Giorno di Natale, chiesa gremita. Il vecchio frate prende posto nello stanzino in fondo alla cappella per celebrare il sacramento della confessione. Di fronte all'ingresso si crea subito una lunga fila di fedeli. Quelli più esperti sanno che l'attesa sarà lunga: il religioso ha la parlantina facile e fa scorrere molte parole prima di impartire l'assoluzione.
Si fa infine il mio turno. L'uomo in saio mi domanda cosa faccio. Rispondo concludendo la lista con le visite guidate in programma nel prossimo anno: “Una sarà anche qui al santuario” aggiungo. Il rituale si rompe. Il frate alza lo sguardo e mi incalza per saperne di più. “Sai – mi dice – qui abbiamo cinquantamila visitatori all'anno. Mi interessano questi interventi”.
Il dialogo prosegue fino nei dettagli, quasi irrispettosamente verso la calca che intanto si accumula all'esterno. Domande su domande si susseguono, fino a quando il confessore capisce infine che ora di tornare al sacramento. “Comunque – mi dice – se qualcuno ti riferisse di aver sentito da me ciò che mi hai appena detto, vorrebbe dire che qualcun altro me ne ha parlato, perché come sai ciò che tu m i stai dicendo ora sarà destinato a rimanere tra le nostre anime. Insomma, se la contattassi, sarebbe perché altri mi avrebbero informato. Mi capisce?”.
“Padre – lo interrompo – la capisco benissimo. Però se desidera un recapito, credo di poterla soddisfare”.
“Certo mi aiuterebbe” risponde lui sotto voce.
Gli allungo allora il mio biglietto da visita, che lui ricambia annotando il numero dell'eremo: “Chieda del più anziano – mi dice – vedrà che capiranno”.
Chiedo perdono per questa fuga di notizie, ma come il frate disse: “Chi ha la penna a volte esagera, ma spesso solo per giusta passione”.
Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
mercoledì, dicembre 26, 2007
domenica, dicembre 16, 2007
Il caffè, il vigile e la multa
C’è un cliente in divisa ogni martedì mattina nel bar di viale Roma. Entra un attimo per ritemprarsi dal freddo della strada, posa il cappello e ordina un caffè. Le ragazze al banco servono il vigile con il sorriso sulle labbra, lo accolgono come uno di casa: insieme scherzano per qualche minuto. Poi cala un attimo di silenzio: l’ufficiale prende la penna, completa i cambi del verbale e, con lo stesso sorriso di prima, si rivolge alle ragazze al banco: “Sono 250€ anche questa settimana” dice loro.
Succede tutte le settimane. Il bar rimane aperto anche nel suo giorno di chiusura e il vigile passa per depositare il suo verbale. Martedì dopo martedì.
Succede tutte le settimane. Il bar rimane aperto anche nel suo giorno di chiusura e il vigile passa per depositare il suo verbale. Martedì dopo martedì.
giovedì, dicembre 06, 2007
Continua l'epopea digitale di Pianbaruzzoli
Il ritorno di Giambardo a Pianbaruzzoli, ovvero la ricongiunzione tra il fondatore e la sua comune autogestita nella valle dell'Acquacheta, risale ormai a più di un anno fa: era il novembre 2006. Tanto è passato dal giorno in cui l'uomo tornò alla sua vecchia casa per farne una fondazione e portare a termine il suo sogno di bene collettivo.
La leggenda attorno a quel luogo, però, continua a propagarsi. Il blog "Selvatici", infatti, dedica a sua volta un lungo post, o meglio una lunga citazione, alla storia degli Zappatori senza terra dell'Acquacheta. Il post porta una data recente: 12 ottobre 2007.
La leggenda attorno a quel luogo, però, continua a propagarsi. Il blog "Selvatici", infatti, dedica a sua volta un lungo post, o meglio una lunga citazione, alla storia degli Zappatori senza terra dell'Acquacheta. Il post porta una data recente: 12 ottobre 2007.
martedì, dicembre 04, 2007
domenica, dicembre 02, 2007
Quando l’idea è più forte dell’indizio che la contraddice
I tre viandanti marciavano in direzione nord, costeggiando il torrente che scorreva più a valle sulla loro destra. Erano ormai nella parte finale dell’anello studiato più e più volte durante il mattino. Restava da affrontare solo l’ultima erta, che li avrebbe condotti al crinale e da lì, in pochi passi, al punto di partenza. Cartina alla mano, tra loro e la fine della salita, mancava solo un bivio: la strada a sinistra terminava su un rudere; la strada a destra, quella corretta, arrivava invece sulla sommità al complesso di casa con parrocchia attraversato dalla carrareccia.
Il rudere e il bivio sulla sinistra, però, non arrivarono mai. Forse in quella basse valle il contadino aveva rimosso la strada per arare un nuovo campo. L’errore di valutazione dei viandanti nacque da lì. Alzarono gli occhi alla cima della collina e si convinsero che il complesso sul crinale, termine ultimo della loro salita, fosse in realtà il rudere segnalato dalla cartina a mezza costa. Prima di raggiungerlo avrebbero dovuto quindi svoltare sulla destra. Iniziarono a cercare quella deviazione, tra boschi e pascoli, tra campi percorsi avanti e indietro. L’oscurità si avvicinava ma il loro vagare non trovava soluzione.
Seguirono allora la strada principale, quella meglio tenuta. Gli indizi a fianco della via avrebbero potuto segnalare al gruppo la loro corretta posizione, ma i tre erano convinti di essere altrove e quelle evidenze furono per loro inutili. I tre allora continuarono a marciare, certi che, tenendo la loro destra, avrebbero raggiunto prima o poi la meta. Tennero la destra una, due, tre volte, su bivi ignoti, disorientati da segnali che per loro non dovevano esistere.
Infine si imbatterono nel casolare raggiunto al mattino. Tutto d’improvviso fu chiaro. I ruderi ripresero il loro nome, i segnali ripresero la loro coerenza, la rotta seguita si materializzò sulla carta. I viandanti ritornarono sui loro passi e in breve ritornarono al punto di partenza.
Tuttora i tre sono incerti nel capire l’origine del loro errore. La stoltezza della valutazione dell’uno e la facilità con cui il suo errore si impose nella mente degli altri. Fu un piccolo delirio collettivo: una fede errata si radicò in loro così profondamente che il mondo da loro pensato prese il sopravvento sul mondo da loro attraversato. Ciò che vedevano non erano più ciò che esisteva ma ciò che per loro avrebbe dovuto essere. Nessun indizio contrastante bastò loro per testimoniare l’errore nella teoria di partenza.
Il rudere e il bivio sulla sinistra, però, non arrivarono mai. Forse in quella basse valle il contadino aveva rimosso la strada per arare un nuovo campo. L’errore di valutazione dei viandanti nacque da lì. Alzarono gli occhi alla cima della collina e si convinsero che il complesso sul crinale, termine ultimo della loro salita, fosse in realtà il rudere segnalato dalla cartina a mezza costa. Prima di raggiungerlo avrebbero dovuto quindi svoltare sulla destra. Iniziarono a cercare quella deviazione, tra boschi e pascoli, tra campi percorsi avanti e indietro. L’oscurità si avvicinava ma il loro vagare non trovava soluzione.
Seguirono allora la strada principale, quella meglio tenuta. Gli indizi a fianco della via avrebbero potuto segnalare al gruppo la loro corretta posizione, ma i tre erano convinti di essere altrove e quelle evidenze furono per loro inutili. I tre allora continuarono a marciare, certi che, tenendo la loro destra, avrebbero raggiunto prima o poi la meta. Tennero la destra una, due, tre volte, su bivi ignoti, disorientati da segnali che per loro non dovevano esistere.
Infine si imbatterono nel casolare raggiunto al mattino. Tutto d’improvviso fu chiaro. I ruderi ripresero il loro nome, i segnali ripresero la loro coerenza, la rotta seguita si materializzò sulla carta. I viandanti ritornarono sui loro passi e in breve ritornarono al punto di partenza.
Tuttora i tre sono incerti nel capire l’origine del loro errore. La stoltezza della valutazione dell’uno e la facilità con cui il suo errore si impose nella mente degli altri. Fu un piccolo delirio collettivo: una fede errata si radicò in loro così profondamente che il mondo da loro pensato prese il sopravvento sul mondo da loro attraversato. Ciò che vedevano non erano più ciò che esisteva ma ciò che per loro avrebbe dovuto essere. Nessun indizio contrastante bastò loro per testimoniare l’errore nella teoria di partenza.
lunedì, novembre 26, 2007
venerdì, novembre 23, 2007
L’uomo (a cavallo) dei mercati
Il figlio scese dall’auto di corsa per salutare il nonno nella vecchia bottega di famiglia nel centro città. Era ancora un bambino e doveva ancora arrivare alla prima elementare, ma il padre pensava già a come si sarebbe dovuto comportare per insegnargli ciò che la scuola non gli avrebbe detto. Non gli avrebbe impedito di attraversare mezza Europa solo per ubriacarsi a un concerto, ma l’avrebbe costretto a immergersi in modo più profondo nella realtà straniera che avrebbe visitato.
Quando il bambino scomparve dietro la porta di ingresso, il padre si accese una sigaretta e alzò il volume dell’autoradio nell’auto ancora accesa. Pensò a quando, pochi anni prima, apriva filiali bancarie in tutto il nord, compiacendosi delle royalties che facevano schizzare alle stelle il proprio conto corrente. Cavalcare l’onda dei mercati finanziari, prevedere un balzo in avanti all’apertura delle borse asiatiche, era una sfida che gli riempiva il sangue di adrenalina. Cercando di prevedere il futuro, aveva imparato a capire il mondo. Ogni giorno l’uomo apriva i quotidiani finanziari e leggeva ciò che l’articolista non sapeva o non poteva scrivere. Lo faceva ancora, benché quel mondo non fosse più il suo e gli avesse tolto gran parte di ciò che gli aveva dato.
“Il nonno ti saluta e ha detto di fargli sapere come sta andando al lavoro?” irruppe il figlio interrompendo quei pensieri e risaltando a bordo. “E’ un lavoro come un altro – pensò il padre – poco più di mille euro al mese”. Sistemò la cintura al bambino e insieme viaggiarono verso la casa di famiglia in campagna, dove, di nuovo insieme, avrebbero perpetrato la tradizione dell’allevamento di cavalli da corsa. La vita riprendeva il suo corso, forse quello che non avrebbe mai dovuto lasciare.
Quando il bambino scomparve dietro la porta di ingresso, il padre si accese una sigaretta e alzò il volume dell’autoradio nell’auto ancora accesa. Pensò a quando, pochi anni prima, apriva filiali bancarie in tutto il nord, compiacendosi delle royalties che facevano schizzare alle stelle il proprio conto corrente. Cavalcare l’onda dei mercati finanziari, prevedere un balzo in avanti all’apertura delle borse asiatiche, era una sfida che gli riempiva il sangue di adrenalina. Cercando di prevedere il futuro, aveva imparato a capire il mondo. Ogni giorno l’uomo apriva i quotidiani finanziari e leggeva ciò che l’articolista non sapeva o non poteva scrivere. Lo faceva ancora, benché quel mondo non fosse più il suo e gli avesse tolto gran parte di ciò che gli aveva dato.
“Il nonno ti saluta e ha detto di fargli sapere come sta andando al lavoro?” irruppe il figlio interrompendo quei pensieri e risaltando a bordo. “E’ un lavoro come un altro – pensò il padre – poco più di mille euro al mese”. Sistemò la cintura al bambino e insieme viaggiarono verso la casa di famiglia in campagna, dove, di nuovo insieme, avrebbero perpetrato la tradizione dell’allevamento di cavalli da corsa. La vita riprendeva il suo corso, forse quello che non avrebbe mai dovuto lasciare.
martedì, novembre 13, 2007
In volo sul poggio di San Donnino
giovedì, novembre 08, 2007
Cane sciolto e l’eco infinita del diario di Sassello
“Quanto strana questa Arte della Scrittura possa essere parsa alla sua prima Invenzione, possiamo capirlo da quegli Americani scoperti recentemente, che erano sorpresi di vedere gli Uomini conversare con i Libri, e faticavano a credere che la Carta potesse parlare...”
(John Wilkins – Mercuri, Or the Secret and Swift Messenger”)
(John Wilkins – Mercuri, Or the Secret and Swift Messenger”)
Non fu certo per necessità interiore che Jacopo 617 mise mano alla penna il 17 aprile del 2005. Probabilmente fu solo per noia. Quel giorno, come tanti altri in precedenza, era salito da solo fino al bivacco di Sassello (immagini). Si sentiva a suo agio in quella casa a metà: perfettamente integra a nord, monca a sud, dove i tedeschi, nel corso di un rastrellamento, avevano appiccato un incendio. Jacopo era arrivato fin lassù senza alcun proposito, attraversando boschi e pascoli solo per la voglia di andare avanti fino a una meta, fino a un posto come un altro. Scelse Sassello perché era il posto più vicino alla sua rotta e perché ormai rivedere quella stanza con il grande camino, il tavolo in legno al centro e la scala per il soppalco, era un po’ come rivedere casa. Quando Jacopo finì la marcia e varcò la soglia si sentì però a corto di senso: non sapeva come riempire il suo tempo lì tra piante colorate dai primi accenni di fioritura.
Fece allora ciò che lui, falegname, non era solito fare. Prese la penna e inaugurò un diario. Sulla prima pagina di un quaderno a righe dalla copertina rigida ripensò ai due daini che aveva incontrato poco prima lungo la salita da Valbonella. Scrisse ciò che secondo lui aveva pensato l’animale maschio: scrisse che la bestia aveva probabilmente provato gioia nel mostrare il proprio palco agli occhi invidiosi dell’uomo. Jacopo raccontò tutti i particolari dell’incrocio di sguardi tra sé e la coppia di daini, dicendo anche che il suo essere lì, così casuale, lo faceva sentire un po’ un cane sciolto. Scrisse tutto ciò e poi ripose il quaderno sul piccolo tavolo a fianco dell’ingresso.
I messaggi che vengono inviati al mondo spesso si perdono nel fruscio di fondo, mentre quello di Jacopo, abbandonato nel vuoto di Sassello, si propagò nell’aria del rifugio fino a generare un’eco. Stefano lo intercettò alcuni giorni dopo, il 24 aprile del 2005. Leggendo le frasi di cane sciolto scelse di mettere a sua volta mano alla penna. Si sentì in dovere di consolare la malinconia che lui riconduceva a quello pseudonimo. Allora, firmandosi a sua volta "cane sciolto", scrisse che il daino probabilmente non era inorgoglito per il proprio palco, ma invidioso per la libertà dell’uomo: l’animale si vergognava di essere stato scoperto lì in quel pascolo in cui era andato solo per nutrire la sua compagna e invidiava il viandante che poteva invece prendere la direzione che più preferiva, su fino al rifugio di Sassello o giù di nuovo verso Valbonella.
Il dialogo tra i due cani solitari per un lungo anno naufragò anonimo tra i commenti di routine che i passanti casuali lasciavano sul diario, riposto sempre sullo stesso tavolino a fianco dell’ingresso. Ma né il tempo, né il caos cancellarono l’eco delle parole iniziali di Jacopo. Un anno dopo, nell’aprile del 2006, Jessica volle imporre la propria voce di donna su quei lamenti maschili: “Cari uomini sconsolati – scrisse Jessica al centro di un lungo intervento – chi vi parla è una donna che come voi ama la libertà. Quello che vi voglio dire è semplicemente che essere liberi non significa necessariamente essere soli. Quello che affermate è solo una maschera che vi portate per nascondere la vostra mancanza”.
Forse Jacopo, firmandosi “cane sciolto”, non pensava alla propria solitudine. Forse Stefano aveva sbagliato a leggerla come tale e a elogiarla. E forse non aveva avuto senso la lunga critica ai due uomini lanciata da Jessica. Ma questo oggi non importa più molto, perché l’eco della parola scritta che si propaga nel vuoto di Sassello prosegue la sua marcia senza più timore di rimanere fedele al grido da cui era partita.
martedì, ottobre 30, 2007
domenica, ottobre 14, 2007
Il soldato brasiliano che morì sulla via del ricordo
Il ritmo di samba non pulsava più nelle vene. Il respiro del soldato brasiliano, macchiato di sangue e fango, seguiva il suono interno e tambureggiante della paura. Attorno a lui c’erano solo simboli di una geografia ignota: querce e carpini spogli per l’inverno, ripidi crinali calanchivi, masi diroccati dai bombardamenti. Non c’era nulla che parlasse di casa, di spiagge e di foreste tropicali. Non c’era nulla che aiutasse il soldato a rispondere alle sue domande. Dentro di lui, gli interrogativi si intrecciavano convulsi, nella foga di una morte che poteva arrivare assieme al sibilo dello sparo successivo. Cosa ci faceva lui tra i boschi di Semelano? Cosa c’entravano lui e i suoi amici dalla pelle creola con i Tedeschi che avevano invaso l’Appennino emiliano e con gli Italiani che avevano cambiato bandiera una volta ancora? Perché ora erano lì in prima linea tra le fila dell’esercito alleato? Gli ordini iniziali erano diversi: loro, i brasiliani, sarebbero dovuti rimanere fermi nelle seconde linee, solo con responsabilità di appoggio. E invece erano lì alla ricerca del faccia a faccia col nemico a pochi di chilometri da Zocca.
Quando l’adrenalina della paura dava una tregua, la mente del soldato brasiliano cercava di tornare a ragionare come se di fronte avesse un futuro certo, o almeno probabile come quello di un uomo giovane e sano. Il militare latino si chiedeva allora se mai, una volta finita la guerra, avrebbe potuto amare quel luogo e quella gente. Si chiedeva se mai avrebbe avuto la capacità di ridere, ballare e mangiare al tavolo di quei contadini sconosciuti per la cui libertà stava rischiando la vita. Da uomo, si chiedeva, avrebbe avuto ancora qualcosa da spartire con quelle montagne lontane su cui il suo pazzo destino da soldato l’aveva spedito?
Sessant’anni dopo quel soldato brasiliano, ormai solo un vecchio reduce, entrò nell’aeroporto di Rio per cercare le risposte alle sue domande di guerra. Dopo otto ore, o giusto qualcosa in più, avrebbe infine rimesso piede in Europa, a Semelano, per commemorare le proprie gesta di oltre mezzo secolo prima. Finalmente avrebbe saputo se c’era ancora un legame tra lui e loro, tra lui e gli Emiliani.
Poche ore dopo, a dodicimila metri di altezza sulle acque dell’Atlantico, il cuore del soldato brasiliano si fermò. Morì sulla via del ricordo, pochi istanti prima di raggiungerlo.
Quando l’adrenalina della paura dava una tregua, la mente del soldato brasiliano cercava di tornare a ragionare come se di fronte avesse un futuro certo, o almeno probabile come quello di un uomo giovane e sano. Il militare latino si chiedeva allora se mai, una volta finita la guerra, avrebbe potuto amare quel luogo e quella gente. Si chiedeva se mai avrebbe avuto la capacità di ridere, ballare e mangiare al tavolo di quei contadini sconosciuti per la cui libertà stava rischiando la vita. Da uomo, si chiedeva, avrebbe avuto ancora qualcosa da spartire con quelle montagne lontane su cui il suo pazzo destino da soldato l’aveva spedito?
Sessant’anni dopo quel soldato brasiliano, ormai solo un vecchio reduce, entrò nell’aeroporto di Rio per cercare le risposte alle sue domande di guerra. Dopo otto ore, o giusto qualcosa in più, avrebbe infine rimesso piede in Europa, a Semelano, per commemorare le proprie gesta di oltre mezzo secolo prima. Finalmente avrebbe saputo se c’era ancora un legame tra lui e loro, tra lui e gli Emiliani.
Poche ore dopo, a dodicimila metri di altezza sulle acque dell’Atlantico, il cuore del soldato brasiliano si fermò. Morì sulla via del ricordo, pochi istanti prima di raggiungerlo.
venerdì, ottobre 12, 2007
Anche le macchine, a volte, non sanno cosa dire
Dal manuale Uso manutenzione, sicurezza di Opel Meriva (edizione agosto 2006):
"Spia controllo motore"
"L'accendersi della spia durante la marcia indica un guasto al motore o al cambio elettronico. In tal caso il sistema elettronico inserisce un programma di emergenza che può aumentare il consumo di carburante e pregiudicare le condizioni della vettura.
Qualche volta spegnere e riaccendere il motore può eliminare il guasto. Se, a motore avviato, la spia si illumina nuovamente, rivolgersi a un'officina (...).
Un breve e non ripetuto accendersi della spia luminosa controllo motore è priva di significato".
"Spia controllo motore"
"L'accendersi della spia durante la marcia indica un guasto al motore o al cambio elettronico. In tal caso il sistema elettronico inserisce un programma di emergenza che può aumentare il consumo di carburante e pregiudicare le condizioni della vettura.
Qualche volta spegnere e riaccendere il motore può eliminare il guasto. Se, a motore avviato, la spia si illumina nuovamente, rivolgersi a un'officina (...).
Un breve e non ripetuto accendersi della spia luminosa controllo motore è priva di significato".
lunedì, ottobre 08, 2007
A piedi tra i banchi di scuola
Si vede che la casa di Castel dell’Alpe è figlia di un progetto antico, retrodatabile al 1200. Le finestre interrompono la parete disponendosi lungo una diagonale, perché dentro ogni stanza è su un piano diverso. Attorno alla casa, però, non si vedono più gli indizi delle fortificazioni che avevano dato il nome al luogo. All’imbocco della strada, lungo la statale dei Tre Faggi, i cartelli – pannelli bianchi verdi con cornice di legno - parlano ancora dei ruderi della vecchia rocca e della vecchia botte. “Ma non è mica vero niente” ci ha detto la signora che abita lì da cinquantacinque anni. “Non so cosa faccia il comune: qui è crollato tutto nel seicento”.
E’ stata un po’ una delusione dopo la strada fatta per arrivare fin lì. Ma a volte il vuoto del luogo può lasciare più spazio alle voci delle persone che lo percorrono. Come riflette il sociologo francese David Le Breton, in un saggio dedicato al cammino (Il mondo a piedi, Feltrinelli), “si cammina anche per scrivere, raccontare, cogliere delle immagini, cullarsi in dolci illusioni, accumulare ricordi e progetti”. Sulle pendici del Monte Tiravento, nel crinale tra la valle del Bidente e quella del Rabbi, è stato il ricordo a farla da padrone. Il ricordo di scuola in particolare.
Il viaggio a ritroso tra le memori degli escursionisti è partito in una seconda ragioneria di quasi vent’anni fa. Alberto M. – raccontano i suoi vecchi compagni di classe – sostenne allora in un’interrogazione di storia che Plinio il Vecchio, il celebre naturalista latino, fosse morto assiderato sotto l’eruzione del Vesuvio. Chissà se Plinio, morto in realtà a causa dell’asma, rise a quella risposta. Certo è che non lo fece l’insegnate che a fine anno fece bocciare l’allievo. Fu un brutto schiaffo per il giovane Alberto che però reagì prendendo a calci il pallone, su su fino al Napoli di Maradona e Ciro Ferrara.
Senza un epilogo così glorioso fu invece il difficile percorso da obiettore di coscienza di un geometra della bassa forlivese. Il suo percorso fu travagliato dall’inizio. La posta non gli recapitò la comunicazione di inizio servizio e i carabinieri giunsero puntuali a casa sua per portarlo in caserma e chiedere lumi sull’accaduto. Nulla più che un accertamento di routine. Sfortunatamente, però, una comare alla finestra diffuse la notizia del suo presunto arresto prima che l’interessato potesse tornare a smentirla. E, nelle piccole comunità, si sa, le etichette sono più appiccicose che altrove. E, chissà, le malelingue contribuirono con le loro maledizioni a portare il geometra in un posto difficile come la casa di riposo del cesenate dove pochi giorni dopo approdò. Fu lì, ancora adolescente, che realizzò per la prima volta che le persone invecchiavano e che ai colpi del tempo qualcuno aggiungeva anche i propri. Vide tutto il giorno in cui un’anziana signora malata di Parkinson fu bloccata con le mani e la bocca sporche del pongo utilizzato per il Gesù bambino del presepe. E ascoltò tutto, quando l’infermiera reagì all’emergenza chiedendo alla sua superiore: “Ma ora che ha mangiato Gesù, gliela devo dare lo stesso la merenda?”.
E’ stata un po’ una delusione dopo la strada fatta per arrivare fin lì. Ma a volte il vuoto del luogo può lasciare più spazio alle voci delle persone che lo percorrono. Come riflette il sociologo francese David Le Breton, in un saggio dedicato al cammino (Il mondo a piedi, Feltrinelli), “si cammina anche per scrivere, raccontare, cogliere delle immagini, cullarsi in dolci illusioni, accumulare ricordi e progetti”. Sulle pendici del Monte Tiravento, nel crinale tra la valle del Bidente e quella del Rabbi, è stato il ricordo a farla da padrone. Il ricordo di scuola in particolare.
Il viaggio a ritroso tra le memori degli escursionisti è partito in una seconda ragioneria di quasi vent’anni fa. Alberto M. – raccontano i suoi vecchi compagni di classe – sostenne allora in un’interrogazione di storia che Plinio il Vecchio, il celebre naturalista latino, fosse morto assiderato sotto l’eruzione del Vesuvio. Chissà se Plinio, morto in realtà a causa dell’asma, rise a quella risposta. Certo è che non lo fece l’insegnate che a fine anno fece bocciare l’allievo. Fu un brutto schiaffo per il giovane Alberto che però reagì prendendo a calci il pallone, su su fino al Napoli di Maradona e Ciro Ferrara.
Senza un epilogo così glorioso fu invece il difficile percorso da obiettore di coscienza di un geometra della bassa forlivese. Il suo percorso fu travagliato dall’inizio. La posta non gli recapitò la comunicazione di inizio servizio e i carabinieri giunsero puntuali a casa sua per portarlo in caserma e chiedere lumi sull’accaduto. Nulla più che un accertamento di routine. Sfortunatamente, però, una comare alla finestra diffuse la notizia del suo presunto arresto prima che l’interessato potesse tornare a smentirla. E, nelle piccole comunità, si sa, le etichette sono più appiccicose che altrove. E, chissà, le malelingue contribuirono con le loro maledizioni a portare il geometra in un posto difficile come la casa di riposo del cesenate dove pochi giorni dopo approdò. Fu lì, ancora adolescente, che realizzò per la prima volta che le persone invecchiavano e che ai colpi del tempo qualcuno aggiungeva anche i propri. Vide tutto il giorno in cui un’anziana signora malata di Parkinson fu bloccata con le mani e la bocca sporche del pongo utilizzato per il Gesù bambino del presepe. E ascoltò tutto, quando l’infermiera reagì all’emergenza chiedendo alla sua superiore: “Ma ora che ha mangiato Gesù, gliela devo dare lo stesso la merenda?”.
lunedì, ottobre 01, 2007
Loop informativo: dal blog a Radio2 e ritorno
La ragazza ha parlato al ragazzo del blog dell’amico. La ragazza ha poi parlato all’amico del programma del ragazzo. La sua idea era di far parlare nel programma del ragazzo del blog dell’amico. Ciò è avvenuto: il ragazzo ha intervistato nel suo programma l’amico della ragazza facendogli domande sul blog che scriveva. Ora completo il ciclo, collegando da qui il file audio del programma dell’amico dove abbiamo parlato di questo blog. Insomma, per usare frasi tecniche, un ottimo esempio di loop informativo tra personal media e broadcaster.
Buon ascolto di Versione Beta andato in onda su Radio 2 sabato 29 settembre a partire dalle 10.30 (l'intervista è pochi istanti dopo la sigla iniziale):
Buon ascolto di Versione Beta andato in onda su Radio 2 sabato 29 settembre a partire dalle 10.30 (l'intervista è pochi istanti dopo la sigla iniziale):
venerdì, settembre 21, 2007
Contributi? Volerli versare non è sufficiente
"Non è difficile guadagnare soldi" disse.
"Ma guadagnare dedicandosi a qualcosa di utile".
(Carlo L. Zafon - L'ombra del vento)
"Ma guadagnare dedicandosi a qualcosa di utile".
(Carlo L. Zafon - L'ombra del vento)
Mi dispiace un po’ affrontare l’argomento. Mi dispiace un po’ aver trascorso sei mesi in Australia parlando solo di persone e tornare in Italia e finire a scrivere di fisco. E’ una materia che odio e che tralascerei sempre. Però il destino mi ha sottoposto una piccola serie di sventure, che mi è troppo “divertente” per essere taciuta, soprattutto perché la serie non è poi così corta.
I fatti sono questi.
Per ricondurre a un’unica modalità di pagamento tutte le sue collaborazioni, il piccolo giornalista apre la sua attività autonoma con partita Iva nel gennaio del 2006. All’epoca non è ancora iscritto all’ordine dei giornalisti e la sua cassa previdenziale diventa dunque la gestione separata dell’Inps. La sua situazione cambia dopo circa sette mesi, precisamente il 22 luglio, quando il suo nome viene aggiunto all’elenco dei pubblicisti dell’ordine di Bologna. Il piccolo professionista adempie alle spese burocratiche per la pratica, ma trascura un particolare relativo alla sua posizione contributiva: ignora che, stante il suo nuovo statuto, da quel giorno in avanti per lui vige l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dell’Inpgi, ovvero la cassa previdenziale dei soli giornalisti.
L’errore rimane nell’ombra a lungo. Non succede nulla negli ultimi mesi del 2006, mentre il giornalista prosegue la sua attività nel bolognese, né nel 2007 quando lo stesso trascorre un lungo periodo in Australia. L’errore rimane nascosto anche nel luglio 2007, quando il commercialista effettua, a termini di legge, la dichiarazione dei redditi relativi all’anno precedente. I contributi vengono calcolati secondo le aliquote Inps e, proprio a questa cassa, il 18 luglio il commercialista versa la prima rata delle tre in cui si era deciso di scindere il pagamento per meglio fronteggiare la spesa (ingente).
Un paio di settimane dopo quella data il giornalista rimette piede in patria e, scorrendo la corrispondenza del semestre precedente, nota una missiva dell’associazione stampa italiana che gli ricorda, stante la sua iscrizione all’ordine, l’obbligo del versamento dei contributi provenienti da attività giornalistica alla gestione separata dell’Inpgi. Il giornalista fiuta l’omissione, telefona alla sede romana del proprio istituto di previdenza sociale, dal quale arriva la conferma che i contributi maturati successivamente all’iscrizione dell’ordine devono effettivamente andare all’Inpgi. La telefonata avviene nei primi giorni d’agosto: per il giornalista inadempiente sembra che tutto si possa risolvere agilmente avviando la pratica di iscrizione all’Inpgi, versando in tale cassa i contributi per il periodo luglio-dicembre 2007, e richiedendo successivamente il rimborso dei contributi in eccesso versati all’Inps. L’unico inconveniente sembra sul momento una mora sull’acconto dell’anno precedente non pagato all’Inpgi a causa della mancata iscrizione.
In realtà però la situazione non è così semplice. Il commercialista di rientro a Bologna fa notare che la dichiarazione dei redditi è unica e che l’iscrizione a una cassa professionale comporta solitamente la cancellazione dalla gestione separata dell’Inps. Il giornalista si reca allora all’Inps per sottoporre la questione, naviga attraverso tre sportelli e alla fine arriva all’ufficiale preposto. Questi parla anche direttamente con il commercialista, che a sua volta si informa con l’Inps di Bologna, e tutti insieme concludono che l’Inps non ne deve più sapere nulla. Il giornalista, che nel frattempo si è iscritto alla sua nuova cassa, chiama la stessa per un paio di delucidazioni in merito alla compilazione del modulo per la dichiarazione dei redditi. Ottiene le sue risposte e alla fine conclude affermando che presto invierà il modulo in questione con tutti i redditi del 2006, come concordato con l’Inps. La risposta è un’accusa malcelata di infermità mentale. La signorina al telefono, che può parlare solo con me e non con il mio fiscalista (perché?), mi dice che l’Inpgi è tenuta a ricevere soli i contributi relativi ai redditi maturati successivamente alla mia iscrizione.
E’ l’impasse. Il giornalista, ormai alterato, chiama di nuovo il suo commercialista, che rimane basito a sua volta. Il commercialista si offre di chiedere informazioni ad altri colleghi e dà al giornalista il numero dell’Inps di Bologna per un ulteriore accertamento. Il giornalista si improvvisa a sua volta fiscalista, chiama l’Inps di Bologna e spiega, cercando di essere chiaro e sintetico, la sua situazione. L’ufficiale dall’altra parte della cornetta avvalla questa volta la volontà Inpgi. Se loro vogliono solo i mesi successivi all’iscrizione, loro devono avere quelli e solo quelli; i precedenti rimangono all’Inps. L’ufficiale mi dice che chi mi cura la dichiarazione dei redditi si deve limitare a scindere il reddito in due righe: una con il reddito del primo semestre, l’altro con il reddito del secondo semestre. Al primo valore corrisponderà un F24 per il versamento dei contributi all’Inps, al secondo invece un F24 per il versamento dei contributi all’Inpgi. L’ufficiale, sentendo il mio smarrimento di fronte alla proliferazione dei moduli, mi consola dicendo che, in caso di iscrizione a doppia cassa, l’Inps applica una tariffa agevolata.
Il commercialista, sentendo il mio resoconto, mi ripete che la cosa gli continua ad apparire strana, perché, spiega, il modello unico non prevede distinzioni interne al lavoro autonomo. Però ammette di poter procedere in tale senso se quello è ciò che ritengo giusto. Siccome quello sembra l’unico modo per soddisfare l’Inpgi senza evadere i sei mesi precedenti, la risposta è “sì”. Ovviamente senza certezza di essere nel giusto.
Ma non è finita qui.
Mentre il giornalista è al telefono con l’Inpgi e l’Inps, la banca lo contatta con urgenza per segnalargli di aver bloccato i pagamenti delle due rate contributive spettanti all’Inps. I pagamenti erano infatti andati avanti regolarmente perché contenevano anche l’Irpef, comunque obbligatoria a prescindere dalla cassa di appartenenza. La ragione dello stop è una discordanza tra il mio codice fiscale in loro possesso e il mio codice fiscale inserito nel modulo F24 elettronico. L’errore in effetti sussiste. Chiamo quindi il commercialista per comunicargli l’avvenuto e invitarlo a ripetere la procedura. Il commercialista ravvede l’errore, ma mi fa notare che lo stesso codice fiscale errato era anche nel pagamento effettuato il 18 luglio. Chiamo allora la banca per sapere perché in quell’occasione il pagamento era stato avvallato e la risposta, dopo un’attesa di circa trenta minuti, è la seguente: un errore della macchina.
Sorrido. Sfighe ben più assurde capitate ad amici mi dicono che in fondo non è nulla di grave.
Comunque, in attesa di capire se la quelle Inpgi/Inps è al termine, la mia situazione risulta la seguente. Il mio primo versamento effettuato all’Inps (forse erroneamente) il 18 luglio è partito dal mio controcorrente, ma all’Inps non risulta a causa del codice fiscale errato, che ora il commercialista dovrà cambiare recandosi direttamente all’agenzia delle entrate. Quanto alle altre due rate (forse sbagliate), a causa dell’invio ritardato, sono partite dal mio controcorrente rincarate con mora. Insomma, niente è sicuramente giusto.
Ciò che rende divertente tutto questo è l’ammontare di soldi spesi in telefono, il tempo perso e le migliaia di euro versate senza alcuna certezza. A fronte di un errore mio, direte certo voi, ma solo fino a un certo punto ho invece capito io. Il conflitto tra Inps e Inpgi, infatti, che è la questione più annosa e che nel mio caso si è presentato per una ragione temporale (dilazione tra inizio attività e iscrizione ordine), si verifica anche ogni volta in cui un’attività non giornalistica si affianca a quella giornalistica. Ovvero spesso. Se per esempio uno opera da guida turistica o da muratore, l’Inpgi non vuole sapere nulla dei contribuiti derivanti da prestazioni non giornalistiche, richiedendo di nuovo, alla faccia dei principi di aggregazione che di solito regolano le casse, la scissione dei redditi da lavoro autonomi. Insomma, a chi ha la gestione separata dell’Inpgi di mezzo tocca quasi per forza l’iscrizione a una doppia cassa.
Considerazioni:
1) Al momento della pensione, tutti i contributi versati vengono aggregati in un’unica cassa. Perché allora tutta questa importanza nel versare i contributi da una parte e dall’altra?
2)Perché esistono le casse professionali (legate agli altrettanto inutili ordini)? Non sarebbe tutto più snello con un’unica cassa e la sola distinzione fondo per lavoratori dipendenti e fondo per lavoratori autonomi. Accade in Australia e anche in Algeria (cazzo, anche lì!).
3) A chi fatturo il tempo perso, i soldi spesi per il telefono e le more dovute a un regolamento ignoto anche agli addetti ai lavori?
Dopo aver ironizzato per molte righe sulla normativa fiscale italiana, mi dispiace ancora di più affrontare l’argomento. Mi dispiace cioè ricordare che, prima di lasciare l’Australia, ho effettuato online (da solo, senza commercialista) la richiesta per la restituzione dei contributi lì versati e, dopo due settimane, ho ricevuto indietro i soldi. Vorrei sottolineare questo punto: là non è stato facile versare i contributi, ma addirittura è stato facile riaverli indietro.
L’anno prossimo tenterò di evadere tutto. Non dovrebbe essere più difficile, né molto più costoso in caso di “sgamatura” di quanto lo sia stato la regolare dichiarazione di quest’anno.
martedì, settembre 04, 2007
La pace attorno al dolce
“Non ne sono sicuro” disse qualcuno con la saggezza delle canizie sulle tempie mentre guardava il banchetto nella piazza di Bocconi. Motociclisti senza fretta, escursionisti a piedi scalzi e signore con la gonna sotto le ginocchia mangiavano in piazza ciò che rimaneva della festa del giorno prima. Era stata baracca grossa, perché il Comune aveva reso omaggio alla bandiera arancione per la qualità della vita che il Touring Club Italiano gli aveva conferito poco prima.
“Non ne sono sicuro - ripeté in romagnolo il vecchietto con le canizie di fronte al quieto intreccio di quelle diverse tribù del tempo libero – ma secondo me, quando scoppiano le guerre, dovrebbero mettere un tavolo come questo al centro del campo di battaglia. Al dolce si fermerebbero già per fare la pace”.
Forse no, ma come disse qualcun altro, quel giorno la manna del cielo quel giorno era comunque caduta a Bocconi.
“Non ne sono sicuro - ripeté in romagnolo il vecchietto con le canizie di fronte al quieto intreccio di quelle diverse tribù del tempo libero – ma secondo me, quando scoppiano le guerre, dovrebbero mettere un tavolo come questo al centro del campo di battaglia. Al dolce si fermerebbero già per fare la pace”.
Forse no, ma come disse qualcun altro, quel giorno la manna del cielo quel giorno era comunque caduta a Bocconi.
giovedì, agosto 23, 2007
lunedì, agosto 20, 2007
giovedì, agosto 16, 2007
domenica, agosto 05, 2007
domenica, luglio 22, 2007
I miei primi 180 giorni down under,
un tipo di periferia nella periferia del mondo
Ricordo una chiacchierata di un po' di tempo fa con il mio vecchio compagno di liceo e socio escursionistico Edo. Stavo riflettendo sul fatto, piuttosto curioso, che conoscevo meglio Kathmandu di Roma, che ero stato cinque o sei volte a Pianbaruzzoli ma mai a Napoli. Edo, citando qualcuno che non ricordo piu', mi etichetto' come "tipo di periferia". Era forse scontato quindi che finissi per mettere piede in Australia, il continente piu' periferico del globo, abbandonato a se' stesso nel centro del Pacifico e puntellato da comunita' separate da distanze siderali (Planisferi australiani). Vi sono rimaso per sei mesi in questa mia prima tappa "down under" e in questo periodo relativamente lungo ho cercato di onorare al massimo la lontananza dal resto del mondo che caratterizza il luogo: per 180 giorni non ho letto una riga da un giornale italiano (neppure online) e, non appena l'inglese ha messo ali piu' robuste, ho lasciato la metropoli, Sydney, per esplorare la periferia della perriferia: la piccola comunita' di Batchelor nei Territori del Nord (post 1, 2 e foto 1,2,3), 4) e il mondo a parte di Kangaroo Island (post 1, 2, 3, 4, 5 e foto 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8).
Guardando i giardini botanici di Sydney dalle vetrate della New South Wales State Library, da dove scrivo, sono gia' certo che questa periferia mi manchera' presto. Mi manchera' in primo luogo il gioco di "cattura storie" che mi sono piano piano costruito. Era gia' divertente inscenarlo quando per il piccolo mensile La Piazza intervistavo i personaggi "figurine" dei quartieri di Bologna. Ma qui a tratti e' stata l'apoteosi. Muovendo pietre con chi muoveva pietre, cucinando con chi cucinava, tagliando legna con chi tagliava legna e allevando api con chi allevava api, ho avuto il privilegio di recuperare aneddoti sparsi in lunghe chiacchierate informali, piu' sporche di un'intervista ma anche piu' imprevedibili. Senza blocco appunti tra le mani, addobbato come un brutto anatroccolo, mi sono goduto il piacere di ascoltare storie senza fare domande.
L'Australia d'altra parte sembra essere stata pensata per produrre intrecci narrativi. Dato il carattere multietnico del suo tessuto sociale, nove persone su dieci hanno una traiettoria di vita che si ramifica nel mondo, dipanandosi lungo una serie infinita di cambi di direzione. E, dato lo scarso peso della storia nazionale, molti sembrano identificarsi piu' che altrove nella propria storia personale. Una storia che al mondo interessa poco e che quindi scorre a fiumi appena trova un terreno adatto su cui riversarsi. Una storia che, nelle zone rurali, diventa il simbolo del sodalizio tra uno straniero dai vestiti consunti in cerca di ospitalita' e un australiano con una tenuta meravigliosa in cerca di compagnia.
Da questo mondo lontano, dove ogni caffe' puo' dare il via a chiacchierate interminabili, mi manchera' anche la sciettezza dei rapporti lavorativi. Non sempre sono facili. Le relazioni di potere, anzi, qui sono palpabili e scarsamente negoziabili. Il ragionamento e' matematico: sei pagato, agisci. Non c'e' alcun ammortizzatore di "cortesia" nell'ordine. Ma, al contempo, non c'e' neppure il tentativo di spostare la ricompensa sul piano simbolico. I complimenti arrivano, copiosi e calorosi a volte, ma non sono mai dedotti dalla paga: quale che sia il piacere che si condivide nel raggiungere un obiettivo, la soddisfazione resta sempre su un piano parallelo rispetto alla transazione economica.
Nelle relazioni lavorative australiane e' poi stimolante l'approccio all'esperienza. In Italia e' piu' che altro un forte freno: sembra non essere mai sufficiente per andare oltre e la sua presunta carenza e' costantemente ventilata assieme allo spettro dell'errore. In Australia, invece, l'esperienza e' una risorsa rinnovabile: c'e' la costante fiducia nella possibilita' di costruirsela in pochi tentativi e gli errori di percorso sono contemplati con sorridente ottimismo. "Provaci" e' il messaggio.
Il messaggio arriva con il supporto di un sistema economico pensato per provarci. Ottenere credito e' facile. Se manca il capitale, un salto in miniera per un paio di mesi consente di capitalizzare migliaia di dollari (4.000 a settimana circa). E un cottage sulla baia di Sydney costa meno di un cesso-locale tra le pantegane del Navile a Bologna.
Rimanere in Australia per la vita resta pero' una decisione controversa. Il pensiero mi ha attraversato piu' e piu' volte (lo fa tuttora), ma accompagnato dalla dark side di questo continente. Il lato oscuro e' immateriale. Se l'Australia e' una delle nazioni con il piu' alto tasso di suicidi nel mondo, non e' certo perche' manca qualcosa. E' forse il contrario. Il facile accesso a una grande casa, una grande auto e una grande spiaggia droga questo paese di un ipermaterialismo, tanto perfetto quanto noioso. E' un po' come se l'Australia fosse una grande Svizzera.
Questa angoscia sociale e' affiorata per esempio nei quattro giorni trascorsi a Victor Harbor (post 1 e foto 1, 2). La localita' gongola nella ricchezza, vantando consistenti flussi turistici sulla costa e redditizi commerci agricoli nell'interno. Tutte le persone con cui ho parlato nello sporting club erano fottutamente di successo: due o tre proprieta', posti coperti per il golf e fuoristrada oceanici. Ma nessuno e' mai andato oltre il "not so bad", lamentando un fastidio di fondo.
Questo spleen prende una forma ancora piu' chiara tra coloro che sono approdati a queste latitudini in tempi recenti. Pochi giorni fa ho pranzato con Jeanne, la moglie del proprietario del Jolly Swagman, l'ostello in cui alloggio. Ha sposato Matthew dopo averlo conosciuto lungo l'Inca Trail. "Allora - dice - non pensavo ne' alle mie radici ne' alla mia famiglia, ma ora mi accorgo che il mio unico desiderio e' portare in Europa la mia figlioletta di un anno e mezzo. La mia casa e' meravigliosa e i posti che puoi raggiungere da qui - il sud est asiatico e le Fiji - sono meravigliosi, ma sono stanca di spiagge. Vorrei quella sensazione di cultura che qui non c'e': le colline della Toscana, i castelli della Scozia e i caffe' di Parigi. Tutti cosi' vicini in termini australiani, ma cosi' diversi tra loro".
La vecchia Europa resta anche nei pensieri di George. E' un capocantiere sui 35 anni. E' nato in Australia, ma e' cresciuto a Belgrado, dove e' rimasto con la famiglia fino allo scoppio della guerra. Ora e' a Sydney da quasi 15 anni. "Amo questo paese - racconta - alla stessa stregua con cui lo odio. Ti da' tutto, ma ti toglie l'anima. Perdi le tue radici senza la possibilita' di fartene di nuove perche' l'Australia non ne ha. L'anno scorso sono tornato a Belgrado per due mesi: ho ancora una proprieta' da controllare ogni tanto. Quando sono atterrato di nuovo a Sydney, con l'unico pensiero del lavoro, credo di aver pianto per la prima volta nella mia vita".
La fame di Europa di Jeanne e George e' la stessa che Malu' mi manifesto' per l'Algeria e che Surandra ha per l'Asia. Surandra lavora qua e la' per pagarsi i suoi studi in accounting. E' originario di Pockara in Nepal, dove non rientra da quasi due anni. Non edulcolora la miseria della guerra civile che si e' lasciato alle spalle, ma non riescie neppure a sorridere alla sua nuova vita. "Sono confuso - ammette laconico - mi fanno pensare solo ai soldi dopo che per tutta una vita non ne avevo mai parlato".
Questi sentimenti sono probabilmente universali, trasversali a tutti coloro che vivono lontano, ma in Australia la lontananza e' piu' grande. L'altro mondo, quale esso sia, e' a 24 ore di aereo, $2000 di biglietto, due mesi di prenotazione e una valigia che deve fare i conti con le stagioni invertite. Neppure una telefonata con 10 ore di fuso orario di mezzo riescie semplice. Il rischio, insomma, e' di rimanere preda della smania di tornare. Desiderarlo fino al punto di farlo e ritrovarsi poi in un mondo sconosciuto. Mi hanno gia' raccontato un paio di volte per esempio la storia della signora spagnola che tesseva le lodi della sua terra casta e pia. Dopo anni vi torno' per il matrimonio della nipote, che, con una trama degna di Almodovar, si stava sposando con un'altra donna.
Per ora comunque questi tormenti da emigrante mi sono estranei. Lascio un paese con la voglia e la possibilita' di tornarci. Piacevolmente rilassato e, al di la' di ogni nostalgia australe, curioso di rimettere piede nella mia Romagna, che, dopo sei mesi, mi riservera' sicuramente qualche novita'. Le vedro' con calma, concedendomi al piu' presto un lusso tutto italico: prendere l'auto per qualche ora e guidare dagli Appennini al mare, attraversando la pianura e scrutando le Alpi. Probabilmente ci sara' qualche ingorgo a cui non sono piu' abituato, ma cerchero' di non dilapidare la lezione australiana. Che di fatto e' molto semplice: "Easy mate, take it easy".
Guardando i giardini botanici di Sydney dalle vetrate della New South Wales State Library, da dove scrivo, sono gia' certo che questa periferia mi manchera' presto. Mi manchera' in primo luogo il gioco di "cattura storie" che mi sono piano piano costruito. Era gia' divertente inscenarlo quando per il piccolo mensile La Piazza intervistavo i personaggi "figurine" dei quartieri di Bologna. Ma qui a tratti e' stata l'apoteosi. Muovendo pietre con chi muoveva pietre, cucinando con chi cucinava, tagliando legna con chi tagliava legna e allevando api con chi allevava api, ho avuto il privilegio di recuperare aneddoti sparsi in lunghe chiacchierate informali, piu' sporche di un'intervista ma anche piu' imprevedibili. Senza blocco appunti tra le mani, addobbato come un brutto anatroccolo, mi sono goduto il piacere di ascoltare storie senza fare domande.
L'Australia d'altra parte sembra essere stata pensata per produrre intrecci narrativi. Dato il carattere multietnico del suo tessuto sociale, nove persone su dieci hanno una traiettoria di vita che si ramifica nel mondo, dipanandosi lungo una serie infinita di cambi di direzione. E, dato lo scarso peso della storia nazionale, molti sembrano identificarsi piu' che altrove nella propria storia personale. Una storia che al mondo interessa poco e che quindi scorre a fiumi appena trova un terreno adatto su cui riversarsi. Una storia che, nelle zone rurali, diventa il simbolo del sodalizio tra uno straniero dai vestiti consunti in cerca di ospitalita' e un australiano con una tenuta meravigliosa in cerca di compagnia.
Da questo mondo lontano, dove ogni caffe' puo' dare il via a chiacchierate interminabili, mi manchera' anche la sciettezza dei rapporti lavorativi. Non sempre sono facili. Le relazioni di potere, anzi, qui sono palpabili e scarsamente negoziabili. Il ragionamento e' matematico: sei pagato, agisci. Non c'e' alcun ammortizzatore di "cortesia" nell'ordine. Ma, al contempo, non c'e' neppure il tentativo di spostare la ricompensa sul piano simbolico. I complimenti arrivano, copiosi e calorosi a volte, ma non sono mai dedotti dalla paga: quale che sia il piacere che si condivide nel raggiungere un obiettivo, la soddisfazione resta sempre su un piano parallelo rispetto alla transazione economica.
Nelle relazioni lavorative australiane e' poi stimolante l'approccio all'esperienza. In Italia e' piu' che altro un forte freno: sembra non essere mai sufficiente per andare oltre e la sua presunta carenza e' costantemente ventilata assieme allo spettro dell'errore. In Australia, invece, l'esperienza e' una risorsa rinnovabile: c'e' la costante fiducia nella possibilita' di costruirsela in pochi tentativi e gli errori di percorso sono contemplati con sorridente ottimismo. "Provaci" e' il messaggio.
Il messaggio arriva con il supporto di un sistema economico pensato per provarci. Ottenere credito e' facile. Se manca il capitale, un salto in miniera per un paio di mesi consente di capitalizzare migliaia di dollari (4.000 a settimana circa). E un cottage sulla baia di Sydney costa meno di un cesso-locale tra le pantegane del Navile a Bologna.
Rimanere in Australia per la vita resta pero' una decisione controversa. Il pensiero mi ha attraversato piu' e piu' volte (lo fa tuttora), ma accompagnato dalla dark side di questo continente. Il lato oscuro e' immateriale. Se l'Australia e' una delle nazioni con il piu' alto tasso di suicidi nel mondo, non e' certo perche' manca qualcosa. E' forse il contrario. Il facile accesso a una grande casa, una grande auto e una grande spiaggia droga questo paese di un ipermaterialismo, tanto perfetto quanto noioso. E' un po' come se l'Australia fosse una grande Svizzera.
Questa angoscia sociale e' affiorata per esempio nei quattro giorni trascorsi a Victor Harbor (post 1 e foto 1, 2). La localita' gongola nella ricchezza, vantando consistenti flussi turistici sulla costa e redditizi commerci agricoli nell'interno. Tutte le persone con cui ho parlato nello sporting club erano fottutamente di successo: due o tre proprieta', posti coperti per il golf e fuoristrada oceanici. Ma nessuno e' mai andato oltre il "not so bad", lamentando un fastidio di fondo.
Questo spleen prende una forma ancora piu' chiara tra coloro che sono approdati a queste latitudini in tempi recenti. Pochi giorni fa ho pranzato con Jeanne, la moglie del proprietario del Jolly Swagman, l'ostello in cui alloggio. Ha sposato Matthew dopo averlo conosciuto lungo l'Inca Trail. "Allora - dice - non pensavo ne' alle mie radici ne' alla mia famiglia, ma ora mi accorgo che il mio unico desiderio e' portare in Europa la mia figlioletta di un anno e mezzo. La mia casa e' meravigliosa e i posti che puoi raggiungere da qui - il sud est asiatico e le Fiji - sono meravigliosi, ma sono stanca di spiagge. Vorrei quella sensazione di cultura che qui non c'e': le colline della Toscana, i castelli della Scozia e i caffe' di Parigi. Tutti cosi' vicini in termini australiani, ma cosi' diversi tra loro".
La vecchia Europa resta anche nei pensieri di George. E' un capocantiere sui 35 anni. E' nato in Australia, ma e' cresciuto a Belgrado, dove e' rimasto con la famiglia fino allo scoppio della guerra. Ora e' a Sydney da quasi 15 anni. "Amo questo paese - racconta - alla stessa stregua con cui lo odio. Ti da' tutto, ma ti toglie l'anima. Perdi le tue radici senza la possibilita' di fartene di nuove perche' l'Australia non ne ha. L'anno scorso sono tornato a Belgrado per due mesi: ho ancora una proprieta' da controllare ogni tanto. Quando sono atterrato di nuovo a Sydney, con l'unico pensiero del lavoro, credo di aver pianto per la prima volta nella mia vita".
La fame di Europa di Jeanne e George e' la stessa che Malu' mi manifesto' per l'Algeria e che Surandra ha per l'Asia. Surandra lavora qua e la' per pagarsi i suoi studi in accounting. E' originario di Pockara in Nepal, dove non rientra da quasi due anni. Non edulcolora la miseria della guerra civile che si e' lasciato alle spalle, ma non riescie neppure a sorridere alla sua nuova vita. "Sono confuso - ammette laconico - mi fanno pensare solo ai soldi dopo che per tutta una vita non ne avevo mai parlato".
Questi sentimenti sono probabilmente universali, trasversali a tutti coloro che vivono lontano, ma in Australia la lontananza e' piu' grande. L'altro mondo, quale esso sia, e' a 24 ore di aereo, $2000 di biglietto, due mesi di prenotazione e una valigia che deve fare i conti con le stagioni invertite. Neppure una telefonata con 10 ore di fuso orario di mezzo riescie semplice. Il rischio, insomma, e' di rimanere preda della smania di tornare. Desiderarlo fino al punto di farlo e ritrovarsi poi in un mondo sconosciuto. Mi hanno gia' raccontato un paio di volte per esempio la storia della signora spagnola che tesseva le lodi della sua terra casta e pia. Dopo anni vi torno' per il matrimonio della nipote, che, con una trama degna di Almodovar, si stava sposando con un'altra donna.
Per ora comunque questi tormenti da emigrante mi sono estranei. Lascio un paese con la voglia e la possibilita' di tornarci. Piacevolmente rilassato e, al di la' di ogni nostalgia australe, curioso di rimettere piede nella mia Romagna, che, dopo sei mesi, mi riservera' sicuramente qualche novita'. Le vedro' con calma, concedendomi al piu' presto un lusso tutto italico: prendere l'auto per qualche ora e guidare dagli Appennini al mare, attraversando la pianura e scrutando le Alpi. Probabilmente ci sara' qualche ingorgo a cui non sono piu' abituato, ma cerchero' di non dilapidare la lezione australiana. Che di fatto e' molto semplice: "Easy mate, take it easy".
martedì, luglio 17, 2007
Ritorno alle Blue Mountains
Le Blue Mountains furono il mio bagnato debutto nella natura australiana: scorci di paesaggio tra le nuvole (foto 1 e foto 2) e una chiacchierata con un'anziana signora. A quasi sei mesi da quella prima uscita da Sydney vi ho rimesso piede: nell'aria fresca dell'inverno ma con un cielo finalmente limpido.
mercoledì, luglio 11, 2007
Lungo la Nullarbor Plain basta una faccia sorridente
Deportazioni di detenuti, corsa all'oro, naufragi, scontri con gli aborigeni e scandali finanziari. Nella storia di Perth (foto), che non va oltre il 1820, entrano tutti gli ingredienti della vita pionieristica. Una passeggiata per i corridoi del Western Australia Museum e' il modo piu' semplice per ripercorrere la tormentata evoluzione della capitale di stato piu' isolata al mondo e uscirne con uno spirito di compartecipazione al doloroso destino di coloni strappati alle loro terre d'origine, illusi di una nuova ricchezza con fattorie estese quanto nazioni e poi ricacciati a una vita di stenti da un territorio sterminato, meno fertile del previsto e tagliato fuori dal resto del mondo e dalle piu' "popolose" colonie orientali.
Il Western Australia Museum si affaccia emblematicamente sul Perth Cultural Center, affiancato dalla galleria d'arte moderna e da un istituto culturale dedicato ai nuovi media. Quasi un segnale architettonico per dire che Perth ha voltato pagina: il suo passato, per quanto recente, e' comunque passato, dietro le spalle, all'ombra dei nuovi grattacieli. La corsa all'oro prima e il turismo poi hanno in effetti trasformato un piccolo borgo in una metropoli di un milione e mezzo di abitanti, abbellita da una sky line paragonabile a quella di Sydney e da un parco urbano che da solo ospita piu' specie di orchidee dell'intera Europa.
Perth rimane pero' una citta' con una composizione sociale ancora instabile, ancora pionieristica. Nelle sue camerate, fatto estraneo alle altre citta' australiane, trovano posto eserciti di senza casa e migranti alla ricerca di lavoro nelle mieniere di Kalgorlie. Chi non ha niente e tenta disperatamente di strappare qualcosa al piu' presto sembra cioe' guardare ancora a Perth come meta privilegiata per raggranellare una fortuna. O, piu' spesso, per trovare un po' di compagnia e annegare la sfortuna in una birra e in una chitarra.
E' in questa citta' di grandi distanze, grandi boom e grandi fallimenti che si puo' incontrare piu' facilmente che altrove una donna di mezza eta' tedesca in viaggio verso il suo sogno naturalistico. Non ne so il nome, dimenticato o forse mai detto, ma ne ricordo il profilo professionale. A parlarmi, tra le mura del Governor's Lodge, un vecchio cottage restaurato nel sobborgo di Northbridge, era una geologa arricchita da una passione per la botanica. Era li' con un visto turistico, senza un'idea precisa di dove sistemarsi, ma con la speranza di trovare un lavoro tra le foreste di Jarra del West Australia o le sequioe secolari della Tasmania. Certamente era tesa per il colloquio che era riuscita a procacciarsi per il giorno successivo. E forse aveva voglia di parlare per rendere il suo sogno un po' piu' reale di un mero viaggio cerebrale.
"Hai affrontato la questione aborigena?" mi ha chiesto quasi all'improvviso. "Intendo, hai scambiato qualche battuta con loro?".
"Neanche una" rispondo. "Gli Aborigeni che ho incontrati sono stati solo quelli seduti ai margini delle strade di Alice e Darwin. Ubriachi, storditi dalla benzina e con un aspetto mostruoso. Troppo, troppo ostili".
"Gia', e' capitato lo stesso anche a me scendendo per la costa occidentale. Erano tutti troppo diversi e visibilmente estraniati per provare un approccio". "Pero' - prosegue dopo una pausa - negli ultimi due giorni ho speso la maggior parte del tempo a consultare libri sulla storia dell'Australia alla biblioteca di stato di Perth. Ne ho anche acquistati alcuni" mi dice indicandomi testi datati che le biblioteche mettono in vendita per pochi dollari. "Guarda - prosegue aprendo alcune pagine con raffigurati disegni a matita di meta' Ottocento - guarda come i coloni ritraevano gli aborigeni. Siedono a gruppi ai margini della folla, come oggi. Ma le loro facce sono incredibili: sono volti europei. I coloni cercavano di esorcizzare la paura degli aborigeni rendendoli simili a loro".
La geologa tedesca chiude il testo, lo ripone nella valigia. Poi si china di nuovo ed estrae una pergamena. La srotola sul letto e additandola si rivolge a me una volta ancora. "Guarda anche questi dipinti a sfondo pastorale. Osserva gli alberi, il fiume e le dame sedute all'ombra. Sono dipinti dei coloni australiani, ma sembrano provenire dalla Francia o dalla Gran Bretagna. Tutte le piante d'alto fusto qui in Australia tendono ad avere una chioma molto ampia, proiettata verso l'esterno. Biologicamente e' per loro vitale: i rami offrono alle radici l'ombra necessaria a difenderle dal sole estivo. Ma nei dipinti queste caratteristiche scompaiono. Gli eucalipti di questi disegni hanno la forma degli alberi europei: alti e slanciati alla ricerca della luce".
"Nostalgia - conclude la mia interlocrutrice - L'unico sentimento che i primi pittori australiani riuscivano a proiettare sulla tela era la nostalgia. Non riuscivano a vedere nulla di interessante in questo paese, che anzi suscitava loro un timore viscerale. Io lo trovo invece cosi' unico e affascinante e a ogni passo spero un po' piu' di prima di poterci restare".
Tra me e l'epilogo del sogno della geologa tedesca ci sono ora miglia di chilometri. Forse il giorno successivo ha trovato il suo lavoro nel West o forse dopo poche ore ha ripreso anche lei la via dell'est, facendo rotta attraverso la Nullarbor Plain, la pianura che divide in due il continente separando Adelaide da Perth. Io l'ho attraversata due volte in treno, impiegando ogni volta due giorni e mezzo. La Nullarbor Plain e' una distesa quasi interamente priva di alberi ad alto fusto (da qui il nome), colorata dal verde scuro del salt bush. Fino a dieci milioni di anni fa era un mare, mentre ora e' un deserto salato. L'unico abitato lungo la linea ferroviaria e' Cook (foto), con due soli abitanti. C'e' poi la macchia verde di Forrest, un pugno di alberi piantati in onore di Forrest, il Premier australiano che per primo riusci' a camminare da un lato all'altro della distesa. E infine, ogni tre o quattro ore di viaggio c'e' una jeep di fronte alla quale il treno fa sosta: i fattori dell'outback sono li' per prendere dall'Indian Pacific giornali, provviste e acqua nei periodi piu' secchi.
La Nullarbor Plain ha poco da raccontare, talmente poche sono le voci che riempiono la sua superficie, grande come undici volte il Belgio. Ma nell'ultima colazione a bordo, prima dell'approssimarsi di Perth, la mia attenzione e' stata portata a un grumo di rocce appena visibili all'orizzonte. Al mio tavolo si siede Trevor, night manager dell'Indian Pacific. Si aggancia alla conversazione in corso con gli altri passeggeri, piu' che altro un elenco di consigli di lettura a sfondo australiano. Poi sposta l'accento sulle mie origini italiane. "Forse - mi dice - non hai nemmeno notato i ruderi che abbiamo costeggiato alcune ore fa, ma in qualche modo ti riguardano. Erano un campo di prigionia, un campo di prigionia italiano. Allo scoppio della guerra, alcuni immigrati italiani e forse anche alcuni tedeschi sono stati deportati li' per evitare congiure ai danni dell'esercito australiano alleato agli americani e agli inglesi". La sorpresa alla notizia si legge nelle facce di tutti coloro in ascolto e Trevor prosegue allora difendendo la scelta degli Australiani di allora. "Lo so che sembra un destino crudele e ingiusto. Molti di coloro che sono finiti laggiu' erano qui da tempo, probabilmente estranei al destino del loro paese d'origine, ma tant'e', in periodo di guerra le valutazioni cambiano e perdono in lucidita'".
La conversazione a bordo dell'Indian Pacific e' stata presto interrotta dall'arrivo a Perth, ma da quelle poche battute sono nati quattro giorni, di quelli che piu' riescono a meravigliarmi. Quattro giorni in grembo a un'altra famiglia australiana. Quattro giorni di fugaci e cordiali visite a figli e nipoti. Quattro giorni di sport nel club di Victor Harbor. Quattro giorni tra gamberetti e vino rosso. Quattro giorni tra il verde della Back Valley (foto) e le rocce di Granite Island (foto). Quattro giorni nella fattoria del night manager dell'Indian Pacific, dove Trevor mi ha invitato a fine viaggio, mentre dal binario ero gia' in cammino sulla via di Perth.
I quattro giorni a Victor Harbor, un'ottantina di Km a sud-est di Adelaide, sono quelle meraviglie di percorso che so che presto rimpiangero' dell'Australia. Viaggi nel cuore di nuclei familiari che nascono nel giro di poche parole, di una birra o di un saluto per strada. Una totale condivisione di spazi fisici e sociali fondata su una fiducia assoluta e immediata nel prossimo. Una fiducia a cui non ho ancora trovato spiegazione, se non forse considerarla una sorta di antidoto allo spleen che a volte serpeggia nelle zone piu' abbandonate del continente.
"Perche'?" ho chiesto esplicitamente a Trevor l'ultima sera. "Perche' hai violato la privacy della tua casa e della tua famiglia per ospitarmi qui senza alcun preavviso, senza nulla in cambio, senza sapere con esattezza che diavolo mi poteva frullare in testa?".
La risposta e' stata vaga, come quando si chiede di riflettere su qualcosa che da sempre si da' per scontato. "Non sei stato l'unico viaggiatore a fare sosta qui" ha replicato lui, elencandomi altri quattro o cinque esempi. "E' capitato ogni volta che mi sono goduto una conversazione interessante e ho avuto voglia di saperne di piu'".
"Quattro chiacchiere in piu' - dico - questo e' normale. Ma qui c'e' in gioco molto di piu': la tua casa, il tuo cibo, il tuo vino e tutte le tue relazioni familiari e sociali. Non credo che l'Italia sia un luogo inospitale, ma prima di condividere tutto quanto ho appena elencato credo che ogni italiano pretenda una certa marcia di avvicinamento. Non so quanto lunga, ma certo piu' lunga di uno scambio di battute sul treno".
"E a che pro tutti questi preamboli?" rispode quasi stupito Trevor. "Avevi una faccia sorridente".
Il Western Australia Museum si affaccia emblematicamente sul Perth Cultural Center, affiancato dalla galleria d'arte moderna e da un istituto culturale dedicato ai nuovi media. Quasi un segnale architettonico per dire che Perth ha voltato pagina: il suo passato, per quanto recente, e' comunque passato, dietro le spalle, all'ombra dei nuovi grattacieli. La corsa all'oro prima e il turismo poi hanno in effetti trasformato un piccolo borgo in una metropoli di un milione e mezzo di abitanti, abbellita da una sky line paragonabile a quella di Sydney e da un parco urbano che da solo ospita piu' specie di orchidee dell'intera Europa.
Perth rimane pero' una citta' con una composizione sociale ancora instabile, ancora pionieristica. Nelle sue camerate, fatto estraneo alle altre citta' australiane, trovano posto eserciti di senza casa e migranti alla ricerca di lavoro nelle mieniere di Kalgorlie. Chi non ha niente e tenta disperatamente di strappare qualcosa al piu' presto sembra cioe' guardare ancora a Perth come meta privilegiata per raggranellare una fortuna. O, piu' spesso, per trovare un po' di compagnia e annegare la sfortuna in una birra e in una chitarra.
E' in questa citta' di grandi distanze, grandi boom e grandi fallimenti che si puo' incontrare piu' facilmente che altrove una donna di mezza eta' tedesca in viaggio verso il suo sogno naturalistico. Non ne so il nome, dimenticato o forse mai detto, ma ne ricordo il profilo professionale. A parlarmi, tra le mura del Governor's Lodge, un vecchio cottage restaurato nel sobborgo di Northbridge, era una geologa arricchita da una passione per la botanica. Era li' con un visto turistico, senza un'idea precisa di dove sistemarsi, ma con la speranza di trovare un lavoro tra le foreste di Jarra del West Australia o le sequioe secolari della Tasmania. Certamente era tesa per il colloquio che era riuscita a procacciarsi per il giorno successivo. E forse aveva voglia di parlare per rendere il suo sogno un po' piu' reale di un mero viaggio cerebrale.
"Hai affrontato la questione aborigena?" mi ha chiesto quasi all'improvviso. "Intendo, hai scambiato qualche battuta con loro?".
"Neanche una" rispondo. "Gli Aborigeni che ho incontrati sono stati solo quelli seduti ai margini delle strade di Alice e Darwin. Ubriachi, storditi dalla benzina e con un aspetto mostruoso. Troppo, troppo ostili".
"Gia', e' capitato lo stesso anche a me scendendo per la costa occidentale. Erano tutti troppo diversi e visibilmente estraniati per provare un approccio". "Pero' - prosegue dopo una pausa - negli ultimi due giorni ho speso la maggior parte del tempo a consultare libri sulla storia dell'Australia alla biblioteca di stato di Perth. Ne ho anche acquistati alcuni" mi dice indicandomi testi datati che le biblioteche mettono in vendita per pochi dollari. "Guarda - prosegue aprendo alcune pagine con raffigurati disegni a matita di meta' Ottocento - guarda come i coloni ritraevano gli aborigeni. Siedono a gruppi ai margini della folla, come oggi. Ma le loro facce sono incredibili: sono volti europei. I coloni cercavano di esorcizzare la paura degli aborigeni rendendoli simili a loro".
La geologa tedesca chiude il testo, lo ripone nella valigia. Poi si china di nuovo ed estrae una pergamena. La srotola sul letto e additandola si rivolge a me una volta ancora. "Guarda anche questi dipinti a sfondo pastorale. Osserva gli alberi, il fiume e le dame sedute all'ombra. Sono dipinti dei coloni australiani, ma sembrano provenire dalla Francia o dalla Gran Bretagna. Tutte le piante d'alto fusto qui in Australia tendono ad avere una chioma molto ampia, proiettata verso l'esterno. Biologicamente e' per loro vitale: i rami offrono alle radici l'ombra necessaria a difenderle dal sole estivo. Ma nei dipinti queste caratteristiche scompaiono. Gli eucalipti di questi disegni hanno la forma degli alberi europei: alti e slanciati alla ricerca della luce".
"Nostalgia - conclude la mia interlocrutrice - L'unico sentimento che i primi pittori australiani riuscivano a proiettare sulla tela era la nostalgia. Non riuscivano a vedere nulla di interessante in questo paese, che anzi suscitava loro un timore viscerale. Io lo trovo invece cosi' unico e affascinante e a ogni passo spero un po' piu' di prima di poterci restare".
Tra me e l'epilogo del sogno della geologa tedesca ci sono ora miglia di chilometri. Forse il giorno successivo ha trovato il suo lavoro nel West o forse dopo poche ore ha ripreso anche lei la via dell'est, facendo rotta attraverso la Nullarbor Plain, la pianura che divide in due il continente separando Adelaide da Perth. Io l'ho attraversata due volte in treno, impiegando ogni volta due giorni e mezzo. La Nullarbor Plain e' una distesa quasi interamente priva di alberi ad alto fusto (da qui il nome), colorata dal verde scuro del salt bush. Fino a dieci milioni di anni fa era un mare, mentre ora e' un deserto salato. L'unico abitato lungo la linea ferroviaria e' Cook (foto), con due soli abitanti. C'e' poi la macchia verde di Forrest, un pugno di alberi piantati in onore di Forrest, il Premier australiano che per primo riusci' a camminare da un lato all'altro della distesa. E infine, ogni tre o quattro ore di viaggio c'e' una jeep di fronte alla quale il treno fa sosta: i fattori dell'outback sono li' per prendere dall'Indian Pacific giornali, provviste e acqua nei periodi piu' secchi.
La Nullarbor Plain ha poco da raccontare, talmente poche sono le voci che riempiono la sua superficie, grande come undici volte il Belgio. Ma nell'ultima colazione a bordo, prima dell'approssimarsi di Perth, la mia attenzione e' stata portata a un grumo di rocce appena visibili all'orizzonte. Al mio tavolo si siede Trevor, night manager dell'Indian Pacific. Si aggancia alla conversazione in corso con gli altri passeggeri, piu' che altro un elenco di consigli di lettura a sfondo australiano. Poi sposta l'accento sulle mie origini italiane. "Forse - mi dice - non hai nemmeno notato i ruderi che abbiamo costeggiato alcune ore fa, ma in qualche modo ti riguardano. Erano un campo di prigionia, un campo di prigionia italiano. Allo scoppio della guerra, alcuni immigrati italiani e forse anche alcuni tedeschi sono stati deportati li' per evitare congiure ai danni dell'esercito australiano alleato agli americani e agli inglesi". La sorpresa alla notizia si legge nelle facce di tutti coloro in ascolto e Trevor prosegue allora difendendo la scelta degli Australiani di allora. "Lo so che sembra un destino crudele e ingiusto. Molti di coloro che sono finiti laggiu' erano qui da tempo, probabilmente estranei al destino del loro paese d'origine, ma tant'e', in periodo di guerra le valutazioni cambiano e perdono in lucidita'".
La conversazione a bordo dell'Indian Pacific e' stata presto interrotta dall'arrivo a Perth, ma da quelle poche battute sono nati quattro giorni, di quelli che piu' riescono a meravigliarmi. Quattro giorni in grembo a un'altra famiglia australiana. Quattro giorni di fugaci e cordiali visite a figli e nipoti. Quattro giorni di sport nel club di Victor Harbor. Quattro giorni tra gamberetti e vino rosso. Quattro giorni tra il verde della Back Valley (foto) e le rocce di Granite Island (foto). Quattro giorni nella fattoria del night manager dell'Indian Pacific, dove Trevor mi ha invitato a fine viaggio, mentre dal binario ero gia' in cammino sulla via di Perth.
I quattro giorni a Victor Harbor, un'ottantina di Km a sud-est di Adelaide, sono quelle meraviglie di percorso che so che presto rimpiangero' dell'Australia. Viaggi nel cuore di nuclei familiari che nascono nel giro di poche parole, di una birra o di un saluto per strada. Una totale condivisione di spazi fisici e sociali fondata su una fiducia assoluta e immediata nel prossimo. Una fiducia a cui non ho ancora trovato spiegazione, se non forse considerarla una sorta di antidoto allo spleen che a volte serpeggia nelle zone piu' abbandonate del continente.
"Perche'?" ho chiesto esplicitamente a Trevor l'ultima sera. "Perche' hai violato la privacy della tua casa e della tua famiglia per ospitarmi qui senza alcun preavviso, senza nulla in cambio, senza sapere con esattezza che diavolo mi poteva frullare in testa?".
La risposta e' stata vaga, come quando si chiede di riflettere su qualcosa che da sempre si da' per scontato. "Non sei stato l'unico viaggiatore a fare sosta qui" ha replicato lui, elencandomi altri quattro o cinque esempi. "E' capitato ogni volta che mi sono goduto una conversazione interessante e ho avuto voglia di saperne di piu'".
"Quattro chiacchiere in piu' - dico - questo e' normale. Ma qui c'e' in gioco molto di piu': la tua casa, il tuo cibo, il tuo vino e tutte le tue relazioni familiari e sociali. Non credo che l'Italia sia un luogo inospitale, ma prima di condividere tutto quanto ho appena elencato credo che ogni italiano pretenda una certa marcia di avvicinamento. Non so quanto lunga, ma certo piu' lunga di uno scambio di battute sul treno".
"E a che pro tutti questi preamboli?" rispode quasi stupito Trevor. "Avevi una faccia sorridente".
martedì, luglio 03, 2007
In diretta da Canberra i "ciceroni" del cambiamento climatico
L'Australia si sta avvicinando a un'importante scadenza elettorale. Tra poche settimane l'intero paese sara' chiamato alle urne per il rinnovo del parlamento federale.
Il governo uscente e' quello del conservatore John Howard, al potere da circa un decennio. Un lungo arco di tempo contraddistinto da una costante crescita economica, ma anche da scelte estreme, che sul fronte lavorativo hanno per esempio sancito la messa al bando delle rappresentanze sindacali. Gli Australiani sembrano stanchi di questa lunga maratona produttiva e i sondaggi danno in vantaggio i democratici. In caso di vittoria, manderebbero al governo Kevin Rudd, la cui moglie e' in questi giorni impegnatissima a svendere ogni suo capitale per fugare le accuse di conflitto di interessi lanciate dalla stampa.
La campagna elettorale ha toni epici. Le immagini sembrano in diretta dal Senato dell'Antica Roma. Howard e Rudd si confrontano con ciceroniane battaglie retoriche. Siedono uno di fronte all'altro e ocupano i rispettivi tempi di eloquoi con gesti magniloquenti. A volte richiamano l'attenzione dei propri compagni di partito, compostamente seduti alle spalle. A volte si concentrano sulle statistiche alla base delle loro lunghe argomentazioni. Ma per lo piu' si sfottono in modo quasi infantile alla "pappappero". L'improperio piu' comune, cosi' a primo acchito, e' "pinguino".
Quando, sporadicamente, il confronto esce dalle metafore animalesche, i temi in gioco sono in parte simili a quelli italiani. Su tutti, la precarizzazione della forza lavoro e poi a seguire il taglio dei fondi alla scuola, la preoccupazione per le massiccie percentuali del mercato agricolo conquistate dalla Cina e la questione salute in senso lato, dalle norme anti-fumo (severissime) alle terapie genetiche.
Tra questi temi internazionali si nasconde pero' qualche issue tipicamente australiana. Gli animali ne sono un esempio. Sono costantemente sull'agenda politica. Da una settimana largo s[pazio e' dato per esempio al vertici sulle balene in corso in Alaska, dove gli Australiani stanno infruttuosamente facendo pressione sul Giappone per ridurre il numero degli esemplari uccisi. Poi, novita' dell'ultima ora, sono i flying foxes, ovvero una specie di pipistrello che, sospinta dalla siccita' ha abbandonato il suo habitat naturale nell'outback, per trasferirsi nelle "popolose" rive della east coast.
Il tema australiano per eccellenza e' comunque il cambiamente climatico. Paradossalmente, una delle piu' disabitate lande del pianeta - una nazione di 20 milioni di persone grande come gli Stati Uniti - e' la piu' colpita dalle bizzarrie del clima. Nei tropici si affogano, sino a perdere il conto degli allagamenti. Nel sud muoiono di sete. E nelle ricche citta' di Melbourne e Sydney, una buona fetta della popolazione viene colpita dal tumore alla pelle a causa del buco dell'ozono che sovrasta il polo sud.
Per esorcizzare questi problemi, che, a ben vedere, sono sempre stati connaturati a questo continente naturalisticamente indomabile, il clima e il suo presente cambiamento sono sempre in onda. Cosi' centrali che per essi c'e' addirittura un ministro preposto. Si', il Ministro per il cambiamento climatico. La sua intervista pochi giorni fa e' stata affiancata a quella di uno degli uomini piu' anziani dell'Australia. A novant'anni suonati, qual era il desiderio del vecchietto? Ovviamente, sopravvivere per altri trent'anni in modo da vedere il clima che la sua generazione aveva riservato per quella successiva.
Il governo uscente e' quello del conservatore John Howard, al potere da circa un decennio. Un lungo arco di tempo contraddistinto da una costante crescita economica, ma anche da scelte estreme, che sul fronte lavorativo hanno per esempio sancito la messa al bando delle rappresentanze sindacali. Gli Australiani sembrano stanchi di questa lunga maratona produttiva e i sondaggi danno in vantaggio i democratici. In caso di vittoria, manderebbero al governo Kevin Rudd, la cui moglie e' in questi giorni impegnatissima a svendere ogni suo capitale per fugare le accuse di conflitto di interessi lanciate dalla stampa.
La campagna elettorale ha toni epici. Le immagini sembrano in diretta dal Senato dell'Antica Roma. Howard e Rudd si confrontano con ciceroniane battaglie retoriche. Siedono uno di fronte all'altro e ocupano i rispettivi tempi di eloquoi con gesti magniloquenti. A volte richiamano l'attenzione dei propri compagni di partito, compostamente seduti alle spalle. A volte si concentrano sulle statistiche alla base delle loro lunghe argomentazioni. Ma per lo piu' si sfottono in modo quasi infantile alla "pappappero". L'improperio piu' comune, cosi' a primo acchito, e' "pinguino".
Quando, sporadicamente, il confronto esce dalle metafore animalesche, i temi in gioco sono in parte simili a quelli italiani. Su tutti, la precarizzazione della forza lavoro e poi a seguire il taglio dei fondi alla scuola, la preoccupazione per le massiccie percentuali del mercato agricolo conquistate dalla Cina e la questione salute in senso lato, dalle norme anti-fumo (severissime) alle terapie genetiche.
Tra questi temi internazionali si nasconde pero' qualche issue tipicamente australiana. Gli animali ne sono un esempio. Sono costantemente sull'agenda politica. Da una settimana largo s[pazio e' dato per esempio al vertici sulle balene in corso in Alaska, dove gli Australiani stanno infruttuosamente facendo pressione sul Giappone per ridurre il numero degli esemplari uccisi. Poi, novita' dell'ultima ora, sono i flying foxes, ovvero una specie di pipistrello che, sospinta dalla siccita' ha abbandonato il suo habitat naturale nell'outback, per trasferirsi nelle "popolose" rive della east coast.
Il tema australiano per eccellenza e' comunque il cambiamente climatico. Paradossalmente, una delle piu' disabitate lande del pianeta - una nazione di 20 milioni di persone grande come gli Stati Uniti - e' la piu' colpita dalle bizzarrie del clima. Nei tropici si affogano, sino a perdere il conto degli allagamenti. Nel sud muoiono di sete. E nelle ricche citta' di Melbourne e Sydney, una buona fetta della popolazione viene colpita dal tumore alla pelle a causa del buco dell'ozono che sovrasta il polo sud.
Per esorcizzare questi problemi, che, a ben vedere, sono sempre stati connaturati a questo continente naturalisticamente indomabile, il clima e il suo presente cambiamento sono sempre in onda. Cosi' centrali che per essi c'e' addirittura un ministro preposto. Si', il Ministro per il cambiamento climatico. La sua intervista pochi giorni fa e' stata affiancata a quella di uno degli uomini piu' anziani dell'Australia. A novant'anni suonati, qual era il desiderio del vecchietto? Ovviamente, sopravvivere per altri trent'anni in modo da vedere il clima che la sua generazione aveva riservato per quella successiva.
giovedì, giugno 28, 2007
L'Italian connection di Parndana
Nella mia settimana a Vivonne Bay (foto) l'apicoltore Brenton mi aveva messo al corrente di un evento militarmente surreale. Durante la seconda guerra mondiale, i Capi di Stato Maggiore dell'esercito australiano avevano identificato Kangaroo Island come un obiettivo sensibile: gli strateghi aussie, cioe', si erano convinti che i Giapponesi avrebbero avviato l'invasione dell'Australia partendo da Kangaroo Island. E il punto di sbarco, stando ai loro calcoli, sarebbe stato l'unico punto d'attracco disponibile sulla costa sud: Vivonne Bay, appunto. Fu cosi' che il molo piu' costoso realizzato nel primo dopo guerra fu fatto saltare in aria, letteralmente polverizzato. Ad assistere allo spettacolo ci furono probabilmente solo una manciata di pescatori emaciati. Come me e Brenton si saranno chiesti quale mente "brillante" avesse potuto vedere in un'isola priva d'acqua l'approdo privilegiato per un esercito.
La guerra infatti non entro' mai a Kangaroo Island, ignorandola come qualsiasi altro evento significativo. Pero' qualche isolano fu suo malgrado spedito nel cuore del conflitto su nella remota Europa. In particolare, uno dei vecchi di Parndana, l'abitato nel centro dell'isola, fu a lungo prigioniero dei Tedeschi in Italia, prima di riuscire a fuggire e attraversare le linee nemiche fino a ricongiungersi con gli Alleati su a nord. La sua storia e' ritornata d'attualita' poco tempo addietro, perche' il nipote del soldato di allora e' voluto tornare sulle orme del nonno, ripercorrendo in tempo di pace la rotta tracciata dall'avo in tempo di guerra.
"Come vedi - mi dice Richard, replicando ai miei incontri italiani a Broken Hill - c'e' un'Italian connection anche a Parndana". Rich, geografo impegnato nella mappatura del Flinders Chase Nationa Park, nel remoto West End di Kangaroo Island, si e' trasferito a Parndana cinque anni fa, dopo una parentesi giovanile nella West Coast e un ventennio di landscape survey nell'outback a nord di Port Augusta. Il suo vissuto e' ormai lungo, a sufficienza per comprendere tra i ricordi qualche scampolo di vita assieme agli emigrati italiani del secondo Dopoguerra. "All'ora ero ancora a Sydney con la famiglia - racconta - e ricordo benissimo la numerosa ondata di immigrati italiani sbarcati in New South Wales: qualcuno andava nelle miniere, ma i piu' di davano all'agricoltura e al commercio del frutta e verdura. Ho conosciuto quella gente, perche' ho fatto le scuole elementari con i loro figli. Quasi ogni bambino australiano di allora ne aveva uno straniero da seguire come tutor per facilitare l'apprendimento della lingua. Io ne ho avuti molti italiani. Ci scambiavamo le passioni sportive e cercavamo sempre di dare il massimo, perche' alla fine della settimana i migliori, quelli che avevano progredito di piu' con l'inglese, ricevevano una piccola ricompensa".
Richard e' uno dei circa quaranta membri del walking club di Kangaroo Island a cui mi sono mischiato lo scorso 24 giugno per la mia "grande domenica" con gli abitanti dell'isola. Il club si da' appuntamento una o due volte al mese per un'escursione collettiva di difficolta' variabile, dalle poche ore all'intero fine settimana. "Un modo per riunire gente" dicono i locali, solitari ma orgogliosi di essere parte di qualcosa, uno, due, mille club (ne esistono dieci solo per il football).
L'uscita di domenica aveva come meta il Little Sahara, un pugno di ettari di Nord Africa che la geologia si e' divertita a riprodurre nel sud del mondo. Alte dune si alzano dal bush circostante issando verso il cielo brillanti tonalita' tra il rosso e il il giallo. Solo qualche legno disidratato, apparentemente inerte da tempi preistorici, interrompe sporadicamente l'alternarsi di creste, conche e sbuffi di sabbia al vento. Questo ecosistema, a prima vista estraneo al resto dell'isola, e' in realta' una finestra su un substrato geologico comune a molte zone di Kangaroo ISland. Anche Prospect Hill, una delle colline piu' alte, e' una duna. Solo che quasi ovunque l'arcigna vegetazione del luogo ha avuto la meglio sulla sabbia, fino a ricoprirla interamente. "Qui - mi spiega invece Jeff, la guida di giornata - la guerra non ha avuto un vincitore. Little Sahara e' su un rilievo costantemente spazzato dal vento: qui la sabbia non ha mai requie e neppure le radici del nostro bush riescono a sedimentarla".
L'anello che percorriamo dista pochi chilometri da Vivonne Bay. Dalla cima di Mt. Bloombury, dove e' prevista la sosta per il pranzo, la spiaggia piu' bella d'Australia e' visibile in tutta la sua lunghezza. Dopo cinque settimane sul'isola, vesto cosi' i panni del narratore, citando i folcloristici artisti del legno e della pietra laggiu' incontrati. "Oh quelli sono pazzi davvero - conferma una signora appena rientrata dalla Germania, dove ha insegnato inglese per venti anni. "Sei stato iniziato all'avanguardia - prosegue - ma non siamo tutti cosi'".
"Lo immagino" rispondo allegramente. Ma non ne sono del tutto sicuro. Stacy, l'energetica escursionista che mi siede al fianco e' stata in viaggio di nozze per sette mesi, trascinandosi dal sud dell'India al nord della Svezia. "E solo alla fine - commenta lei - ero veramente convinta di essere con quello giusto".
Quando, un paio di ore dopo, il gruppo raggiunge il parcheggio, sfoglio la ricca selezione di primi piani che un barbuto fotografo locale ha scattato alle orchidee dell'isola. E' uno dei miei ultimi assaggi del luogo, assieme a Road Kill Recipies, un sarcastico libro di cucina che Patricia e Tim Leeuwenburg hanno dedicato al reciclo della fauna isolana vittima di incidenti stradali.
Degli isolani conservo pero' qualche indirizzo di posta sia elettronica che tradizionale. Vorrei quanto meno sapere il destino di uno dei vecchi abitanti dell'isola. Circa tre anni fa i medici gli diagnosticarono un cancro, pronosticando una veloce dipartita. Aspettando di morire il buon uomo penso' di usare il suo tempo per dare una mano ai vicini, costruendo un muro qua e un tetto la'. Aspettando di morire, pochi mesi fa ha iniziato a costruirsi una nuova casa.
La guerra infatti non entro' mai a Kangaroo Island, ignorandola come qualsiasi altro evento significativo. Pero' qualche isolano fu suo malgrado spedito nel cuore del conflitto su nella remota Europa. In particolare, uno dei vecchi di Parndana, l'abitato nel centro dell'isola, fu a lungo prigioniero dei Tedeschi in Italia, prima di riuscire a fuggire e attraversare le linee nemiche fino a ricongiungersi con gli Alleati su a nord. La sua storia e' ritornata d'attualita' poco tempo addietro, perche' il nipote del soldato di allora e' voluto tornare sulle orme del nonno, ripercorrendo in tempo di pace la rotta tracciata dall'avo in tempo di guerra.
"Come vedi - mi dice Richard, replicando ai miei incontri italiani a Broken Hill - c'e' un'Italian connection anche a Parndana". Rich, geografo impegnato nella mappatura del Flinders Chase Nationa Park, nel remoto West End di Kangaroo Island, si e' trasferito a Parndana cinque anni fa, dopo una parentesi giovanile nella West Coast e un ventennio di landscape survey nell'outback a nord di Port Augusta. Il suo vissuto e' ormai lungo, a sufficienza per comprendere tra i ricordi qualche scampolo di vita assieme agli emigrati italiani del secondo Dopoguerra. "All'ora ero ancora a Sydney con la famiglia - racconta - e ricordo benissimo la numerosa ondata di immigrati italiani sbarcati in New South Wales: qualcuno andava nelle miniere, ma i piu' di davano all'agricoltura e al commercio del frutta e verdura. Ho conosciuto quella gente, perche' ho fatto le scuole elementari con i loro figli. Quasi ogni bambino australiano di allora ne aveva uno straniero da seguire come tutor per facilitare l'apprendimento della lingua. Io ne ho avuti molti italiani. Ci scambiavamo le passioni sportive e cercavamo sempre di dare il massimo, perche' alla fine della settimana i migliori, quelli che avevano progredito di piu' con l'inglese, ricevevano una piccola ricompensa".
Richard e' uno dei circa quaranta membri del walking club di Kangaroo Island a cui mi sono mischiato lo scorso 24 giugno per la mia "grande domenica" con gli abitanti dell'isola. Il club si da' appuntamento una o due volte al mese per un'escursione collettiva di difficolta' variabile, dalle poche ore all'intero fine settimana. "Un modo per riunire gente" dicono i locali, solitari ma orgogliosi di essere parte di qualcosa, uno, due, mille club (ne esistono dieci solo per il football).
L'uscita di domenica aveva come meta il Little Sahara, un pugno di ettari di Nord Africa che la geologia si e' divertita a riprodurre nel sud del mondo. Alte dune si alzano dal bush circostante issando verso il cielo brillanti tonalita' tra il rosso e il il giallo. Solo qualche legno disidratato, apparentemente inerte da tempi preistorici, interrompe sporadicamente l'alternarsi di creste, conche e sbuffi di sabbia al vento. Questo ecosistema, a prima vista estraneo al resto dell'isola, e' in realta' una finestra su un substrato geologico comune a molte zone di Kangaroo ISland. Anche Prospect Hill, una delle colline piu' alte, e' una duna. Solo che quasi ovunque l'arcigna vegetazione del luogo ha avuto la meglio sulla sabbia, fino a ricoprirla interamente. "Qui - mi spiega invece Jeff, la guida di giornata - la guerra non ha avuto un vincitore. Little Sahara e' su un rilievo costantemente spazzato dal vento: qui la sabbia non ha mai requie e neppure le radici del nostro bush riescono a sedimentarla".
L'anello che percorriamo dista pochi chilometri da Vivonne Bay. Dalla cima di Mt. Bloombury, dove e' prevista la sosta per il pranzo, la spiaggia piu' bella d'Australia e' visibile in tutta la sua lunghezza. Dopo cinque settimane sul'isola, vesto cosi' i panni del narratore, citando i folcloristici artisti del legno e della pietra laggiu' incontrati. "Oh quelli sono pazzi davvero - conferma una signora appena rientrata dalla Germania, dove ha insegnato inglese per venti anni. "Sei stato iniziato all'avanguardia - prosegue - ma non siamo tutti cosi'".
"Lo immagino" rispondo allegramente. Ma non ne sono del tutto sicuro. Stacy, l'energetica escursionista che mi siede al fianco e' stata in viaggio di nozze per sette mesi, trascinandosi dal sud dell'India al nord della Svezia. "E solo alla fine - commenta lei - ero veramente convinta di essere con quello giusto".
Quando, un paio di ore dopo, il gruppo raggiunge il parcheggio, sfoglio la ricca selezione di primi piani che un barbuto fotografo locale ha scattato alle orchidee dell'isola. E' uno dei miei ultimi assaggi del luogo, assieme a Road Kill Recipies, un sarcastico libro di cucina che Patricia e Tim Leeuwenburg hanno dedicato al reciclo della fauna isolana vittima di incidenti stradali.
Degli isolani conservo pero' qualche indirizzo di posta sia elettronica che tradizionale. Vorrei quanto meno sapere il destino di uno dei vecchi abitanti dell'isola. Circa tre anni fa i medici gli diagnosticarono un cancro, pronosticando una veloce dipartita. Aspettando di morire il buon uomo penso' di usare il suo tempo per dare una mano ai vicini, costruendo un muro qua e un tetto la'. Aspettando di morire, pochi mesi fa ha iniziato a costruirsi una nuova casa.
mercoledì, giugno 20, 2007
The dark side of the Island: citazioni
Fred potrebbe essere un membro del Dudley Writers' Group di Kangaroo Island, un manipolo di scrittori locali che da tempo cerca di racchiudere in storie brevi lo spirito dell'isola. Quando qualche giorno mi ha gentilmente dato un passaggio tra Kingscote e la Pellican Lagoon non ne ha fatto cenno, ma ora ne sono quasi certo.
Lungo tutto il percorso, quaranta minuti abbondanti di auto, ha esplorato le migliori pagine della letteratura australiana. Prima di lasciarmi ha poi finito con un consiglio. Di fronte al cancello di Katherine, ha spento il motore del suo fuoristrada, ha indossato fini occhiali da vista e mi ha lasciato una nota su un brandello di foglio di giornale. "Se ti piace l'isola - mi ha detto - non dovresti perdere Scratching the surface. E' una raccolta di racconti brevi. Da' una prospettiva interessante sul luogo, perche' esplora la dark side dell'isola, quella che i turisti non vedono mai".
Fred mi ha ispirato fiducia. Un tipico uomo che qui definirebbero "down to earth": un po' sognatore, forse un hippy di mezza eta' stando allo scompigliato taglio di capelli, ma profondamente legato ai valori del bush e della terra, onorato dui avere nelle vene il sangue di un nonnno aborigeno. Ho allora conservato il suo post-it e dopo una ricerca alla biblioteca e alla libreria di Kingscote ho messo mano su Scratching the surface, scoprendo che il volume e' tutto frutto di penne locali: gli autori per divertimento del Dudley Writers'Group.
Mi piace pensare che la raccolta sia una conferma alla mia prima impressione sull'isola (vai al post): un paradiso dietro a cui si nasconde un diffuso dolore. Questa e' l'introduzione a Scratching the surface, firmata per il Dudley Writers' Group di Kangaroo Island da John Sabel:
Most people say that Kangaroo Island is a beautiful place, because that;s how it looks. But if you start scratching the surface you may find mysterious things, like a high scream in the wind ora darkness that grows or graves questions in the quiet.
I wish I could say that all the stories in the volume are fiction, but I can't. Just be thankful we've only been scratching not digging.
Divertente, ma un po' inquietante e' poi anche una sorta di preghiera-poesia che ho trovato appesa su un frigorifero:
Lungo tutto il percorso, quaranta minuti abbondanti di auto, ha esplorato le migliori pagine della letteratura australiana. Prima di lasciarmi ha poi finito con un consiglio. Di fronte al cancello di Katherine, ha spento il motore del suo fuoristrada, ha indossato fini occhiali da vista e mi ha lasciato una nota su un brandello di foglio di giornale. "Se ti piace l'isola - mi ha detto - non dovresti perdere Scratching the surface. E' una raccolta di racconti brevi. Da' una prospettiva interessante sul luogo, perche' esplora la dark side dell'isola, quella che i turisti non vedono mai".
Fred mi ha ispirato fiducia. Un tipico uomo che qui definirebbero "down to earth": un po' sognatore, forse un hippy di mezza eta' stando allo scompigliato taglio di capelli, ma profondamente legato ai valori del bush e della terra, onorato dui avere nelle vene il sangue di un nonnno aborigeno. Ho allora conservato il suo post-it e dopo una ricerca alla biblioteca e alla libreria di Kingscote ho messo mano su Scratching the surface, scoprendo che il volume e' tutto frutto di penne locali: gli autori per divertimento del Dudley Writers'Group.
Mi piace pensare che la raccolta sia una conferma alla mia prima impressione sull'isola (vai al post): un paradiso dietro a cui si nasconde un diffuso dolore. Questa e' l'introduzione a Scratching the surface, firmata per il Dudley Writers' Group di Kangaroo Island da John Sabel:
Most people say that Kangaroo Island is a beautiful place, because that;s how it looks. But if you start scratching the surface you may find mysterious things, like a high scream in the wind ora darkness that grows or graves questions in the quiet.
I wish I could say that all the stories in the volume are fiction, but I can't. Just be thankful we've only been scratching not digging.
Divertente, ma un po' inquietante e' poi anche una sorta di preghiera-poesia che ho trovato appesa su un frigorifero:
Lord,
grant me the serenity to accept the things I cannot change,
the courage to change things I can,
and the wisdom to hide the bodies of the people I had to kill because they pissed me off.
grant me the serenity to accept the things I cannot change,
the courage to change things I can,
and the wisdom to hide the bodies of the people I had to kill because they pissed me off.
lunedì, giugno 18, 2007
La Germania, il footy e la lima nel road party di Vivonne Bay
Verso la meta' del secolo scorso, il viaggio dall'Europa all'Australia era un'odissea di sette settimane. Le imbarcazioni raccoglievano gli emigranti da tutti i principali porti europei, poi facevano rotta verso il canale di Suez, circumnavigavano la penisola indiana e approdavano a Fremantle, sulla costa occidentale dell'Australia. Quella piccola localita' vicina a Perth era il primo punto d'attracco del nuovo continente, prima di proseguire per Adelaide, Melbourne e Sydney, costeggiando tutta la costa sud. "Per un bambino come me - racconta Frank, uno dei quaranta abitanti di Vivonne Bay (foto)- era una magica esplorazione". Frank, che ora si avvicina ai settant'anni, allora ne aveva solo una decina, ma il suo ricordo del primo viaggio tra la Germania e il Sud Australia non e' stato scalfito dal tempo. "Ricordo molte cose perfettamente", prosegue. "Ricordo il taxi che mio padre noleggio' per poche lire durante il nostro scalo al Cairo e ricordo l'odore dell'India, cosi' forte che invase il ponte della nave quando ancora eravamo a tre giorni di navigazione dalla riva".
Quando Frank mi parla, a Vivonne Bay, nella costa sud occidentale di Kangaroo Island, e' in corso il rituale che si ripete quasi inalterato ogni fine settimana. E' uno scarno e schietto omaggio allo stare insieme. Alcuni locali lo chiamano "road party", perche' quando la notte avanza si esce di casa per consumare le ultime birre ai margini delle vie sterrate della frazione, alla luce di un fuoco improvvisato dentro un bidone.
La cena di questa meta' di giugno e' ospitata da Jimmy, soprannome del falegname Dean. La sua casa e' uno dei luoghi piu' battuti. Jimmy ha gia' qualche capello bianco e una figlia di due anni che scorrazza tra i giocattoli sparsi sul pavimento, ma la sua casa ha lo stesso la forma di un pub. Di fronte alla cucina c'e' il banco del bar con gli scabelli per gli ospiti; da un lato ci sono le mensole degli alcolici, con una collezione di spirits da tutto il mondo; e, sulla parete opposta, un vecchio giradischi fa ancora gracchiare una copiosa collezione di 33 giri. L'atmosfera creata e' volutamente quella di un rifugio di montagna: tutto e' intagliato in un legno scurissimo, le luci sono soffuse e la sagoma imbalsamata di un orso bruno occupa lo spazio lasciato libero dal mobiglio. Anche il caffe' che serve Becky, ha un'aroma alpina. Alla miscela che esce dalla sua Makita vecchio stile, la donna di casa aggiunge Amaretto di Saronno, panna e un cucchiaio ricoperto di cioccolato, mescolando una bevanda dal sapore caldo, cremoso e leggermente alcolico.
Solo il menu' ricorda che Vivonne Bay e' affacciata sull'oceano, cosi' vicina che le onde si sentono ovunque. Il piatto piu' ricco e' una copiosa teglia di ostriche, ricoperte di pomodoro, formaggio e bacon. Attorno a esso e' riunita una compagnia ristretta, a tratti allargata da un bevitore di passaggio sulla via per un'altra cena. Oltre a Dean e Backy, cognato e sorella di Brenton, l'apicoltore che mi ospita, c'e' lo scalpellino Matthew, il costruttore Dave e appunto Frank con la moglie Sylvia.
L'emigrato tedesco e' quello che mi parla di piu'. Forse perche', con la sua pionieristica esperienza di fattore in tutto il sud, e' quello che piu' ha da raccontarmi sulla storia di un paese a cui ormai appartiene interamente. Il suo racconto parte dal 1901, quando l'Australia si diede l'attuale assetto federale. Il governo approvo' all'epoca una nuova Costituzione, rivoluzionaria anche a livello sociale: per la prima volta la legge bandiva la schiavitu' aborigena. Anche i neri statuiva il documento erano manodopera degna di essere remunerata. "Per i fattori del tempo - narra Frank - fu un duro colpo. Pochi di loro fecero marcia indietro dalle loro posizioni razziste. Molti invece passarono al reclutamento di lavoratori dall'Europa. Fu in quei giorni che parti' la piu' grande ondata migratoria dalla Germania verso l'Australia. I nuovi migranti si insediarono spesso nelle comunita' tedesche gia' esistenti: interi paesi infatti erano stati trapiantati molti decenni prima, quando la Germania non era ancora una nazione e la caduta di un principe poteva costare la terra a tutti i suoi sudditi".
Frank mi versa un bicchiere di vino, un pregiato Shiraz dell'isola. "Sole in bottiglia", mi dice spostando la conversazione sulla partita di football che silenziosamente occupa lo schermo alle nostre spalle. Mi chiede se mi piace il "footy". Capisce che ne so poco e ne apprezzo ancora meno e allora tenta un arringa a difesa di una delle fedi sportive di questa terra. "E' uno sport rude, ti capisco, ma la sua storia e' un tutt'uno con la storia di questa nazione".
Il racconto di Frank parte questa volta dall'India. Nel dominio britannico, i primi coloni inglesi si trovarono a fronteggiare un estate tropicale con temperature intollerabili. Occorreva dunque un passatempo per cancellare la noia dei lunghi giorni afosi: un passatempo lento e poco dispendioso a livello fisico. Nacque cosi' il cricket: un antenato del baseball, dove le partite durano giorni e i giocatori si fermano per il te' piu' e piu' volte durante ogni match. Il gioco all'inizio fu concepito in maniera cosi' rilassata che, per le fasi di corsa, era addirittura previsto il ricorso a uno schiavo.
Il cricket si estese rapidamente a tutte le altre colonie inglesi, compresa la colonia penale piu' grande: l'Australia. I galeotti si trovarono pero' a fronteggiare un nuovo imprevisto climatico: il freddo dei mesi invernali, ostile a uno sport statico. Serviva dunque un palliativo per rimanere in forma tra una stagione e l'altra, uno sport tutta corsa e fiato. Gli Australiani buttarono giu' allora le prime regole del loro football, un gioco senza troppi limiti e ospitato in un campo di dimensioni quasi doppie rispetto a quelle del calcio. "Si stima - mi dice Frank al termine del suo racconto - che un giocatore professionistca corra oggi piu' di 20 Km a ogni incontro".
Quando Frank si allontana, Brenton e altri avventori mi mettono in guardia sull'attendibilita' della storia. Ma ne' per loro, ne' per me e' quello il momento migliore per aprire un libro e cercare conferme. Il road party e' ormai nella sua fase calda. Davanti alla capanna degli attrezzi di Jimmy il fuoco e' gia' acceso e nuovi ospiti sono radunati li' attorno per osservare il padrone di casa e i suoi primi ubriachi colpi al nuovo progetto: un cavallo a dondolo per la veranda. La testa ha gia' quasi una forma compiuta e Jimmy e' ottimista sul proseguio. "Con questo e' tutto un'altra cosa", dice mostrando la sua nuova lima, che passa di mano in mano in chiassosa contemplazione. Il feticismo che gli artigiani dell'isola hanno per i loro "hardware" ha da oggi un nuovo totem.
Quando Frank mi parla, a Vivonne Bay, nella costa sud occidentale di Kangaroo Island, e' in corso il rituale che si ripete quasi inalterato ogni fine settimana. E' uno scarno e schietto omaggio allo stare insieme. Alcuni locali lo chiamano "road party", perche' quando la notte avanza si esce di casa per consumare le ultime birre ai margini delle vie sterrate della frazione, alla luce di un fuoco improvvisato dentro un bidone.
La cena di questa meta' di giugno e' ospitata da Jimmy, soprannome del falegname Dean. La sua casa e' uno dei luoghi piu' battuti. Jimmy ha gia' qualche capello bianco e una figlia di due anni che scorrazza tra i giocattoli sparsi sul pavimento, ma la sua casa ha lo stesso la forma di un pub. Di fronte alla cucina c'e' il banco del bar con gli scabelli per gli ospiti; da un lato ci sono le mensole degli alcolici, con una collezione di spirits da tutto il mondo; e, sulla parete opposta, un vecchio giradischi fa ancora gracchiare una copiosa collezione di 33 giri. L'atmosfera creata e' volutamente quella di un rifugio di montagna: tutto e' intagliato in un legno scurissimo, le luci sono soffuse e la sagoma imbalsamata di un orso bruno occupa lo spazio lasciato libero dal mobiglio. Anche il caffe' che serve Becky, ha un'aroma alpina. Alla miscela che esce dalla sua Makita vecchio stile, la donna di casa aggiunge Amaretto di Saronno, panna e un cucchiaio ricoperto di cioccolato, mescolando una bevanda dal sapore caldo, cremoso e leggermente alcolico.
Solo il menu' ricorda che Vivonne Bay e' affacciata sull'oceano, cosi' vicina che le onde si sentono ovunque. Il piatto piu' ricco e' una copiosa teglia di ostriche, ricoperte di pomodoro, formaggio e bacon. Attorno a esso e' riunita una compagnia ristretta, a tratti allargata da un bevitore di passaggio sulla via per un'altra cena. Oltre a Dean e Backy, cognato e sorella di Brenton, l'apicoltore che mi ospita, c'e' lo scalpellino Matthew, il costruttore Dave e appunto Frank con la moglie Sylvia.
L'emigrato tedesco e' quello che mi parla di piu'. Forse perche', con la sua pionieristica esperienza di fattore in tutto il sud, e' quello che piu' ha da raccontarmi sulla storia di un paese a cui ormai appartiene interamente. Il suo racconto parte dal 1901, quando l'Australia si diede l'attuale assetto federale. Il governo approvo' all'epoca una nuova Costituzione, rivoluzionaria anche a livello sociale: per la prima volta la legge bandiva la schiavitu' aborigena. Anche i neri statuiva il documento erano manodopera degna di essere remunerata. "Per i fattori del tempo - narra Frank - fu un duro colpo. Pochi di loro fecero marcia indietro dalle loro posizioni razziste. Molti invece passarono al reclutamento di lavoratori dall'Europa. Fu in quei giorni che parti' la piu' grande ondata migratoria dalla Germania verso l'Australia. I nuovi migranti si insediarono spesso nelle comunita' tedesche gia' esistenti: interi paesi infatti erano stati trapiantati molti decenni prima, quando la Germania non era ancora una nazione e la caduta di un principe poteva costare la terra a tutti i suoi sudditi".
Frank mi versa un bicchiere di vino, un pregiato Shiraz dell'isola. "Sole in bottiglia", mi dice spostando la conversazione sulla partita di football che silenziosamente occupa lo schermo alle nostre spalle. Mi chiede se mi piace il "footy". Capisce che ne so poco e ne apprezzo ancora meno e allora tenta un arringa a difesa di una delle fedi sportive di questa terra. "E' uno sport rude, ti capisco, ma la sua storia e' un tutt'uno con la storia di questa nazione".
Il racconto di Frank parte questa volta dall'India. Nel dominio britannico, i primi coloni inglesi si trovarono a fronteggiare un estate tropicale con temperature intollerabili. Occorreva dunque un passatempo per cancellare la noia dei lunghi giorni afosi: un passatempo lento e poco dispendioso a livello fisico. Nacque cosi' il cricket: un antenato del baseball, dove le partite durano giorni e i giocatori si fermano per il te' piu' e piu' volte durante ogni match. Il gioco all'inizio fu concepito in maniera cosi' rilassata che, per le fasi di corsa, era addirittura previsto il ricorso a uno schiavo.
Il cricket si estese rapidamente a tutte le altre colonie inglesi, compresa la colonia penale piu' grande: l'Australia. I galeotti si trovarono pero' a fronteggiare un nuovo imprevisto climatico: il freddo dei mesi invernali, ostile a uno sport statico. Serviva dunque un palliativo per rimanere in forma tra una stagione e l'altra, uno sport tutta corsa e fiato. Gli Australiani buttarono giu' allora le prime regole del loro football, un gioco senza troppi limiti e ospitato in un campo di dimensioni quasi doppie rispetto a quelle del calcio. "Si stima - mi dice Frank al termine del suo racconto - che un giocatore professionistca corra oggi piu' di 20 Km a ogni incontro".
Quando Frank si allontana, Brenton e altri avventori mi mettono in guardia sull'attendibilita' della storia. Ma ne' per loro, ne' per me e' quello il momento migliore per aprire un libro e cercare conferme. Il road party e' ormai nella sua fase calda. Davanti alla capanna degli attrezzi di Jimmy il fuoco e' gia' acceso e nuovi ospiti sono radunati li' attorno per osservare il padrone di casa e i suoi primi ubriachi colpi al nuovo progetto: un cavallo a dondolo per la veranda. La testa ha gia' quasi una forma compiuta e Jimmy e' ottimista sul proseguio. "Con questo e' tutto un'altra cosa", dice mostrando la sua nuova lima, che passa di mano in mano in chiassosa contemplazione. Il feticismo che gli artigiani dell'isola hanno per i loro "hardware" ha da oggi un nuovo totem.
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