Ricordo una chiacchierata di un po' di tempo fa con il mio vecchio compagno di liceo e socio escursionistico Edo. Stavo riflettendo sul fatto, piuttosto curioso, che conoscevo meglio Kathmandu di Roma, che ero stato cinque o sei volte a Pianbaruzzoli ma mai a Napoli. Edo, citando qualcuno che non ricordo piu', mi etichetto' come "tipo di periferia". Era forse scontato quindi che finissi per mettere piede in Australia, il continente piu' periferico del globo, abbandonato a se' stesso nel centro del Pacifico e puntellato da comunita' separate da distanze siderali (Planisferi australiani). Vi sono rimaso per sei mesi in questa mia prima tappa "down under" e in questo periodo relativamente lungo ho cercato di onorare al massimo la lontananza dal resto del mondo che caratterizza il luogo: per 180 giorni non ho letto una riga da un giornale italiano (neppure online) e, non appena l'inglese ha messo ali piu' robuste, ho lasciato la metropoli, Sydney, per esplorare la periferia della perriferia: la piccola comunita' di Batchelor nei Territori del Nord (post 1, 2 e foto 1,2,3), 4) e il mondo a parte di Kangaroo Island (post 1, 2, 3, 4, 5 e foto 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8).
Guardando i giardini botanici di Sydney dalle vetrate della New South Wales State Library, da dove scrivo, sono gia' certo che questa periferia mi manchera' presto. Mi manchera' in primo luogo il gioco di "cattura storie" che mi sono piano piano costruito. Era gia' divertente inscenarlo quando per il piccolo mensile La Piazza intervistavo i personaggi "figurine" dei quartieri di Bologna. Ma qui a tratti e' stata l'apoteosi. Muovendo pietre con chi muoveva pietre, cucinando con chi cucinava, tagliando legna con chi tagliava legna e allevando api con chi allevava api, ho avuto il privilegio di recuperare aneddoti sparsi in lunghe chiacchierate informali, piu' sporche di un'intervista ma anche piu' imprevedibili. Senza blocco appunti tra le mani, addobbato come un brutto anatroccolo, mi sono goduto il piacere di ascoltare storie senza fare domande.
L'Australia d'altra parte sembra essere stata pensata per produrre intrecci narrativi. Dato il carattere multietnico del suo tessuto sociale, nove persone su dieci hanno una traiettoria di vita che si ramifica nel mondo, dipanandosi lungo una serie infinita di cambi di direzione. E, dato lo scarso peso della storia nazionale, molti sembrano identificarsi piu' che altrove nella propria storia personale. Una storia che al mondo interessa poco e che quindi scorre a fiumi appena trova un terreno adatto su cui riversarsi. Una storia che, nelle zone rurali, diventa il simbolo del sodalizio tra uno straniero dai vestiti consunti in cerca di ospitalita' e un australiano con una tenuta meravigliosa in cerca di compagnia.
Da questo mondo lontano, dove ogni caffe' puo' dare il via a chiacchierate interminabili, mi manchera' anche la sciettezza dei rapporti lavorativi. Non sempre sono facili. Le relazioni di potere, anzi, qui sono palpabili e scarsamente negoziabili. Il ragionamento e' matematico: sei pagato, agisci. Non c'e' alcun ammortizzatore di "cortesia" nell'ordine. Ma, al contempo, non c'e' neppure il tentativo di spostare la ricompensa sul piano simbolico. I complimenti arrivano, copiosi e calorosi a volte, ma non sono mai dedotti dalla paga: quale che sia il piacere che si condivide nel raggiungere un obiettivo, la soddisfazione resta sempre su un piano parallelo rispetto alla transazione economica.
Nelle relazioni lavorative australiane e' poi stimolante l'approccio all'esperienza. In Italia e' piu' che altro un forte freno: sembra non essere mai sufficiente per andare oltre e la sua presunta carenza e' costantemente ventilata assieme allo spettro dell'errore. In Australia, invece, l'esperienza e' una risorsa rinnovabile: c'e' la costante fiducia nella possibilita' di costruirsela in pochi tentativi e gli errori di percorso sono contemplati con sorridente ottimismo. "Provaci" e' il messaggio.
Il messaggio arriva con il supporto di un sistema economico pensato per provarci. Ottenere credito e' facile. Se manca il capitale, un salto in miniera per un paio di mesi consente di capitalizzare migliaia di dollari (4.000 a settimana circa). E un cottage sulla baia di Sydney costa meno di un cesso-locale tra le pantegane del Navile a Bologna.
Rimanere in Australia per la vita resta pero' una decisione controversa. Il pensiero mi ha attraversato piu' e piu' volte (lo fa tuttora), ma accompagnato dalla dark side di questo continente. Il lato oscuro e' immateriale. Se l'Australia e' una delle nazioni con il piu' alto tasso di suicidi nel mondo, non e' certo perche' manca qualcosa. E' forse il contrario. Il facile accesso a una grande casa, una grande auto e una grande spiaggia droga questo paese di un ipermaterialismo, tanto perfetto quanto noioso. E' un po' come se l'Australia fosse una grande Svizzera.
Questa angoscia sociale e' affiorata per esempio nei quattro giorni trascorsi a Victor Harbor (post 1 e foto 1, 2). La localita' gongola nella ricchezza, vantando consistenti flussi turistici sulla costa e redditizi commerci agricoli nell'interno. Tutte le persone con cui ho parlato nello sporting club erano fottutamente di successo: due o tre proprieta', posti coperti per il golf e fuoristrada oceanici. Ma nessuno e' mai andato oltre il "not so bad", lamentando un fastidio di fondo.
Questo spleen prende una forma ancora piu' chiara tra coloro che sono approdati a queste latitudini in tempi recenti. Pochi giorni fa ho pranzato con Jeanne, la moglie del proprietario del Jolly Swagman, l'ostello in cui alloggio. Ha sposato Matthew dopo averlo conosciuto lungo l'Inca Trail. "Allora - dice - non pensavo ne' alle mie radici ne' alla mia famiglia, ma ora mi accorgo che il mio unico desiderio e' portare in Europa la mia figlioletta di un anno e mezzo. La mia casa e' meravigliosa e i posti che puoi raggiungere da qui - il sud est asiatico e le Fiji - sono meravigliosi, ma sono stanca di spiagge. Vorrei quella sensazione di cultura che qui non c'e': le colline della Toscana, i castelli della Scozia e i caffe' di Parigi. Tutti cosi' vicini in termini australiani, ma cosi' diversi tra loro".
La vecchia Europa resta anche nei pensieri di George. E' un capocantiere sui 35 anni. E' nato in Australia, ma e' cresciuto a Belgrado, dove e' rimasto con la famiglia fino allo scoppio della guerra. Ora e' a Sydney da quasi 15 anni. "Amo questo paese - racconta - alla stessa stregua con cui lo odio. Ti da' tutto, ma ti toglie l'anima. Perdi le tue radici senza la possibilita' di fartene di nuove perche' l'Australia non ne ha. L'anno scorso sono tornato a Belgrado per due mesi: ho ancora una proprieta' da controllare ogni tanto. Quando sono atterrato di nuovo a Sydney, con l'unico pensiero del lavoro, credo di aver pianto per la prima volta nella mia vita".
La fame di Europa di Jeanne e George e' la stessa che Malu' mi manifesto' per l'Algeria e che Surandra ha per l'Asia. Surandra lavora qua e la' per pagarsi i suoi studi in accounting. E' originario di Pockara in Nepal, dove non rientra da quasi due anni. Non edulcolora la miseria della guerra civile che si e' lasciato alle spalle, ma non riescie neppure a sorridere alla sua nuova vita. "Sono confuso - ammette laconico - mi fanno pensare solo ai soldi dopo che per tutta una vita non ne avevo mai parlato".
Questi sentimenti sono probabilmente universali, trasversali a tutti coloro che vivono lontano, ma in Australia la lontananza e' piu' grande. L'altro mondo, quale esso sia, e' a 24 ore di aereo, $2000 di biglietto, due mesi di prenotazione e una valigia che deve fare i conti con le stagioni invertite. Neppure una telefonata con 10 ore di fuso orario di mezzo riescie semplice. Il rischio, insomma, e' di rimanere preda della smania di tornare. Desiderarlo fino al punto di farlo e ritrovarsi poi in un mondo sconosciuto. Mi hanno gia' raccontato un paio di volte per esempio la storia della signora spagnola che tesseva le lodi della sua terra casta e pia. Dopo anni vi torno' per il matrimonio della nipote, che, con una trama degna di Almodovar, si stava sposando con un'altra donna.
Per ora comunque questi tormenti da emigrante mi sono estranei. Lascio un paese con la voglia e la possibilita' di tornarci. Piacevolmente rilassato e, al di la' di ogni nostalgia australe, curioso di rimettere piede nella mia Romagna, che, dopo sei mesi, mi riservera' sicuramente qualche novita'. Le vedro' con calma, concedendomi al piu' presto un lusso tutto italico: prendere l'auto per qualche ora e guidare dagli Appennini al mare, attraversando la pianura e scrutando le Alpi. Probabilmente ci sara' qualche ingorgo a cui non sono piu' abituato, ma cerchero' di non dilapidare la lezione australiana. Che di fatto e' molto semplice: "Easy mate, take it easy".
Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
domenica, luglio 22, 2007
martedì, luglio 17, 2007
Ritorno alle Blue Mountains
Le Blue Mountains furono il mio bagnato debutto nella natura australiana: scorci di paesaggio tra le nuvole (foto 1 e foto 2) e una chiacchierata con un'anziana signora. A quasi sei mesi da quella prima uscita da Sydney vi ho rimesso piede: nell'aria fresca dell'inverno ma con un cielo finalmente limpido.
mercoledì, luglio 11, 2007
Lungo la Nullarbor Plain basta una faccia sorridente
Deportazioni di detenuti, corsa all'oro, naufragi, scontri con gli aborigeni e scandali finanziari. Nella storia di Perth (foto), che non va oltre il 1820, entrano tutti gli ingredienti della vita pionieristica. Una passeggiata per i corridoi del Western Australia Museum e' il modo piu' semplice per ripercorrere la tormentata evoluzione della capitale di stato piu' isolata al mondo e uscirne con uno spirito di compartecipazione al doloroso destino di coloni strappati alle loro terre d'origine, illusi di una nuova ricchezza con fattorie estese quanto nazioni e poi ricacciati a una vita di stenti da un territorio sterminato, meno fertile del previsto e tagliato fuori dal resto del mondo e dalle piu' "popolose" colonie orientali.
Il Western Australia Museum si affaccia emblematicamente sul Perth Cultural Center, affiancato dalla galleria d'arte moderna e da un istituto culturale dedicato ai nuovi media. Quasi un segnale architettonico per dire che Perth ha voltato pagina: il suo passato, per quanto recente, e' comunque passato, dietro le spalle, all'ombra dei nuovi grattacieli. La corsa all'oro prima e il turismo poi hanno in effetti trasformato un piccolo borgo in una metropoli di un milione e mezzo di abitanti, abbellita da una sky line paragonabile a quella di Sydney e da un parco urbano che da solo ospita piu' specie di orchidee dell'intera Europa.
Perth rimane pero' una citta' con una composizione sociale ancora instabile, ancora pionieristica. Nelle sue camerate, fatto estraneo alle altre citta' australiane, trovano posto eserciti di senza casa e migranti alla ricerca di lavoro nelle mieniere di Kalgorlie. Chi non ha niente e tenta disperatamente di strappare qualcosa al piu' presto sembra cioe' guardare ancora a Perth come meta privilegiata per raggranellare una fortuna. O, piu' spesso, per trovare un po' di compagnia e annegare la sfortuna in una birra e in una chitarra.
E' in questa citta' di grandi distanze, grandi boom e grandi fallimenti che si puo' incontrare piu' facilmente che altrove una donna di mezza eta' tedesca in viaggio verso il suo sogno naturalistico. Non ne so il nome, dimenticato o forse mai detto, ma ne ricordo il profilo professionale. A parlarmi, tra le mura del Governor's Lodge, un vecchio cottage restaurato nel sobborgo di Northbridge, era una geologa arricchita da una passione per la botanica. Era li' con un visto turistico, senza un'idea precisa di dove sistemarsi, ma con la speranza di trovare un lavoro tra le foreste di Jarra del West Australia o le sequioe secolari della Tasmania. Certamente era tesa per il colloquio che era riuscita a procacciarsi per il giorno successivo. E forse aveva voglia di parlare per rendere il suo sogno un po' piu' reale di un mero viaggio cerebrale.
"Hai affrontato la questione aborigena?" mi ha chiesto quasi all'improvviso. "Intendo, hai scambiato qualche battuta con loro?".
"Neanche una" rispondo. "Gli Aborigeni che ho incontrati sono stati solo quelli seduti ai margini delle strade di Alice e Darwin. Ubriachi, storditi dalla benzina e con un aspetto mostruoso. Troppo, troppo ostili".
"Gia', e' capitato lo stesso anche a me scendendo per la costa occidentale. Erano tutti troppo diversi e visibilmente estraniati per provare un approccio". "Pero' - prosegue dopo una pausa - negli ultimi due giorni ho speso la maggior parte del tempo a consultare libri sulla storia dell'Australia alla biblioteca di stato di Perth. Ne ho anche acquistati alcuni" mi dice indicandomi testi datati che le biblioteche mettono in vendita per pochi dollari. "Guarda - prosegue aprendo alcune pagine con raffigurati disegni a matita di meta' Ottocento - guarda come i coloni ritraevano gli aborigeni. Siedono a gruppi ai margini della folla, come oggi. Ma le loro facce sono incredibili: sono volti europei. I coloni cercavano di esorcizzare la paura degli aborigeni rendendoli simili a loro".
La geologa tedesca chiude il testo, lo ripone nella valigia. Poi si china di nuovo ed estrae una pergamena. La srotola sul letto e additandola si rivolge a me una volta ancora. "Guarda anche questi dipinti a sfondo pastorale. Osserva gli alberi, il fiume e le dame sedute all'ombra. Sono dipinti dei coloni australiani, ma sembrano provenire dalla Francia o dalla Gran Bretagna. Tutte le piante d'alto fusto qui in Australia tendono ad avere una chioma molto ampia, proiettata verso l'esterno. Biologicamente e' per loro vitale: i rami offrono alle radici l'ombra necessaria a difenderle dal sole estivo. Ma nei dipinti queste caratteristiche scompaiono. Gli eucalipti di questi disegni hanno la forma degli alberi europei: alti e slanciati alla ricerca della luce".
"Nostalgia - conclude la mia interlocrutrice - L'unico sentimento che i primi pittori australiani riuscivano a proiettare sulla tela era la nostalgia. Non riuscivano a vedere nulla di interessante in questo paese, che anzi suscitava loro un timore viscerale. Io lo trovo invece cosi' unico e affascinante e a ogni passo spero un po' piu' di prima di poterci restare".
Tra me e l'epilogo del sogno della geologa tedesca ci sono ora miglia di chilometri. Forse il giorno successivo ha trovato il suo lavoro nel West o forse dopo poche ore ha ripreso anche lei la via dell'est, facendo rotta attraverso la Nullarbor Plain, la pianura che divide in due il continente separando Adelaide da Perth. Io l'ho attraversata due volte in treno, impiegando ogni volta due giorni e mezzo. La Nullarbor Plain e' una distesa quasi interamente priva di alberi ad alto fusto (da qui il nome), colorata dal verde scuro del salt bush. Fino a dieci milioni di anni fa era un mare, mentre ora e' un deserto salato. L'unico abitato lungo la linea ferroviaria e' Cook (foto), con due soli abitanti. C'e' poi la macchia verde di Forrest, un pugno di alberi piantati in onore di Forrest, il Premier australiano che per primo riusci' a camminare da un lato all'altro della distesa. E infine, ogni tre o quattro ore di viaggio c'e' una jeep di fronte alla quale il treno fa sosta: i fattori dell'outback sono li' per prendere dall'Indian Pacific giornali, provviste e acqua nei periodi piu' secchi.
La Nullarbor Plain ha poco da raccontare, talmente poche sono le voci che riempiono la sua superficie, grande come undici volte il Belgio. Ma nell'ultima colazione a bordo, prima dell'approssimarsi di Perth, la mia attenzione e' stata portata a un grumo di rocce appena visibili all'orizzonte. Al mio tavolo si siede Trevor, night manager dell'Indian Pacific. Si aggancia alla conversazione in corso con gli altri passeggeri, piu' che altro un elenco di consigli di lettura a sfondo australiano. Poi sposta l'accento sulle mie origini italiane. "Forse - mi dice - non hai nemmeno notato i ruderi che abbiamo costeggiato alcune ore fa, ma in qualche modo ti riguardano. Erano un campo di prigionia, un campo di prigionia italiano. Allo scoppio della guerra, alcuni immigrati italiani e forse anche alcuni tedeschi sono stati deportati li' per evitare congiure ai danni dell'esercito australiano alleato agli americani e agli inglesi". La sorpresa alla notizia si legge nelle facce di tutti coloro in ascolto e Trevor prosegue allora difendendo la scelta degli Australiani di allora. "Lo so che sembra un destino crudele e ingiusto. Molti di coloro che sono finiti laggiu' erano qui da tempo, probabilmente estranei al destino del loro paese d'origine, ma tant'e', in periodo di guerra le valutazioni cambiano e perdono in lucidita'".
La conversazione a bordo dell'Indian Pacific e' stata presto interrotta dall'arrivo a Perth, ma da quelle poche battute sono nati quattro giorni, di quelli che piu' riescono a meravigliarmi. Quattro giorni in grembo a un'altra famiglia australiana. Quattro giorni di fugaci e cordiali visite a figli e nipoti. Quattro giorni di sport nel club di Victor Harbor. Quattro giorni tra gamberetti e vino rosso. Quattro giorni tra il verde della Back Valley (foto) e le rocce di Granite Island (foto). Quattro giorni nella fattoria del night manager dell'Indian Pacific, dove Trevor mi ha invitato a fine viaggio, mentre dal binario ero gia' in cammino sulla via di Perth.
I quattro giorni a Victor Harbor, un'ottantina di Km a sud-est di Adelaide, sono quelle meraviglie di percorso che so che presto rimpiangero' dell'Australia. Viaggi nel cuore di nuclei familiari che nascono nel giro di poche parole, di una birra o di un saluto per strada. Una totale condivisione di spazi fisici e sociali fondata su una fiducia assoluta e immediata nel prossimo. Una fiducia a cui non ho ancora trovato spiegazione, se non forse considerarla una sorta di antidoto allo spleen che a volte serpeggia nelle zone piu' abbandonate del continente.
"Perche'?" ho chiesto esplicitamente a Trevor l'ultima sera. "Perche' hai violato la privacy della tua casa e della tua famiglia per ospitarmi qui senza alcun preavviso, senza nulla in cambio, senza sapere con esattezza che diavolo mi poteva frullare in testa?".
La risposta e' stata vaga, come quando si chiede di riflettere su qualcosa che da sempre si da' per scontato. "Non sei stato l'unico viaggiatore a fare sosta qui" ha replicato lui, elencandomi altri quattro o cinque esempi. "E' capitato ogni volta che mi sono goduto una conversazione interessante e ho avuto voglia di saperne di piu'".
"Quattro chiacchiere in piu' - dico - questo e' normale. Ma qui c'e' in gioco molto di piu': la tua casa, il tuo cibo, il tuo vino e tutte le tue relazioni familiari e sociali. Non credo che l'Italia sia un luogo inospitale, ma prima di condividere tutto quanto ho appena elencato credo che ogni italiano pretenda una certa marcia di avvicinamento. Non so quanto lunga, ma certo piu' lunga di uno scambio di battute sul treno".
"E a che pro tutti questi preamboli?" rispode quasi stupito Trevor. "Avevi una faccia sorridente".
Il Western Australia Museum si affaccia emblematicamente sul Perth Cultural Center, affiancato dalla galleria d'arte moderna e da un istituto culturale dedicato ai nuovi media. Quasi un segnale architettonico per dire che Perth ha voltato pagina: il suo passato, per quanto recente, e' comunque passato, dietro le spalle, all'ombra dei nuovi grattacieli. La corsa all'oro prima e il turismo poi hanno in effetti trasformato un piccolo borgo in una metropoli di un milione e mezzo di abitanti, abbellita da una sky line paragonabile a quella di Sydney e da un parco urbano che da solo ospita piu' specie di orchidee dell'intera Europa.
Perth rimane pero' una citta' con una composizione sociale ancora instabile, ancora pionieristica. Nelle sue camerate, fatto estraneo alle altre citta' australiane, trovano posto eserciti di senza casa e migranti alla ricerca di lavoro nelle mieniere di Kalgorlie. Chi non ha niente e tenta disperatamente di strappare qualcosa al piu' presto sembra cioe' guardare ancora a Perth come meta privilegiata per raggranellare una fortuna. O, piu' spesso, per trovare un po' di compagnia e annegare la sfortuna in una birra e in una chitarra.
E' in questa citta' di grandi distanze, grandi boom e grandi fallimenti che si puo' incontrare piu' facilmente che altrove una donna di mezza eta' tedesca in viaggio verso il suo sogno naturalistico. Non ne so il nome, dimenticato o forse mai detto, ma ne ricordo il profilo professionale. A parlarmi, tra le mura del Governor's Lodge, un vecchio cottage restaurato nel sobborgo di Northbridge, era una geologa arricchita da una passione per la botanica. Era li' con un visto turistico, senza un'idea precisa di dove sistemarsi, ma con la speranza di trovare un lavoro tra le foreste di Jarra del West Australia o le sequioe secolari della Tasmania. Certamente era tesa per il colloquio che era riuscita a procacciarsi per il giorno successivo. E forse aveva voglia di parlare per rendere il suo sogno un po' piu' reale di un mero viaggio cerebrale.
"Hai affrontato la questione aborigena?" mi ha chiesto quasi all'improvviso. "Intendo, hai scambiato qualche battuta con loro?".
"Neanche una" rispondo. "Gli Aborigeni che ho incontrati sono stati solo quelli seduti ai margini delle strade di Alice e Darwin. Ubriachi, storditi dalla benzina e con un aspetto mostruoso. Troppo, troppo ostili".
"Gia', e' capitato lo stesso anche a me scendendo per la costa occidentale. Erano tutti troppo diversi e visibilmente estraniati per provare un approccio". "Pero' - prosegue dopo una pausa - negli ultimi due giorni ho speso la maggior parte del tempo a consultare libri sulla storia dell'Australia alla biblioteca di stato di Perth. Ne ho anche acquistati alcuni" mi dice indicandomi testi datati che le biblioteche mettono in vendita per pochi dollari. "Guarda - prosegue aprendo alcune pagine con raffigurati disegni a matita di meta' Ottocento - guarda come i coloni ritraevano gli aborigeni. Siedono a gruppi ai margini della folla, come oggi. Ma le loro facce sono incredibili: sono volti europei. I coloni cercavano di esorcizzare la paura degli aborigeni rendendoli simili a loro".
La geologa tedesca chiude il testo, lo ripone nella valigia. Poi si china di nuovo ed estrae una pergamena. La srotola sul letto e additandola si rivolge a me una volta ancora. "Guarda anche questi dipinti a sfondo pastorale. Osserva gli alberi, il fiume e le dame sedute all'ombra. Sono dipinti dei coloni australiani, ma sembrano provenire dalla Francia o dalla Gran Bretagna. Tutte le piante d'alto fusto qui in Australia tendono ad avere una chioma molto ampia, proiettata verso l'esterno. Biologicamente e' per loro vitale: i rami offrono alle radici l'ombra necessaria a difenderle dal sole estivo. Ma nei dipinti queste caratteristiche scompaiono. Gli eucalipti di questi disegni hanno la forma degli alberi europei: alti e slanciati alla ricerca della luce".
"Nostalgia - conclude la mia interlocrutrice - L'unico sentimento che i primi pittori australiani riuscivano a proiettare sulla tela era la nostalgia. Non riuscivano a vedere nulla di interessante in questo paese, che anzi suscitava loro un timore viscerale. Io lo trovo invece cosi' unico e affascinante e a ogni passo spero un po' piu' di prima di poterci restare".
Tra me e l'epilogo del sogno della geologa tedesca ci sono ora miglia di chilometri. Forse il giorno successivo ha trovato il suo lavoro nel West o forse dopo poche ore ha ripreso anche lei la via dell'est, facendo rotta attraverso la Nullarbor Plain, la pianura che divide in due il continente separando Adelaide da Perth. Io l'ho attraversata due volte in treno, impiegando ogni volta due giorni e mezzo. La Nullarbor Plain e' una distesa quasi interamente priva di alberi ad alto fusto (da qui il nome), colorata dal verde scuro del salt bush. Fino a dieci milioni di anni fa era un mare, mentre ora e' un deserto salato. L'unico abitato lungo la linea ferroviaria e' Cook (foto), con due soli abitanti. C'e' poi la macchia verde di Forrest, un pugno di alberi piantati in onore di Forrest, il Premier australiano che per primo riusci' a camminare da un lato all'altro della distesa. E infine, ogni tre o quattro ore di viaggio c'e' una jeep di fronte alla quale il treno fa sosta: i fattori dell'outback sono li' per prendere dall'Indian Pacific giornali, provviste e acqua nei periodi piu' secchi.
La Nullarbor Plain ha poco da raccontare, talmente poche sono le voci che riempiono la sua superficie, grande come undici volte il Belgio. Ma nell'ultima colazione a bordo, prima dell'approssimarsi di Perth, la mia attenzione e' stata portata a un grumo di rocce appena visibili all'orizzonte. Al mio tavolo si siede Trevor, night manager dell'Indian Pacific. Si aggancia alla conversazione in corso con gli altri passeggeri, piu' che altro un elenco di consigli di lettura a sfondo australiano. Poi sposta l'accento sulle mie origini italiane. "Forse - mi dice - non hai nemmeno notato i ruderi che abbiamo costeggiato alcune ore fa, ma in qualche modo ti riguardano. Erano un campo di prigionia, un campo di prigionia italiano. Allo scoppio della guerra, alcuni immigrati italiani e forse anche alcuni tedeschi sono stati deportati li' per evitare congiure ai danni dell'esercito australiano alleato agli americani e agli inglesi". La sorpresa alla notizia si legge nelle facce di tutti coloro in ascolto e Trevor prosegue allora difendendo la scelta degli Australiani di allora. "Lo so che sembra un destino crudele e ingiusto. Molti di coloro che sono finiti laggiu' erano qui da tempo, probabilmente estranei al destino del loro paese d'origine, ma tant'e', in periodo di guerra le valutazioni cambiano e perdono in lucidita'".
La conversazione a bordo dell'Indian Pacific e' stata presto interrotta dall'arrivo a Perth, ma da quelle poche battute sono nati quattro giorni, di quelli che piu' riescono a meravigliarmi. Quattro giorni in grembo a un'altra famiglia australiana. Quattro giorni di fugaci e cordiali visite a figli e nipoti. Quattro giorni di sport nel club di Victor Harbor. Quattro giorni tra gamberetti e vino rosso. Quattro giorni tra il verde della Back Valley (foto) e le rocce di Granite Island (foto). Quattro giorni nella fattoria del night manager dell'Indian Pacific, dove Trevor mi ha invitato a fine viaggio, mentre dal binario ero gia' in cammino sulla via di Perth.
I quattro giorni a Victor Harbor, un'ottantina di Km a sud-est di Adelaide, sono quelle meraviglie di percorso che so che presto rimpiangero' dell'Australia. Viaggi nel cuore di nuclei familiari che nascono nel giro di poche parole, di una birra o di un saluto per strada. Una totale condivisione di spazi fisici e sociali fondata su una fiducia assoluta e immediata nel prossimo. Una fiducia a cui non ho ancora trovato spiegazione, se non forse considerarla una sorta di antidoto allo spleen che a volte serpeggia nelle zone piu' abbandonate del continente.
"Perche'?" ho chiesto esplicitamente a Trevor l'ultima sera. "Perche' hai violato la privacy della tua casa e della tua famiglia per ospitarmi qui senza alcun preavviso, senza nulla in cambio, senza sapere con esattezza che diavolo mi poteva frullare in testa?".
La risposta e' stata vaga, come quando si chiede di riflettere su qualcosa che da sempre si da' per scontato. "Non sei stato l'unico viaggiatore a fare sosta qui" ha replicato lui, elencandomi altri quattro o cinque esempi. "E' capitato ogni volta che mi sono goduto una conversazione interessante e ho avuto voglia di saperne di piu'".
"Quattro chiacchiere in piu' - dico - questo e' normale. Ma qui c'e' in gioco molto di piu': la tua casa, il tuo cibo, il tuo vino e tutte le tue relazioni familiari e sociali. Non credo che l'Italia sia un luogo inospitale, ma prima di condividere tutto quanto ho appena elencato credo che ogni italiano pretenda una certa marcia di avvicinamento. Non so quanto lunga, ma certo piu' lunga di uno scambio di battute sul treno".
"E a che pro tutti questi preamboli?" rispode quasi stupito Trevor. "Avevi una faccia sorridente".
martedì, luglio 03, 2007
In diretta da Canberra i "ciceroni" del cambiamento climatico
L'Australia si sta avvicinando a un'importante scadenza elettorale. Tra poche settimane l'intero paese sara' chiamato alle urne per il rinnovo del parlamento federale.
Il governo uscente e' quello del conservatore John Howard, al potere da circa un decennio. Un lungo arco di tempo contraddistinto da una costante crescita economica, ma anche da scelte estreme, che sul fronte lavorativo hanno per esempio sancito la messa al bando delle rappresentanze sindacali. Gli Australiani sembrano stanchi di questa lunga maratona produttiva e i sondaggi danno in vantaggio i democratici. In caso di vittoria, manderebbero al governo Kevin Rudd, la cui moglie e' in questi giorni impegnatissima a svendere ogni suo capitale per fugare le accuse di conflitto di interessi lanciate dalla stampa.
La campagna elettorale ha toni epici. Le immagini sembrano in diretta dal Senato dell'Antica Roma. Howard e Rudd si confrontano con ciceroniane battaglie retoriche. Siedono uno di fronte all'altro e ocupano i rispettivi tempi di eloquoi con gesti magniloquenti. A volte richiamano l'attenzione dei propri compagni di partito, compostamente seduti alle spalle. A volte si concentrano sulle statistiche alla base delle loro lunghe argomentazioni. Ma per lo piu' si sfottono in modo quasi infantile alla "pappappero". L'improperio piu' comune, cosi' a primo acchito, e' "pinguino".
Quando, sporadicamente, il confronto esce dalle metafore animalesche, i temi in gioco sono in parte simili a quelli italiani. Su tutti, la precarizzazione della forza lavoro e poi a seguire il taglio dei fondi alla scuola, la preoccupazione per le massiccie percentuali del mercato agricolo conquistate dalla Cina e la questione salute in senso lato, dalle norme anti-fumo (severissime) alle terapie genetiche.
Tra questi temi internazionali si nasconde pero' qualche issue tipicamente australiana. Gli animali ne sono un esempio. Sono costantemente sull'agenda politica. Da una settimana largo s[pazio e' dato per esempio al vertici sulle balene in corso in Alaska, dove gli Australiani stanno infruttuosamente facendo pressione sul Giappone per ridurre il numero degli esemplari uccisi. Poi, novita' dell'ultima ora, sono i flying foxes, ovvero una specie di pipistrello che, sospinta dalla siccita' ha abbandonato il suo habitat naturale nell'outback, per trasferirsi nelle "popolose" rive della east coast.
Il tema australiano per eccellenza e' comunque il cambiamente climatico. Paradossalmente, una delle piu' disabitate lande del pianeta - una nazione di 20 milioni di persone grande come gli Stati Uniti - e' la piu' colpita dalle bizzarrie del clima. Nei tropici si affogano, sino a perdere il conto degli allagamenti. Nel sud muoiono di sete. E nelle ricche citta' di Melbourne e Sydney, una buona fetta della popolazione viene colpita dal tumore alla pelle a causa del buco dell'ozono che sovrasta il polo sud.
Per esorcizzare questi problemi, che, a ben vedere, sono sempre stati connaturati a questo continente naturalisticamente indomabile, il clima e il suo presente cambiamento sono sempre in onda. Cosi' centrali che per essi c'e' addirittura un ministro preposto. Si', il Ministro per il cambiamento climatico. La sua intervista pochi giorni fa e' stata affiancata a quella di uno degli uomini piu' anziani dell'Australia. A novant'anni suonati, qual era il desiderio del vecchietto? Ovviamente, sopravvivere per altri trent'anni in modo da vedere il clima che la sua generazione aveva riservato per quella successiva.
Il governo uscente e' quello del conservatore John Howard, al potere da circa un decennio. Un lungo arco di tempo contraddistinto da una costante crescita economica, ma anche da scelte estreme, che sul fronte lavorativo hanno per esempio sancito la messa al bando delle rappresentanze sindacali. Gli Australiani sembrano stanchi di questa lunga maratona produttiva e i sondaggi danno in vantaggio i democratici. In caso di vittoria, manderebbero al governo Kevin Rudd, la cui moglie e' in questi giorni impegnatissima a svendere ogni suo capitale per fugare le accuse di conflitto di interessi lanciate dalla stampa.
La campagna elettorale ha toni epici. Le immagini sembrano in diretta dal Senato dell'Antica Roma. Howard e Rudd si confrontano con ciceroniane battaglie retoriche. Siedono uno di fronte all'altro e ocupano i rispettivi tempi di eloquoi con gesti magniloquenti. A volte richiamano l'attenzione dei propri compagni di partito, compostamente seduti alle spalle. A volte si concentrano sulle statistiche alla base delle loro lunghe argomentazioni. Ma per lo piu' si sfottono in modo quasi infantile alla "pappappero". L'improperio piu' comune, cosi' a primo acchito, e' "pinguino".
Quando, sporadicamente, il confronto esce dalle metafore animalesche, i temi in gioco sono in parte simili a quelli italiani. Su tutti, la precarizzazione della forza lavoro e poi a seguire il taglio dei fondi alla scuola, la preoccupazione per le massiccie percentuali del mercato agricolo conquistate dalla Cina e la questione salute in senso lato, dalle norme anti-fumo (severissime) alle terapie genetiche.
Tra questi temi internazionali si nasconde pero' qualche issue tipicamente australiana. Gli animali ne sono un esempio. Sono costantemente sull'agenda politica. Da una settimana largo s[pazio e' dato per esempio al vertici sulle balene in corso in Alaska, dove gli Australiani stanno infruttuosamente facendo pressione sul Giappone per ridurre il numero degli esemplari uccisi. Poi, novita' dell'ultima ora, sono i flying foxes, ovvero una specie di pipistrello che, sospinta dalla siccita' ha abbandonato il suo habitat naturale nell'outback, per trasferirsi nelle "popolose" rive della east coast.
Il tema australiano per eccellenza e' comunque il cambiamente climatico. Paradossalmente, una delle piu' disabitate lande del pianeta - una nazione di 20 milioni di persone grande come gli Stati Uniti - e' la piu' colpita dalle bizzarrie del clima. Nei tropici si affogano, sino a perdere il conto degli allagamenti. Nel sud muoiono di sete. E nelle ricche citta' di Melbourne e Sydney, una buona fetta della popolazione viene colpita dal tumore alla pelle a causa del buco dell'ozono che sovrasta il polo sud.
Per esorcizzare questi problemi, che, a ben vedere, sono sempre stati connaturati a questo continente naturalisticamente indomabile, il clima e il suo presente cambiamento sono sempre in onda. Cosi' centrali che per essi c'e' addirittura un ministro preposto. Si', il Ministro per il cambiamento climatico. La sua intervista pochi giorni fa e' stata affiancata a quella di uno degli uomini piu' anziani dell'Australia. A novant'anni suonati, qual era il desiderio del vecchietto? Ovviamente, sopravvivere per altri trent'anni in modo da vedere il clima che la sua generazione aveva riservato per quella successiva.
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