Ascolto, raccolto, i piacevoli segnali che mi inviano i miei piedi e le mie caviglie, mentre mani amorevoli seguono vuoti e protuberanze delle articolazioni, cuscinetti di carne e spigoli ossei. Ogni cellula del mio corpo sembra accogliere con gioia quel movimento particolare che nasce senza sforzo, perché la fatica di produrlo è tutta nelle mani di chi con i suoi movimenti si accolla lo sforzo di scrollare dalla mente le sue preoccupazioni.
Scivolo silenzioso nel nocciolo dei miei pensieri e, preda del mio non perdonabile solipsismo, cerco di risolvere in un monologo le alchimie policentriche che regolano l'amore tra due persone, un dialogo per eccellenza. Quello che ricevo è un dono: un flusso che non pretende ritorno, di affetto, desiderio, tenerezza, passione, tatto, calore e, soprattutto, di tempo, scelto di vivere al mio fianco anche lì in quel momento qualunque in cui sono solo uno panno stropicciato dalle fatiche del giorno.
E' questo dono che si chiama amore? E da dove viene, da una generazione spontanea dell'inconscio o da una costruzione quotidiana? Può solo nascere perfetto nel suo primo giorno o è una forma che si plasma con piccoli ritocchi giorno dopo giorno? E se così è, se ci vuole un impegno costante, si può ritenere un amore puro solo quello che è frutto di un impegno sempre piacevole o è lecita anche la tenacia che aggira le difficoltà?
Mentre le mani di chi mi ama continuano a iniettarmi la vita, penso piano, per non disturbare, per non offendere. Forse infatti quelle mani che non chiedono nulla, non sarebbero felici di essere oggetto di tante domande. Sono un dono e un dono desidera solo essere accettato come un'aggiunta che nulla toglie.
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