Sul fondo di una bancarella dell'usato ho visto un bamboccio molto simile a quello con cui giocavo da bambino. Il giocattolo della bancarella era nudo, nelle sue mutande scolpite sulla plastica, mentre il mio da bambino era sempre vestito per l'occasione che gli costruivo con la mia fantasia: aveva i pantaloni corti di un calciatore fuori-classe, l'abito elegante di una spia d'alto bordo o la giacca invernale di uno sciatore spericolato. Gli abiti erano il solo elemento concreto di un mondo – una partita di calcio, una discesa libera o una missione in incognito – in cui immergevo il bamboccio con assoluto realismo. Lo scenario, anche se non esisteva, era denso, si traduceva nei movimenti del pupazzo, nei suoni che gli facevo produrre.
Non sono cambiato poi molto. Mi piace ancora raccontarmi delle storie. Solo che in esse non immergo più un pupazzo, ma sono io, io stesso, a entrarvi. Mi accendo le luci del palcoscenico, la scenografia attorno e alla realtà del momento – quella vera di una decisione di lavoro, di un aperitivo, dell'inizio di una salita – aggancio una realtà aumentata. Basta qualche pennellata di retorica per trasformare trenta chilometro sull'autostrada in una piccola Odissea.
Nel tempo forse ho lasciato solo qualche speranza di chiarezza. Da piccolo, quando non sapevo come gestire un segreto, come preparare un compito, come raggiungere un luogo, come orientarmi in un altro, guardavo con una invidia rassicurante l'età adulta. Ora guardo all'esperienza, la consulto, ma con il timore infantile che prima o poi finisca, che la debba abbandonare, che sia imperfetta. E allora torno a sentirmi nudo, come una volta e con un corpo più grande da coprire.
Quando sei in mezzo al mondo, accetti di seguirne le regole, le sfide, la competizione, la sensazione di essere nudi cresce ancora di più. Talvolta in modo insostenibile. Come piccole gocce sulla roccia, gli occhi degli altri si posano su di te, scorrendo nei rivoli di debolezza che già conoscevi e aprendo nuovi varchi, nuovi solchi, che neanche immaginavi essere presenti sulla tua superficie. E' allora, credo, che gli adulti ritornano ad avere sogni da bambino. Possono essere anche molto diversi, ma sempre ugualmente semplici. C'è chi sogna la casetta in montagna: una baita di legno circondata dalla margherite e dall'ombra di una cima innevata. E c'è chi sogna un'auto più potente, grossa, attraente, più veloce del pensiero di chi la guida.
Ma non è davvero in quei sogni che ci vogliamo rifugiare. La loro semplicità assoluta è in realtà un modo per esorcizzare la stanchezza per la semplicità già eccessiva che ci intrappola. Non si sogna la casa in mezzo al bosco quando si è stanchi di decidere, ma quando sembrano vani i propri sforzi per decisioni più ampie, più risolutive. O quando il rigore della propria coerenza stritola le sfumature che ci vorrebbero diversi, anche solo per un solo attimo, anche solo per un aspetto, magari pure di nascosto.
E' vero restano i desideri. Si realizzano quasi sempre tra l'altro. Però credo che si divertano a farlo in modo leggermente imperfetto. Forse perché non sempre ciò che è migliore in noi, più efficace, è anche ciò che in noi amiamo di più.
E a quante incoerenze ci obbligano le imperfezioni dei nostri desideri. Per fortuna, nel mio caso non si vedono troppo. Mi sono allenato da piccolo, con il mio pupazzo, a costruire trame variopinte senza bisogno di troppo.
3 commenti:
C'è un filo conduttore nel tuo post, ma hai toccato mille aspetti ed è difficile riuscire a rispondere a tutti. Mi limiterò alla sensazione di essere nudi davanti agli occhi degli altri. E' perfetta anche l'osservazione che quando si è adulti è ancora più difficile perché si ha "un corpo più grande da coprire".
Già, è l'aspetto più pesante delle nostre debolezze, la paura di lasciarle trasparire all'esterno, la paura del giudizio severo dell'altro. Ma siamo tutti così. Indifesi davanti al mondo che ci circonda. Basta un nulla per mandare in pezzi il castello dentro al quale ce ne stavamo con l'illusione di sentirci ed essere protetti.
Non é solo lunga esperienza, che pur conta, a essere notata nella tua scrittura, ma soprattutto grande creatività.
Ci sono bambole che hanno tutto e bambini che non hanno niente.
G. Rodari
Un caro saluto, Sara!
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