò allora a fare impresa, legandosi a un uomo più giovane che in vero le regalava anche più piacere. Marcello invece rimase sull'isola. Solo, senza più amore, senza più passione, senza alcuna ragione per tornare, ma senza neppure alcuna vera ragione per rimanere.
Il suo unico legame con il mondo era Italo.
Quell'ultima sera a nordest, quando gli disse di odiare il cane che a suo parere gli toglieva lucidità, Marcello sapeva di poter perdere anche quell'ultimo appiglio. Ma non poteva fare diversamente. Voleva solo essere coerente. Era stato coerente nella cultura fino a sognarsi enciclopedico. Era stato coerente nell'amore, fino ad ucciderlo per arrestarne il dolore. Era stato coerente con la passione, evitando di riconoscerle la fedeltà che aveva riconosciuto all'amore vero. Ora sarebbe stato coerente con le proprie idee, anche al costo di perdere l'unico amico rimasto.
Marcello non si sentiva coraggioso. Solo non credeva di doversi tradire per paura del futuro. L'aveva già accelerato una volta per amore di una donna. L'avrebbe fatto di nuovo per amore9 di se stesso.
domenica, dicembre 12, 2010
giovedì, dicembre 09, 2010
Il bar di Genova
E' giovedì 9 dicembre. Sul porto di Genova torna il traffico di un giorno di lavoro e la luce di un sole estivo. Uomini con i volti scavati da vicoli stretti e da orizzonti larghi fumano sigarette attorno a piccoli tavoli tondi. Dentro, un uomo di colore, forse alto due metri, beve il suo caffè.
Il barista, carne albina e accento ligure, chiude il rubinetto e si volta verso le sue donne: la moglie creola, forse caraibica, e la figlia meticcia che riassetta la cucina assieme al compagno cinese. "Ragazze - chiede -, ma il marocchino è passato a pagare?".
Il barista, carne albina e accento ligure, chiude il rubinetto e si volta verso le sue donne: la moglie creola, forse caraibica, e la figlia meticcia che riassetta la cucina assieme al compagno cinese. "Ragazze - chiede -, ma il marocchino è passato a pagare?".
giovedì, novembre 18, 2010
Marocco: spazi
Marocco: prospettive
Marocco: forme
Marocco: colori
Marocco: angoli (di medina)
mercoledì, novembre 03, 2010
Via dall'Appennino attorno a un bicchiere di rum
C'era una volta un tempo in cui ogni sabato, ogni domenica, ogni giorno libero salivo in Appennino, nelle montagne di casa mia, per vivere l'eccitazione della scoperta. Ricordo quanto succedeva, sempre lo stesso, sempre emozionante. Rientravo in tarda serata da Bologna, per me allora il luogo del lavoro, della responsabilità e dell'inquietudine sociale, e mi fermavo nelle città della Romagna per bagnare in una birra i progetti per la camminata del giorno successivo. Eravamo in tre o quattro, sempre gli stessi, restii ad aprire le porte ad altri, perché in quell'alta collina che non è ancora montagna vedevamo un territorio elitario composto da un codice che solo noi potevamo interpretare, che solo noi potevamo meritare appieno. Esausto, la notte prima di dormire, chiudevo nello zaino il simulacro di casa con cui il giorno dopo avrei affrontato la mia avventura di scoperta: il minimo indispensabile per non avere paura del meteo, che noi, allora, ignoravamo. Poi al mattino suonava la sveglia, si saliva in auto, ci si fermava al bar per la seconda colazione, quella del piacere dopo quella della necessità. E infine si lasciava il mondo alle spalle. Ci si avvicinava al crinale, ci si scambiava qualche battuta per sancire una volta di più quel patrimonio di simboli e di confidenze che ci teneva uniti e poi si cominciava a camminare e parlare, parlare e camminare. Camminavamo e parlavamo per ore, perché per noi quella ero il luogo del sogno, delle utopie, delle possibilità senza limiti, un paesaggio dolce, privo di elementi troppo invadenti, dove noi riversavamo le identità creative coltivate segretamente nei giorni cittadini. E poi c'era lo stupore. Anni di studio, al liceo o all'università, non mi avevano mai raccontato niente sulle montagne di casa mia ed entrare in esse mi dava l'ebbrezza della scoperta. Nei brevi dialoghi di un incontro fortuito leggevo le punte di un universo di saperi e costumi rimasto inalterato. Nel nome di un luogo vedevo lo spunto per avviare una ricerca bibliografica. Nell'interpretazione di un bivio vivevo il piacere di ritrovare quello spazio su di una cartina e di ricomporlo attraverso di essa alle altre esperienze di cammino mio e dei mie compagni di marcia.
Ora che, con fermezza e cocciutaggine, ho trasformato quei monti nel mio luogo di lavoro, il paesaggio dello stupore si è trasformato nel territorio dell'ansia. Avevo sognato che il mio mondo d'Appennino fosse popolato da una società di persone tutte simili a quelle quattro o cinque con cui ne avevo iniziato la scoperta. E invece quelle quattro cinque persone erano un'isola e, ci rifletto solo oggi, nessuna di esse era cresciuta in Appennino, rispettandone in via esclusiva abitudini e aspettative. Avevo pensato che un casolare isolato potesse essere la cornice ideale per una sperimentazione sociale e culturale, mentre, proprio per il suo isolamento, esso soffre dello scetticismo dei pochi che lo circondano da vicino e della lontananza di chi lo potrebbe interpretare secondo la tua stessa utopia. E, infine, ci sono io, che sono diverso. Non più un viandante, con il privilegio dell'anonimato, ma una persona nota, investita anche di un certo potere simbolico. Una persona così non si ascolta. A una persona così si chiede. Si chiedono risposte precise: soluzioni razionali che rendano il desiderio di chi chiede sostenibile dalla comunità che lo deve accogliere.
Dopo alcuni giorni a casa, nessuno dei quali trascorso camminando in Appennino, tra poche ore partirò per il Marocco. E, nell'attesa di un luogo che mi riconsegni il privilegio dell'anonimato e dell'ignoranza, sorrido alle coincidenze. Poche settimane fa, in una giornata mantovana nata per caso, vidi un amico acquistare Tristi Tropici di Levy Strauss. Dopo pochi giorni (e diversi anni lontano dall'antropologia) l'ho acquistato anch'io e ora parto con la sua domanda, elaborata in Brasile attorno a un bicchiere di rum. “Come può l'etnografo salvarsi dalle contraddizione che risulta dalle circostanze della sua scelta? Egli ha sotto gli occhi, e a sua disposizione, una società, la sua; perché decide di ripudiarla e di dedicare ad altre società – scelte fra le più lontane e le più diverse – una pazienza e una devozione che la sua decisione nega ai suoi concittadini?”.
Ora che, con fermezza e cocciutaggine, ho trasformato quei monti nel mio luogo di lavoro, il paesaggio dello stupore si è trasformato nel territorio dell'ansia. Avevo sognato che il mio mondo d'Appennino fosse popolato da una società di persone tutte simili a quelle quattro o cinque con cui ne avevo iniziato la scoperta. E invece quelle quattro cinque persone erano un'isola e, ci rifletto solo oggi, nessuna di esse era cresciuta in Appennino, rispettandone in via esclusiva abitudini e aspettative. Avevo pensato che un casolare isolato potesse essere la cornice ideale per una sperimentazione sociale e culturale, mentre, proprio per il suo isolamento, esso soffre dello scetticismo dei pochi che lo circondano da vicino e della lontananza di chi lo potrebbe interpretare secondo la tua stessa utopia. E, infine, ci sono io, che sono diverso. Non più un viandante, con il privilegio dell'anonimato, ma una persona nota, investita anche di un certo potere simbolico. Una persona così non si ascolta. A una persona così si chiede. Si chiedono risposte precise: soluzioni razionali che rendano il desiderio di chi chiede sostenibile dalla comunità che lo deve accogliere.
Dopo alcuni giorni a casa, nessuno dei quali trascorso camminando in Appennino, tra poche ore partirò per il Marocco. E, nell'attesa di un luogo che mi riconsegni il privilegio dell'anonimato e dell'ignoranza, sorrido alle coincidenze. Poche settimane fa, in una giornata mantovana nata per caso, vidi un amico acquistare Tristi Tropici di Levy Strauss. Dopo pochi giorni (e diversi anni lontano dall'antropologia) l'ho acquistato anch'io e ora parto con la sua domanda, elaborata in Brasile attorno a un bicchiere di rum. “Come può l'etnografo salvarsi dalle contraddizione che risulta dalle circostanze della sua scelta? Egli ha sotto gli occhi, e a sua disposizione, una società, la sua; perché decide di ripudiarla e di dedicare ad altre società – scelte fra le più lontane e le più diverse – una pazienza e una devozione che la sua decisione nega ai suoi concittadini?”.
lunedì, ottobre 25, 2010
martedì, ottobre 19, 2010
Castel d'Alfero: alcuni passi, qualche chilometro, come se non esistesse
La strada, già stretta, si restringe ancora. Sale conficcata tra le lastre di arenaria, seguendo le curve della montagna. Tutto attorno alberi e campi che, a ottobre, la sera, si confondono in una nebbia appiattente. Un cartello scritto a mano sulla sinistra indica Quarto. Forse la valle è vicina, ma così non appare. A fianco di un campanile, poco di fronte a me, un signore cammina con il suo cane: veste stivali di plastica, pantaloni sporchi, maglione grosso. Ha un aspetto più balcanico che romagnolo. Non è romagnolo. E' di lì, di quella terra in mezzo ai monti, poche case, molti orizzonti.
“Castel d'Alfero è più indietro?”, domando. “Per caso lì dove c'era un cartello giallo con la scritta santuario?”.
“Quello è Castel d'Alfero” risponde lui. Non aggiunge altro e prosegue verso un recinto semi aperto.
Giro l'auto: di nuovo non ho la sensazione di lasciarmi indietro la Romagna orientale ma la Serbia centrale. Ritorno sui mie passi, vicino al cane che guarda ma non abbaia.
Parcheggio qualche chilometro oltre, a fianco di una catasta di porfido. Lì sulla sinistra vedo finalmente Castel d'Alfero. Lascio l'auto e imbocco la mulattiera che si insinua tra il vecchio borgo diroccato, un enclave di Sarsina nel vergheretino. Nei capitelli intravedo i simboli delle maestranze del cinquecento che eressero quei muri in pietra. Se sono lì è soprattutto perché ho sentito parlare di loro: mi hanno incuriosito.
Contro il tempo che avanza trascinato dall'oscurità continuo a camminare tra le spettro di case che furono. La strada è già un po' lontana. Alfero a qualche chilometro. Il resto, lì, è come se non esistesse.
“Castel d'Alfero è più indietro?”, domando. “Per caso lì dove c'era un cartello giallo con la scritta santuario?”.
“Quello è Castel d'Alfero” risponde lui. Non aggiunge altro e prosegue verso un recinto semi aperto.
Giro l'auto: di nuovo non ho la sensazione di lasciarmi indietro la Romagna orientale ma la Serbia centrale. Ritorno sui mie passi, vicino al cane che guarda ma non abbaia.
Parcheggio qualche chilometro oltre, a fianco di una catasta di porfido. Lì sulla sinistra vedo finalmente Castel d'Alfero. Lascio l'auto e imbocco la mulattiera che si insinua tra il vecchio borgo diroccato, un enclave di Sarsina nel vergheretino. Nei capitelli intravedo i simboli delle maestranze del cinquecento che eressero quei muri in pietra. Se sono lì è soprattutto perché ho sentito parlare di loro: mi hanno incuriosito.
Contro il tempo che avanza trascinato dall'oscurità continuo a camminare tra le spettro di case che furono. La strada è già un po' lontana. Alfero a qualche chilometro. Il resto, lì, è come se non esistesse.
lunedì, ottobre 11, 2010
Il massaggio
Ascolto, raccolto, i piacevoli segnali che mi inviano i miei piedi e le mie caviglie, mentre mani amorevoli seguono vuoti e protuberanze delle articolazioni, cuscinetti di carne e spigoli ossei. Ogni cellula del mio corpo sembra accogliere con gioia quel movimento particolare che nasce senza sforzo, perché la fatica di produrlo è tutta nelle mani di chi con i suoi movimenti si accolla lo sforzo di scrollare dalla mente le sue preoccupazioni.
Scivolo silenzioso nel nocciolo dei miei pensieri e, preda del mio non perdonabile solipsismo, cerco di risolvere in un monologo le alchimie policentriche che regolano l'amore tra due persone, un dialogo per eccellenza. Quello che ricevo è un dono: un flusso che non pretende ritorno, di affetto, desiderio, tenerezza, passione, tatto, calore e, soprattutto, di tempo, scelto di vivere al mio fianco anche lì in quel momento qualunque in cui sono solo uno panno stropicciato dalle fatiche del giorno.
E' questo dono che si chiama amore? E da dove viene, da una generazione spontanea dell'inconscio o da una costruzione quotidiana? Può solo nascere perfetto nel suo primo giorno o è una forma che si plasma con piccoli ritocchi giorno dopo giorno? E se così è, se ci vuole un impegno costante, si può ritenere un amore puro solo quello che è frutto di un impegno sempre piacevole o è lecita anche la tenacia che aggira le difficoltà?
Mentre le mani di chi mi ama continuano a iniettarmi la vita, penso piano, per non disturbare, per non offendere. Forse infatti quelle mani che non chiedono nulla, non sarebbero felici di essere oggetto di tante domande. Sono un dono e un dono desidera solo essere accettato come un'aggiunta che nulla toglie.
Scivolo silenzioso nel nocciolo dei miei pensieri e, preda del mio non perdonabile solipsismo, cerco di risolvere in un monologo le alchimie policentriche che regolano l'amore tra due persone, un dialogo per eccellenza. Quello che ricevo è un dono: un flusso che non pretende ritorno, di affetto, desiderio, tenerezza, passione, tatto, calore e, soprattutto, di tempo, scelto di vivere al mio fianco anche lì in quel momento qualunque in cui sono solo uno panno stropicciato dalle fatiche del giorno.
E' questo dono che si chiama amore? E da dove viene, da una generazione spontanea dell'inconscio o da una costruzione quotidiana? Può solo nascere perfetto nel suo primo giorno o è una forma che si plasma con piccoli ritocchi giorno dopo giorno? E se così è, se ci vuole un impegno costante, si può ritenere un amore puro solo quello che è frutto di un impegno sempre piacevole o è lecita anche la tenacia che aggira le difficoltà?
Mentre le mani di chi mi ama continuano a iniettarmi la vita, penso piano, per non disturbare, per non offendere. Forse infatti quelle mani che non chiedono nulla, non sarebbero felici di essere oggetto di tante domande. Sono un dono e un dono desidera solo essere accettato come un'aggiunta che nulla toglie.
martedì, settembre 21, 2010
La trance, l'obbiettivo e il resto del mondo tutto attorno
Continuo a cercare casa e nessuna mi sembra capace di diventare veramente mia. O è troppo lontana, o è troppo vicina, o è troppo costosa in rapporto a quello che dà o non è pronta nel momento in cui serve. Sono certo però che muri e divani sono innocenti. Non è colpa loro se non riesce a nascere l'amore tra di noi. Sono io che non mi sento pronto a una storia con loro. E' un po' come se mi sentissi l'amante fedifrago, buono per una toccata e fuga ma non per mettere le radici, non per trovare casa. Nessuna forma entra nella mia idea ideale perché la mia idea ideale in questo momento non ha forma: non trovo la mia casa ideale perché non so qual è e anche quando la riesco a immaginare perfetta in un altrove ideale mi chiedo se lo è veramente o se invece quel sogno lontano è solo un rifugio di comodo per rifuggire in una dimensione estranea alla prova dei fatti.
Solo quando si ha la certezza di ciò che si cerca si raggiunge il proprio obiettivo, casa o non casa che sia. Anch'io credo di poterlo confermare: anche l'improbabile diventa possibile quando lo punti con la certezza e la freddezza di un arciere che scaglia la sua freccia senza tremori. Ma a volte non basta. Quando la mela che hai colpito cade e ti risvegli dal trance in cui ti eri isolato per seguire nella tua mente un unico tracciato, quello tra te e lei, rischi un senso di smarrimento. Alla gioia dell'obbiettivo colpito, sopraggiunge il timore di aver puntato quello sbagliato e di dover mirare al successivo con più esperienza certo ma anche più stanchezza. E un dubbio. Quello di non raggiungere più quello stato di trance e di grazia sprecato invano quando di fronte si avrà l'obbiettivo vero. Sempre sperando sia veramente quello giusto e non un'altra chimera scelta per ignoranza del resto del mondo tutto attorno.
Solo quando si ha la certezza di ciò che si cerca si raggiunge il proprio obiettivo, casa o non casa che sia. Anch'io credo di poterlo confermare: anche l'improbabile diventa possibile quando lo punti con la certezza e la freddezza di un arciere che scaglia la sua freccia senza tremori. Ma a volte non basta. Quando la mela che hai colpito cade e ti risvegli dal trance in cui ti eri isolato per seguire nella tua mente un unico tracciato, quello tra te e lei, rischi un senso di smarrimento. Alla gioia dell'obbiettivo colpito, sopraggiunge il timore di aver puntato quello sbagliato e di dover mirare al successivo con più esperienza certo ma anche più stanchezza. E un dubbio. Quello di non raggiungere più quello stato di trance e di grazia sprecato invano quando di fronte si avrà l'obbiettivo vero. Sempre sperando sia veramente quello giusto e non un'altra chimera scelta per ignoranza del resto del mondo tutto attorno.
domenica, settembre 19, 2010
Lontano da lì
(nota autore: righe ispirate da luoghi reali ma con vicende immaginarie)
Oltre ottanta anni prima era nata sotto la Torre dei Vigiacli a Bocconi. C'era vita, tanta vita, la sua vita tra la via che correva tra le case del paese e i sentieri che si allontanavano su verso la chiesa e giù verso il fiume. E lì aveva fatto tutto ciò che si sentiva in dovere di fare, tutto ciò che aveva sempre desiderato fare. Era cresciuta in fretta imparando a governare casa dall'esempio della madre e della nonna ed era diventata donna scegliendo l'uomo con cui costruire la propria casa, la propria famiglia. Era stata una rivoluzione quando lei, donna, era passata per la prima volta dietro al banco del caffè dove suo marito, l'uomo, dava da bere agli uomini che si ritrovavano lì per brindare alla chiusura di un affare o alla decisione del sindaco sul futuro della comunità. La prima volta quei volti dai baffi curati l'avevano squadrata con sospetto, col dubbio che qualcosa di improprio, di innaturale si stesse compiendo, perché erano sicuri che naturale non fosse ciò che poteva essere ma solo ciò che era sempre stato. Lei però resistette. A lungo. Mentre gli uomini coi baffi e le giacche eleganti scomparivano, morti di vecchiaia o rapiti dalla pianura, lei rimaneva lì donna dietro il banco a fianco del suo uomo.
Era lì da una vita intera quando entrò un automobilista un po' sudato che veniva da lontano. L'uomo era entrato un po' di soppiatto. “E' aperto?” aveva chiesto, reso scettico dalle luci basse che lasciavano la vetrina buia, dal silenzio non interrotto da nessuna radio. “Venga pure” le aveva detto lei alzandosi dalla sedia dove riempiva il tempo assorta tra un cliente un altro, tra un caffè e un bicchiere di rosso. L'uomo bevve: non c'era l'aranciata e prese la Coca-Cola, in bottiglia con il collo ondulato. L'uomo mangiò: non c'erano toast e ricevette due fette di pane grosse e non salate con un tocco di prosciutto nostrano. Stava già per uscire quando chiese alla signora, silenziosa sulla sedia a fianco al banco, se non si sentisse un po' sola lì lontana da tutto.
“No” aveva risposto lei, senza aggiungere altro. Non voleva essere scorbutica, solo non capiva da cosa potesse essere lontano. Lì ascoltava l'avventura di chi tornava dalla caccia al cinghiale sulla cima della montagna. Lì misurava lo scorrere del tempo nella perdita di un amico di infanzia e nel saluto al nipote di un vicino. Lì c'era tutto – memoria, relazione, dovere, piacere – ciò che un uomo poteva sognare nel mondo e lei, il mondo, l'aveva anche visto negli occhi, perché andando dietro il banco di fronte agli uomini con i baffi e le giacche, l'aveva sfidato e cambiato. Lontano da cosa?
domenica, settembre 05, 2010
lunedì, agosto 30, 2010
Muta, neanche fosse un Dio
E' tutto all'aperto, così vicino al mare che se ne immagina il rumore. Ma è coperto dall'odore intenso della folla che beve, balla e va oltre sulla marina. E' un mondo ad alto volume che non sento mio e vi rimango ai margini, quasi con un senso di colpa. Che sento ma non so spiegare: forse è lì perché in quell'attimo tocco una fetta di tempo scappare via inutilmente (per me, intendo); forse perché non mi piace avere tutta questa capacità di giudizio che mi tiene lontano dalla vita sporca; forse perché è una capacità di giudizio solo ipocrita che ha paura del giudizio altrui il giorno dopo.
“Guarda, racconta, qui c'è la vita vera” mi dicono a me che ho il blog e l'etichetta dell'intellettuale che racconta. Io guardo ma non trovo nulla da raccontare. Cosa dovrei raccontare? Due ragazzi che si baciano, un trans che batte, una ragazza ubriaca che balla sopra il tettuccio di un'auto? Io sono solo lì ai margini di quel mondo. Per raccontare davvero dovrei scendere agli inferi, ma è proprio qui che è la mia trappola. Quelli sono inferi per me: io non farei un'esperienza, ma cercherei solo conferma al mio giudizio. E questo non interessa a nessuno: non più di quello di un prete, di un vecchio opinionista logorroico o di un ubriaco al bar. Vi metterei certo molti riferimenti letterari in più – di libri, quelli sì, ne ho letti molti – ma la sostanza non cambierebbe: sotto la retorica delle citazioni non resterebbe nulla.
L'unico mio racconto vero di quell'universo di eccessi sulle sponde del Tirreno è questo: in mezzo a tutto quel casino il mio racconto è un dialogo riservato con la coscienza. O meglio, un interrogatorio in cui io faccio le domande e lei resta lì muta neanche fosse un Dio. Chissà se varrebbe la pena attraversare quella linea di trasgressione per aggiungere un'esperienza reale? Chissà se quell'esperienza sarebbe davvero sporca come la mia prospettiva la fa apparire dal di fuori? Chissà se immergendosi in essa resterebbe poi il tempo, la voglia, la capacità per raccogliere le parole in grado di raccontarla? E resterebbe poi il tempo per navigare tra le esperienze letterarie, per svegliarsi presto al mattino e salire sulle creste più arcigne del pianeta? Chissà se sono più coglioni quelli che muoiono di coma etilico su quella riviera o quelli che precipitano tra le montagne del Nepal volando verso Lukla? O chissà se il furbo è quello che non fa né uno né l'altro, riservandosi di leggere la deficienza di entrambi i gruppi il giorno dopo sul giornale? Sì lui è furbo, però poi tanto crepa pure quello e allora forse il deficiente vero è proprio lui, no? O forse il vero eroe è chi ha avuto una vita così strozzata dalla necessità da non potersi mai soffermare a perdere tempo su ieri o domani, con la certezza che, se lui fosse stato dall'altra parte, quella baciata dalla dea fortuna intendo, non avrebbe avuto un problema mai al mondo, pasciuto e soddisfatto dal proprio benessere.
Comunque sia, vi assicuro, rilassarsi così è stressante. Alla prossima occasione mi getterò in mezzo alla folla come uno qualunque, quale in effetti sono, così sarò come tutti gli altri esperienza pura senza nulla da scrivere o raccontare. Però mi domando. E se alla fine di tutto invece mi ritrovassi con una bella storia a tinte forti. Mi viene quasi il dubbio che la mia capacità di giudizio nel racconto di quanto successo sarebbe ancora più difficile da gestire che nell'immaginazione di quanto sarebbe potuto accadere. Come vedete miei cari, non è nulla semplice.
“Guarda, racconta, qui c'è la vita vera” mi dicono a me che ho il blog e l'etichetta dell'intellettuale che racconta. Io guardo ma non trovo nulla da raccontare. Cosa dovrei raccontare? Due ragazzi che si baciano, un trans che batte, una ragazza ubriaca che balla sopra il tettuccio di un'auto? Io sono solo lì ai margini di quel mondo. Per raccontare davvero dovrei scendere agli inferi, ma è proprio qui che è la mia trappola. Quelli sono inferi per me: io non farei un'esperienza, ma cercherei solo conferma al mio giudizio. E questo non interessa a nessuno: non più di quello di un prete, di un vecchio opinionista logorroico o di un ubriaco al bar. Vi metterei certo molti riferimenti letterari in più – di libri, quelli sì, ne ho letti molti – ma la sostanza non cambierebbe: sotto la retorica delle citazioni non resterebbe nulla.
L'unico mio racconto vero di quell'universo di eccessi sulle sponde del Tirreno è questo: in mezzo a tutto quel casino il mio racconto è un dialogo riservato con la coscienza. O meglio, un interrogatorio in cui io faccio le domande e lei resta lì muta neanche fosse un Dio. Chissà se varrebbe la pena attraversare quella linea di trasgressione per aggiungere un'esperienza reale? Chissà se quell'esperienza sarebbe davvero sporca come la mia prospettiva la fa apparire dal di fuori? Chissà se immergendosi in essa resterebbe poi il tempo, la voglia, la capacità per raccogliere le parole in grado di raccontarla? E resterebbe poi il tempo per navigare tra le esperienze letterarie, per svegliarsi presto al mattino e salire sulle creste più arcigne del pianeta? Chissà se sono più coglioni quelli che muoiono di coma etilico su quella riviera o quelli che precipitano tra le montagne del Nepal volando verso Lukla? O chissà se il furbo è quello che non fa né uno né l'altro, riservandosi di leggere la deficienza di entrambi i gruppi il giorno dopo sul giornale? Sì lui è furbo, però poi tanto crepa pure quello e allora forse il deficiente vero è proprio lui, no? O forse il vero eroe è chi ha avuto una vita così strozzata dalla necessità da non potersi mai soffermare a perdere tempo su ieri o domani, con la certezza che, se lui fosse stato dall'altra parte, quella baciata dalla dea fortuna intendo, non avrebbe avuto un problema mai al mondo, pasciuto e soddisfatto dal proprio benessere.
Comunque sia, vi assicuro, rilassarsi così è stressante. Alla prossima occasione mi getterò in mezzo alla folla come uno qualunque, quale in effetti sono, così sarò come tutti gli altri esperienza pura senza nulla da scrivere o raccontare. Però mi domando. E se alla fine di tutto invece mi ritrovassi con una bella storia a tinte forti. Mi viene quasi il dubbio che la mia capacità di giudizio nel racconto di quanto successo sarebbe ancora più difficile da gestire che nell'immaginazione di quanto sarebbe potuto accadere. Come vedete miei cari, non è nulla semplice.
lunedì, agosto 23, 2010
martedì, luglio 27, 2010
Gonna rise, find my direction magnetically
Non c'è il silenzio che voglio quando scrivo. Non voglio il silenzio che cerco quando scrivo. Sento il rumore delle note, la voce che si mescola alla chitarra, la mente, la penna che salta da un punto all'altro in una deriva casuale ma non del tutto. Oggi mi diverte così. Vedo immagini, ma non sono solo immagini. Sì, credo che siamo cose vere, credo che lo siano davvero. No, non si toccano, ma ti toccano, circondano il pensiero, l'orientano, lo traducono, lo svuotano, lo proiettano, lo fanno ripartire.
Ricordo, certo, ricordo. Mi sembra di essere in viaggio verso l'Abruzzo, l'odore della Spagna, del Camino che ti viene incontro: manca poco alla partenza vera, quel viaggio la anticipa, la sottolinea, ne fa crescere la voglia. Sento il sole che batte sul braccio sinistro, sento il rumore del motore che tiene la velocità mentre la strada attraversa l'Umbria. E' campagna, voglia di birra, voglia di parole che fuggano dalla forbice del tempo, di idee che respirino e ti facciano respirare, di utopie che gonfino l'orgoglio, di prospettive che ti facciano ringraziare il tempo passato per costruirle.
Immagino, forse, forse immagino anche. Sto così bene con il mio pensiero che non ho paura di liberarlo, di seguirlo docile dove si scaglia improvviso. Mi piace quello che mi porta a vedere, mi piace cavalcarlo come fosse una jeep in fuga dalla nube di polvere che alza, a cavallo dell'orizzonte che divora e che apre. Vedo della sabbia che finisce in mare, grande spazio alle spalle, grande spazio di fronte. Non ci sono ancora, ma vedo, immagino, creo. Odo una voce straniera, non la capisco, mi parla, mi fa gesti, si avvicina. La guardo e sorrido. Non capisco cosa possa pensare, potrebbe forse anche pensare male, essere aggressivo, ma sorrido. Odo la voce, ma vedo già il tè che sarà versato per rinfrescarla quando i gesti avranno tolto il mistero delle parole incomprensibili. Aiuto a spingere il carrello fuori dalla sabbia e prendo il tè che sapevo sarebbe arrivato.
Avrei quasi voglia di ballare, alzare il volume e seguire il ritmo delle cellule che vibrano, ma resto qui. Chiudo il video sulla tastiera per lasciare alla musica anche quell'attenzione che mi rubava la creazione delle parole. Ancora più rumore di note e di voce che si mescola alla chitarra, solo musica, solo parole.... gonna rise, find my direction magnetically. Non so più se ricordo o immagino, ma vedo, ed è troppo piacevole vedere con la certezza di essere l'unico in quel posto a farlo, l'unico che lo potrà mai fare. Se non ve lo racconto, scusatemi, sono sicuro che mi potrete perdonare. Ascoltate.
Ricordo, certo, ricordo. Mi sembra di essere in viaggio verso l'Abruzzo, l'odore della Spagna, del Camino che ti viene incontro: manca poco alla partenza vera, quel viaggio la anticipa, la sottolinea, ne fa crescere la voglia. Sento il sole che batte sul braccio sinistro, sento il rumore del motore che tiene la velocità mentre la strada attraversa l'Umbria. E' campagna, voglia di birra, voglia di parole che fuggano dalla forbice del tempo, di idee che respirino e ti facciano respirare, di utopie che gonfino l'orgoglio, di prospettive che ti facciano ringraziare il tempo passato per costruirle.
Immagino, forse, forse immagino anche. Sto così bene con il mio pensiero che non ho paura di liberarlo, di seguirlo docile dove si scaglia improvviso. Mi piace quello che mi porta a vedere, mi piace cavalcarlo come fosse una jeep in fuga dalla nube di polvere che alza, a cavallo dell'orizzonte che divora e che apre. Vedo della sabbia che finisce in mare, grande spazio alle spalle, grande spazio di fronte. Non ci sono ancora, ma vedo, immagino, creo. Odo una voce straniera, non la capisco, mi parla, mi fa gesti, si avvicina. La guardo e sorrido. Non capisco cosa possa pensare, potrebbe forse anche pensare male, essere aggressivo, ma sorrido. Odo la voce, ma vedo già il tè che sarà versato per rinfrescarla quando i gesti avranno tolto il mistero delle parole incomprensibili. Aiuto a spingere il carrello fuori dalla sabbia e prendo il tè che sapevo sarebbe arrivato.
Avrei quasi voglia di ballare, alzare il volume e seguire il ritmo delle cellule che vibrano, ma resto qui. Chiudo il video sulla tastiera per lasciare alla musica anche quell'attenzione che mi rubava la creazione delle parole. Ancora più rumore di note e di voce che si mescola alla chitarra, solo musica, solo parole.... gonna rise, find my direction magnetically. Non so più se ricordo o immagino, ma vedo, ed è troppo piacevole vedere con la certezza di essere l'unico in quel posto a farlo, l'unico che lo potrà mai fare. Se non ve lo racconto, scusatemi, sono sicuro che mi potrete perdonare. Ascoltate.
martedì, luglio 13, 2010
L'orizzonte improbabile e il suo costante inizio
Alla fine mi ha detto: è bello. E quello che mi pare bello soprattutto è che parli di tuo nonno, della tua storia personale. Non sei semplicemente venuto a prendere la nostra sventura, haio portato la tua. Questo mi piace.
(E. Carrer - La vita come un romanzo russo)
(E. Carrer - La vita come un romanzo russo)
Intrappolata per mesi nel labirinto di certezze e responsabilità di una rispettabile vita stanziale, è riemersa la voglia di viaggiare, di andare, di stendermi su letti diversi, di raccogliermi in lettura dentro bagni inesplorati, di scendere per scale ripide, di pestare pavimenti scricchiolanti. Adoro correre via leggero con una mano sul volante: a bassa velocità, così che la strada non è una linea da tracciare ma uno spazio ampio, curvo e comodo in cui danzare al ritmo di musica. Ne risulto euforico: sono così sincero che la gente, ebbra di verità, pensa alla fantasia.
Di fronte a una grappa scura come il legno, profumata come il bosco dopo la pioggia, Francesca, che mi ha conosciuto a lungo, mi ha perso per molto e mi ha infine trovato cambiato quasi mi rimbrotta: “Silvio – mi dice – non siamo in un romanzo. Qui la verità non vince sempre”. Lo so, lo so, non c'è bisogno di ricordarmelo. Anche se sono ottimista, anche se, con un po' di fortuna e di tenacia, credo che alcuni degli orizzonti di un ragazzo di belle speranze possano diventare traguardi a portata di mano, anche se sono convinto di tutto questo, so che tanti progetti sono solo illusioni che non lascio morire, mondi impalpabili che hanno come unico aggancio la tenacia delle mie convinzioni.
Ma non è proprio questo ciò che affascina, ciò che, nel momento giusto, rende un bicchiere di grappa in mia compagnia leggermente più alcolico, più stordente, più gustoso di quanto non lo sia in compagnia di tanti altri? Chi ha la certezza di ciò che possiede e la completa fattibilità di ciò che desidera costruisce un mondo che prima o poi finirà. Chi invece dubita di cos'ha e si prefigura un orizzonte improbabile va incontro a un un mondo che ora e sempre starà per iniziare.
“Non pretendo un romanzo a lieto fine, Francesca, questo no, almeno tutte le parole per scriverne uno mio, questo sì, davvero lo esigo”.
lunedì, luglio 12, 2010
lunedì, luglio 05, 2010
Il personaggio che mi invidiano
Cerca per un po' la parola e infine la trova, nella mia lingua: “Sono invidiosa – dice – invidio la tua vita”. Sorrido interrogativo e cerco l'errore, ma non c'è. E' la parola giusta: la donna venuta dalla Germania per rivedere l'uomo conosciuto in fretta due anni prima vuole dire esattamente ciò che dice a me, nella mia lingua, l'altra sera nelle colline di Firenze.
So che è così, so che è vero, perché non è la prima volta che mi capita di sentirmi intensamente vicino a una persona molto lontana. E so che è così perché non si raccontano i fatti più intimi della propria vita togliendo loro tutte le illusioni che li rendono sopportabili, spiegabili, familiari, presentabili a chi si vuole solo intrattenere in un'attesa casuale. Si racconta chi si è e non chi ci si racconta di essere solo a chi si vuole lasciare un'eredità, un vincolo di responsabilità, un legame che disegna l'unicità di una conoscenza. E' come se quella donna mi avesse lasciato un pezzo di sé per farlo vivere nel mio mondo, per lei così più grande del suo: “Sono solo quello che ti ho detto ora non ciò mi racconto ogni sera senza credermi, senza prendere sonno: sono solo quello, però se lasci aperta una porta del tuo mondo, ho la sensazione vera di poter essere molto altro”.
Ti lascio volentieri una porta aperta. Forse così il mio mondo sarà davvero e sempre perfetto e stimolante come credi tu, senza cedere cedere ai momenti qualunque e lasciarsi imperfetto, superficiale, abulico, improduttivo, chiuso. Perché da vicino anche il mio mondo a volte denuncia qualche crepa: non è così facile ricevere le storie da chi ti sta vicino ogni giorno, non è così facile regalare la propria. Un racconto lontano è come un libro: può essere e non essere allo stesso tempo. Un racconto vicino, invece, è, è un fatto e si dipinge nella sua invadente presenza: diventa, traccia, eco, binario, orizzonte. E non sempre si ha la voglia, la forza o la capacità di raccogliere o lasciare un'eredità così pesante e precisa.
Comunque la porta rimarrà aperta. Tra un capitolo e l'altro, cercherò sempre di trame degne del personaggio che tu addirittura senti di invidiare.
So che è così, so che è vero, perché non è la prima volta che mi capita di sentirmi intensamente vicino a una persona molto lontana. E so che è così perché non si raccontano i fatti più intimi della propria vita togliendo loro tutte le illusioni che li rendono sopportabili, spiegabili, familiari, presentabili a chi si vuole solo intrattenere in un'attesa casuale. Si racconta chi si è e non chi ci si racconta di essere solo a chi si vuole lasciare un'eredità, un vincolo di responsabilità, un legame che disegna l'unicità di una conoscenza. E' come se quella donna mi avesse lasciato un pezzo di sé per farlo vivere nel mio mondo, per lei così più grande del suo: “Sono solo quello che ti ho detto ora non ciò mi racconto ogni sera senza credermi, senza prendere sonno: sono solo quello, però se lasci aperta una porta del tuo mondo, ho la sensazione vera di poter essere molto altro”.
Ti lascio volentieri una porta aperta. Forse così il mio mondo sarà davvero e sempre perfetto e stimolante come credi tu, senza cedere cedere ai momenti qualunque e lasciarsi imperfetto, superficiale, abulico, improduttivo, chiuso. Perché da vicino anche il mio mondo a volte denuncia qualche crepa: non è così facile ricevere le storie da chi ti sta vicino ogni giorno, non è così facile regalare la propria. Un racconto lontano è come un libro: può essere e non essere allo stesso tempo. Un racconto vicino, invece, è, è un fatto e si dipinge nella sua invadente presenza: diventa, traccia, eco, binario, orizzonte. E non sempre si ha la voglia, la forza o la capacità di raccogliere o lasciare un'eredità così pesante e precisa.
Comunque la porta rimarrà aperta. Tra un capitolo e l'altro, cercherò sempre di trame degne del personaggio che tu addirittura senti di invidiare.
mercoledì, giugno 23, 2010
domenica, giugno 13, 2010
Dove abito?Breve riflessione su un'unità pluricentrica
Mi sono accorto di recente che non riesco più a rispondere in modo efficace alla domanda dove abito. Non sono un nomade nel senso chatwiniano del termine: non mi muovo verso mete sempre nuove e sempre estranee con uno spirito da antropologo naif. Non faccio nulla di simile, non è per quei viaggi che fatico a dire dove abito. Non ho perso le radici. No, è il contrario: ne ho costruite diverse, numerose, lunghe, talvolta lontane, talvolta perfino troppe, ma tutte equamente fondamentali. Non abito a Bagno, dove lavoro. Non abito a Rocca, dove sono nato. Non abito a Bologna, dove amo. Non abito a Forlì dove ho amato. Non nei monti, dove cammino. Non abito in nessuno di questi luoghi: abito in movimento costante tra di essi, in case che attraverso in punta di piedi senza lasciare tracce forti se non ciò che ogni passaggio tendo a dimenticare, se non ciò che gli altri fanno al posto mio per preparare il nuovo benvenuto. Io non faccio nulla di ciò che abitualmente fa chi abita: io non lavo, io non cucino che poco, io non faccio la spesa, io non decoro. Però contamino: una volta viaggiavo solo tra un luogo e l'altro, ora invece porto con me in ogni dove il luogo che lo ha preceduto e quello che lo procederà. Tante geografie sconosciute, lentamente, a diverse velocità, stanno diventando una geografia unica, un tempo unico, un ritmo uniforme. Nel mio pulviscolo abitativo è come se si fosse formato un nucleo: tante particelle vi convergono, altre forse se ne allontaneranno. Ma la nube ha una forma, forse si potrebbe dire anche un'identità. Sì ce l'ha sicuramente. Lo posso dire perché perché tutte quelle radici, anche se sono difficili da riassumere in una risposta, sono lo stesso l'embrione di una base. E dopo tanto lavoro sotterraneo, mi sento leggero al punto da puntare in alto verso la chioma, prendere il vento e, con i capelli un po' scompigliati, guardare il panorama fin lontano lontano. Forse anche partire, con il desiderio febbricitante di andare e il piacere quieto di tornare.
sabato, giugno 12, 2010
mercoledì, giugno 02, 2010
martedì, maggio 25, 2010
domenica, maggio 16, 2010
lunedì, maggio 10, 2010
Di fronte al rudere (il pensiero) come un lupo
"Nella maggior parte dei casi, il motivo della nostra felicità e infelicità è il significato che diamo alla vita piuttosto che la vita stessa"
(Orhan Pamuk - La valigia di mio padre)
(Orhan Pamuk - La valigia di mio padre)
E’ sicuramente un bel momento. Me lo dicono due piccoli, non futili, particolari: quando esprimo il meglio di me – ho molte occasioni per farlo, non ricevo invidia, ma desiderio di partecipazione ed emulazione; e quando esprimo le mie debolezze – già è un fatto che me lo conceda – non ricevo sarcasmo ma sostegno. E’ come un circolo virtuoso: la libertà di esprimere le mie ombre rende più vivide le luci del mio essere, che naviga libero, diventa carisma quando arriva agli altri e coraggio quando ritorna a me, sciogliendo le paure come la rugiada il sole al mattino.
Quando è così mi piace sostare un poco di fronte alla rovina di un casolare ai margini di un campo con l’erba incolta. Nello spazio vuoto che mi circonda sembro fermo ma in realtà apparecchio la tavola come un alacre maggiordomo delle mie idee: metto una frase detta qui, una lettera ricevuta qua, un sms simpatico laggiù. A quel punto il mondo mi sembra infinitamente vicino e malleabile: rimetto tutto in ordine e torno a valle pieno di propositi, pieno di idee che presto diventeranno azioni. Con il ritmo di un grande respiro mi tuffo nel mondo degli altri per trovare stimoli a fare meglio ciò che ho pensato ritirandomi nel mio.
Quando riesco a ridere attorno a un rudere che in sé mette una tristezza unica è davvero un buon segno e allora mi affaccio anche alla finestra che dà sui ricordi dei momenti bui. Li guardo e vedo che lì succede tutto il contrario. I pensieri non ne vogliono sapere più di uscire e lasciarsi mettere in ordine nella mia tavola. Restano dentro, si avvinghiano appiccicosi come la tela di un ragno. Uno dopo l’altro fino a costruire un gomitolo-gabbia attorno alla mente. Dovresti scrivere una lettera, ma non ti sembra di avere le parole giuste. E poi sulla lettera dovrebbe esserci il parere di quello là che ti manca e che dovresti contattare prima. Ma sai che non ti risponderà o che se lo farà tu sarai poco convincente e lui si dimenticherà subito di ciò che gli chiedi. E comunque se anche accettasse, ci vorrebbe tempo e tu di tempo non ne hai. Hai fretta, fretta di conferme che non arrivano. Nessuno te le darà: un po’ tutti ti sono contro e, ne sei certo, ridono anche un po’ di te, felici della tua sventura.
Di fronte al rudere, il pensiero è come un lupo. Se può correre libero, suscita il fascino di un grande predatore. Se resta in trappola, diventa un cane rabbioso che addenta il suo padrone.
lunedì, aprile 19, 2010
“Come eravamo”, ovvero l’insofferenza verso il lato nostalgico della memoria
In un momento qualunque di un pomeriggio qualsiasi, di fronte a un bicchiere di vino senza nome, si può sentire parlare in un bar d’Appennino un signore seduto in maniera abbondante su una sedia di legno. L’uomo, con la schiena curva e la pancia proterva, parla del tempo mitico in cui era giovane, del tempo in cui gli bastava l’ombra di un albero lontano per scatenare il piacere della contadina vicina. Ottavio – potrebbe essere questo il nome del signore che parla – ricorda il tempo in cui con gli amici beveva sino a sentirsi un Dio in grado di gridare nudo contro il cielo per fare tremare le stelle solo con la voce. Ottavio parla a fianco della porta del bar: sul vetro, poco dietro alle sue spalle, una foto in bianco e nero rimanda a una mostra che racconta “come eravamo”.
Ovunque si parla del tempo in cui eravamo. A cento chilometri dalla via Emilia, così come a cento dal Vesuvio. E non si racconta né della via Emilia né del Vesuvio, né quelli di oggi né quelli di ieri, perché tutti gli Ottavio del mondo parlano solo del loro tempo che non c’è più. Si erano sentiti davvero degli dei allora. I loro corpi erano giovani e le loro menti estranee alla responsabilità: conoscevano la legge, ma solo come amplificatore del gusto della violazione. Non avevano bisogno né di libri, né di sapere: la fatica del giorno ancora non rubava loro la notte, il tempo in cui si potevano mostrare sufficienti a loro stessi nella forza del gesto estremo di provocazione e nell’orgasmo goduto con una seduzione che sapeva di conquista.
Ottavio avrà quasi settanta anni, ma non è l’età che conta. Di come eravamo parla con una persona molto più giovane, che si potrebbe chiamare Gianluca, perché quando era nata le famiglie erano già troppo esigue per numerare i figli. Gianluca ha poco più di trent’anni ma preferisce il ricordo al progetto. I suoi ricordi vivono più a valle di quelli di Ottaviano, viaggiano a cavallo di un motore a scoppio anziché di un asino smagrito, ma si ancorano allo stesso sogno di onnipotenza svanito d’improvviso chissà dove, in un pomeriggio dimenticato tra l’adolescenza e la maturità.
Forse c’è un po’ troppa gente che ricorda com’era. Dicono di fare memoria, ma la memoria è una nuova prospettiva per vivere un luogo in cui si è felici di essere o desiderosi di andare, mentre quelle frasi sul “come eravamo” hanno il sapore amaro di un racconto che nasce per riempire con le azioni di allora la noia di oggi. E’ un anno che passa producendo solo il ricordo di un anno passato.
Ottaviano e Gianluca parlano di com’erano, ma ignorano dove sono. Se fosse per loro, i luoghi dove erano stati non sarebbero più, resterebbero muti e abbandonati. Zitti, zitti, però, quei luoghi restano là. Fanno sentire la voce a persone diverse. Persone un po’ problematiche che il delirio di onnipotenza non l’hanno vissuto mai, perché, ancora piccoli piccoli, hanno incontrato saperi artigianali, numeri, parole, equazioni e frasi che avevano un sentore sinistro e un significato irraggiungibile. Anche per quelle persone il corpo era forte e la mente era libera, ma lo stesso certi nodi restavano a dare loro il senso del limite e della difficoltà. Ma anche il desiderio di superarlo. E in quel desiderio, prima inconscio e poi gradatamente più cosciente, il tempo è un alleato: col tempo saperi artigianali, numeri, parole, equazioni e frasi una volta sinistri esplodono il loro significato in un nuovo reticolo di senso. Da un luogo nasce il desiderio di aprire un libro, dal libro una mappa, da una mappa di tornare al luogo, da un luogo a un altro luogo, da un altro a un altro ancora, e poi di nuovo alla mappa e dalla mappa al libro. Niente più rimpianto, ma ricordo di ciò che si era stati per diventare quel che si è, ricordo di un anno passato per vivere più in profondità l’anno presente.
Ovunque si parla del tempo in cui eravamo. A cento chilometri dalla via Emilia, così come a cento dal Vesuvio. E non si racconta né della via Emilia né del Vesuvio, né quelli di oggi né quelli di ieri, perché tutti gli Ottavio del mondo parlano solo del loro tempo che non c’è più. Si erano sentiti davvero degli dei allora. I loro corpi erano giovani e le loro menti estranee alla responsabilità: conoscevano la legge, ma solo come amplificatore del gusto della violazione. Non avevano bisogno né di libri, né di sapere: la fatica del giorno ancora non rubava loro la notte, il tempo in cui si potevano mostrare sufficienti a loro stessi nella forza del gesto estremo di provocazione e nell’orgasmo goduto con una seduzione che sapeva di conquista.
Ottavio avrà quasi settanta anni, ma non è l’età che conta. Di come eravamo parla con una persona molto più giovane, che si potrebbe chiamare Gianluca, perché quando era nata le famiglie erano già troppo esigue per numerare i figli. Gianluca ha poco più di trent’anni ma preferisce il ricordo al progetto. I suoi ricordi vivono più a valle di quelli di Ottaviano, viaggiano a cavallo di un motore a scoppio anziché di un asino smagrito, ma si ancorano allo stesso sogno di onnipotenza svanito d’improvviso chissà dove, in un pomeriggio dimenticato tra l’adolescenza e la maturità.
Forse c’è un po’ troppa gente che ricorda com’era. Dicono di fare memoria, ma la memoria è una nuova prospettiva per vivere un luogo in cui si è felici di essere o desiderosi di andare, mentre quelle frasi sul “come eravamo” hanno il sapore amaro di un racconto che nasce per riempire con le azioni di allora la noia di oggi. E’ un anno che passa producendo solo il ricordo di un anno passato.
Ottaviano e Gianluca parlano di com’erano, ma ignorano dove sono. Se fosse per loro, i luoghi dove erano stati non sarebbero più, resterebbero muti e abbandonati. Zitti, zitti, però, quei luoghi restano là. Fanno sentire la voce a persone diverse. Persone un po’ problematiche che il delirio di onnipotenza non l’hanno vissuto mai, perché, ancora piccoli piccoli, hanno incontrato saperi artigianali, numeri, parole, equazioni e frasi che avevano un sentore sinistro e un significato irraggiungibile. Anche per quelle persone il corpo era forte e la mente era libera, ma lo stesso certi nodi restavano a dare loro il senso del limite e della difficoltà. Ma anche il desiderio di superarlo. E in quel desiderio, prima inconscio e poi gradatamente più cosciente, il tempo è un alleato: col tempo saperi artigianali, numeri, parole, equazioni e frasi una volta sinistri esplodono il loro significato in un nuovo reticolo di senso. Da un luogo nasce il desiderio di aprire un libro, dal libro una mappa, da una mappa di tornare al luogo, da un luogo a un altro luogo, da un altro a un altro ancora, e poi di nuovo alla mappa e dalla mappa al libro. Niente più rimpianto, ma ricordo di ciò che si era stati per diventare quel che si è, ricordo di un anno passato per vivere più in profondità l’anno presente.
sabato, aprile 17, 2010
domenica, aprile 11, 2010
Trame in fuga e altre ragioni per una pausa
Qualche giorno di pausa. Nei giorni scorsi questo è stato un diario muto. Senza cercarne altri, questo è già un fatto. Può essere casuale, forse lo è, a molto non c’è spiegazione. Ma io sono un uomo e gli uomini fanno solo una cosa dall’inizio alla fine: scovano le ragioni più nascoste delle cose che a loro succedono e si raccontano storie per spiegarli. Inutile sfuggire a questa tentazione.
Di certo non è successo poco. Anzi direi proprio il contrario. Le ore sembravano abbracciarsi fino a fondersi tanto ciò che sarebbe successo dopo incombeva su quanto era in corso. Ma la mancanza di tempo non è mai una ragione accettabile per una frase non scritta. Il desiderio di raccontare e raccontarsi è un’emergenza e proprio nelle emergenze si scrive di più: le pause servono per studiare, mentre per scrivere va bene anche un blocco note stropicciato appoggiato su un cuscino nei cinque minuti che si rubano al sonno che pesa sulle palpebre. In quella calligrafia incerta finiranno le frasi migliori, quelle che devono uscire dalla mente per poter avere il riposo vero.
Uno dei problemi è un altro. Quando una rete di piaceri ti abbraccia ammiccante sera dopo sera e dopo giorno, la tua distanza critica tende un po’ ad ammollirsi. In gran parte il piacere sta proprio lì: si vive nel momento, ci si lascia assorbire da esso in un unico respiro come un maestro di yoga: il tempo della riflessione produce memoria che si sente il dovere di raccontare, mentre il tempo del piacere produce un presente che si può solo vivere.
Poi c’è una forma di rispetto e di pudore. Un gruppo che si diverte è come se avesse firmato un segreto accordo, una fratellanza del silenzio. Il calice che si alza per brindare all’abbattimento delle barriere interne è al contempo un vessillo che tiene lontani coloro che non sono lì in quell’attimo. Chi ti è attorno si rivela a te, ti sceglie come un privilegiato, ti regala un dono e ti investe della responsabilità di renderlo esclusivo. Lo puoi schiudere, se vuoi, ma solo di fronte a un rito simile a quello che l’ha generato. Nell’eternità della parole scritta, invece, il dono rivelato assume le forme di un tradimento inaspettato: chi del gruppo legge le tue parole sente forte il desiderio di misconoscerle, non per la loro distanza dal vero ma per la loro inaspettata esistenza.
E infine c’è un altro ostacolo, forse più alto di quelli precedenti. Nel mercato degli incontri come voci da una bancarella decine di trame si dipanano. Ti sembra di seguirle con la consistenza e la nitidezza di una strada di asfalto in mezzo alla sabbia del deserto. E in effetti sono dirompenti e, quando qualcosa di nuovo ti accade, esse ritornano, abbracciano il nuovo fatto, rendono il senso del racconto più ricco e sfaccettato. Ma non puoi trattare quel senso con troppa fermezza: se di imperio ti fermi e decidi di metterlo su carta, il senso scompare. Ti sfugge l’inizio della frase a cui sorridente avevi ammiccato. Ogni trama vola via come un aquilone reciso.
E allora resti inerte. Osservi le creature fragili che la tua fantasia costruisce attorno alla tua vita e aspetti da esse un segnale per capire quando saranno sufficientemente mature per incontrare la tua coscienza senza fuggire pudiche e timorose.
Di certo non è successo poco. Anzi direi proprio il contrario. Le ore sembravano abbracciarsi fino a fondersi tanto ciò che sarebbe successo dopo incombeva su quanto era in corso. Ma la mancanza di tempo non è mai una ragione accettabile per una frase non scritta. Il desiderio di raccontare e raccontarsi è un’emergenza e proprio nelle emergenze si scrive di più: le pause servono per studiare, mentre per scrivere va bene anche un blocco note stropicciato appoggiato su un cuscino nei cinque minuti che si rubano al sonno che pesa sulle palpebre. In quella calligrafia incerta finiranno le frasi migliori, quelle che devono uscire dalla mente per poter avere il riposo vero.
Uno dei problemi è un altro. Quando una rete di piaceri ti abbraccia ammiccante sera dopo sera e dopo giorno, la tua distanza critica tende un po’ ad ammollirsi. In gran parte il piacere sta proprio lì: si vive nel momento, ci si lascia assorbire da esso in un unico respiro come un maestro di yoga: il tempo della riflessione produce memoria che si sente il dovere di raccontare, mentre il tempo del piacere produce un presente che si può solo vivere.
Poi c’è una forma di rispetto e di pudore. Un gruppo che si diverte è come se avesse firmato un segreto accordo, una fratellanza del silenzio. Il calice che si alza per brindare all’abbattimento delle barriere interne è al contempo un vessillo che tiene lontani coloro che non sono lì in quell’attimo. Chi ti è attorno si rivela a te, ti sceglie come un privilegiato, ti regala un dono e ti investe della responsabilità di renderlo esclusivo. Lo puoi schiudere, se vuoi, ma solo di fronte a un rito simile a quello che l’ha generato. Nell’eternità della parole scritta, invece, il dono rivelato assume le forme di un tradimento inaspettato: chi del gruppo legge le tue parole sente forte il desiderio di misconoscerle, non per la loro distanza dal vero ma per la loro inaspettata esistenza.
E infine c’è un altro ostacolo, forse più alto di quelli precedenti. Nel mercato degli incontri come voci da una bancarella decine di trame si dipanano. Ti sembra di seguirle con la consistenza e la nitidezza di una strada di asfalto in mezzo alla sabbia del deserto. E in effetti sono dirompenti e, quando qualcosa di nuovo ti accade, esse ritornano, abbracciano il nuovo fatto, rendono il senso del racconto più ricco e sfaccettato. Ma non puoi trattare quel senso con troppa fermezza: se di imperio ti fermi e decidi di metterlo su carta, il senso scompare. Ti sfugge l’inizio della frase a cui sorridente avevi ammiccato. Ogni trama vola via come un aquilone reciso.
E allora resti inerte. Osservi le creature fragili che la tua fantasia costruisce attorno alla tua vita e aspetti da esse un segnale per capire quando saranno sufficientemente mature per incontrare la tua coscienza senza fuggire pudiche e timorose.
sabato, aprile 10, 2010
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