La strada, già stretta, si restringe ancora. Sale conficcata tra le lastre di arenaria, seguendo le curve della montagna. Tutto attorno alberi e campi che, a ottobre, la sera, si confondono in una nebbia appiattente. Un cartello scritto a mano sulla sinistra indica Quarto. Forse la valle è vicina, ma così non appare. A fianco di un campanile, poco di fronte a me, un signore cammina con il suo cane: veste stivali di plastica, pantaloni sporchi, maglione grosso. Ha un aspetto più balcanico che romagnolo. Non è romagnolo. E' di lì, di quella terra in mezzo ai monti, poche case, molti orizzonti.
“Castel d'Alfero è più indietro?”, domando. “Per caso lì dove c'era un cartello giallo con la scritta santuario?”.
“Quello è Castel d'Alfero” risponde lui. Non aggiunge altro e prosegue verso un recinto semi aperto.
Giro l'auto: di nuovo non ho la sensazione di lasciarmi indietro la Romagna orientale ma la Serbia centrale. Ritorno sui mie passi, vicino al cane che guarda ma non abbaia.
Parcheggio qualche chilometro oltre, a fianco di una catasta di porfido. Lì sulla sinistra vedo finalmente Castel d'Alfero. Lascio l'auto e imbocco la mulattiera che si insinua tra il vecchio borgo diroccato, un enclave di Sarsina nel vergheretino. Nei capitelli intravedo i simboli delle maestranze del cinquecento che eressero quei muri in pietra. Se sono lì è soprattutto perché ho sentito parlare di loro: mi hanno incuriosito.
Contro il tempo che avanza trascinato dall'oscurità continuo a camminare tra le spettro di case che furono. La strada è già un po' lontana. Alfero a qualche chilometro. Il resto, lì, è come se non esistesse.
1 commento:
Bravo come sempre a descrivere luoghi e sensazioni, fallo più spesso, la tua terra è fantastica.ti saluto
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