Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
domenica, novembre 27, 2011
martedì, novembre 22, 2011
Il pupazzo
Sul fondo di una bancarella dell'usato ho visto un bamboccio molto simile a quello con cui giocavo da bambino. Il giocattolo della bancarella era nudo, nelle sue mutande scolpite sulla plastica, mentre il mio da bambino era sempre vestito per l'occasione che gli costruivo con la mia fantasia: aveva i pantaloni corti di un calciatore fuori-classe, l'abito elegante di una spia d'alto bordo o la giacca invernale di uno sciatore spericolato. Gli abiti erano il solo elemento concreto di un mondo – una partita di calcio, una discesa libera o una missione in incognito – in cui immergevo il bamboccio con assoluto realismo. Lo scenario, anche se non esisteva, era denso, si traduceva nei movimenti del pupazzo, nei suoni che gli facevo produrre.
Non sono cambiato poi molto. Mi piace ancora raccontarmi delle storie. Solo che in esse non immergo più un pupazzo, ma sono io, io stesso, a entrarvi. Mi accendo le luci del palcoscenico, la scenografia attorno e alla realtà del momento – quella vera di una decisione di lavoro, di un aperitivo, dell'inizio di una salita – aggancio una realtà aumentata. Basta qualche pennellata di retorica per trasformare trenta chilometro sull'autostrada in una piccola Odissea.
Nel tempo forse ho lasciato solo qualche speranza di chiarezza. Da piccolo, quando non sapevo come gestire un segreto, come preparare un compito, come raggiungere un luogo, come orientarmi in un altro, guardavo con una invidia rassicurante l'età adulta. Ora guardo all'esperienza, la consulto, ma con il timore infantile che prima o poi finisca, che la debba abbandonare, che sia imperfetta. E allora torno a sentirmi nudo, come una volta e con un corpo più grande da coprire.
Quando sei in mezzo al mondo, accetti di seguirne le regole, le sfide, la competizione, la sensazione di essere nudi cresce ancora di più. Talvolta in modo insostenibile. Come piccole gocce sulla roccia, gli occhi degli altri si posano su di te, scorrendo nei rivoli di debolezza che già conoscevi e aprendo nuovi varchi, nuovi solchi, che neanche immaginavi essere presenti sulla tua superficie. E' allora, credo, che gli adulti ritornano ad avere sogni da bambino. Possono essere anche molto diversi, ma sempre ugualmente semplici. C'è chi sogna la casetta in montagna: una baita di legno circondata dalla margherite e dall'ombra di una cima innevata. E c'è chi sogna un'auto più potente, grossa, attraente, più veloce del pensiero di chi la guida.
Ma non è davvero in quei sogni che ci vogliamo rifugiare. La loro semplicità assoluta è in realtà un modo per esorcizzare la stanchezza per la semplicità già eccessiva che ci intrappola. Non si sogna la casa in mezzo al bosco quando si è stanchi di decidere, ma quando sembrano vani i propri sforzi per decisioni più ampie, più risolutive. O quando il rigore della propria coerenza stritola le sfumature che ci vorrebbero diversi, anche solo per un solo attimo, anche solo per un aspetto, magari pure di nascosto.
E' vero restano i desideri. Si realizzano quasi sempre tra l'altro. Però credo che si divertano a farlo in modo leggermente imperfetto. Forse perché non sempre ciò che è migliore in noi, più efficace, è anche ciò che in noi amiamo di più.
E a quante incoerenze ci obbligano le imperfezioni dei nostri desideri. Per fortuna, nel mio caso non si vedono troppo. Mi sono allenato da piccolo, con il mio pupazzo, a costruire trame variopinte senza bisogno di troppo.
Non sono cambiato poi molto. Mi piace ancora raccontarmi delle storie. Solo che in esse non immergo più un pupazzo, ma sono io, io stesso, a entrarvi. Mi accendo le luci del palcoscenico, la scenografia attorno e alla realtà del momento – quella vera di una decisione di lavoro, di un aperitivo, dell'inizio di una salita – aggancio una realtà aumentata. Basta qualche pennellata di retorica per trasformare trenta chilometro sull'autostrada in una piccola Odissea.
Nel tempo forse ho lasciato solo qualche speranza di chiarezza. Da piccolo, quando non sapevo come gestire un segreto, come preparare un compito, come raggiungere un luogo, come orientarmi in un altro, guardavo con una invidia rassicurante l'età adulta. Ora guardo all'esperienza, la consulto, ma con il timore infantile che prima o poi finisca, che la debba abbandonare, che sia imperfetta. E allora torno a sentirmi nudo, come una volta e con un corpo più grande da coprire.
Quando sei in mezzo al mondo, accetti di seguirne le regole, le sfide, la competizione, la sensazione di essere nudi cresce ancora di più. Talvolta in modo insostenibile. Come piccole gocce sulla roccia, gli occhi degli altri si posano su di te, scorrendo nei rivoli di debolezza che già conoscevi e aprendo nuovi varchi, nuovi solchi, che neanche immaginavi essere presenti sulla tua superficie. E' allora, credo, che gli adulti ritornano ad avere sogni da bambino. Possono essere anche molto diversi, ma sempre ugualmente semplici. C'è chi sogna la casetta in montagna: una baita di legno circondata dalla margherite e dall'ombra di una cima innevata. E c'è chi sogna un'auto più potente, grossa, attraente, più veloce del pensiero di chi la guida.
Ma non è davvero in quei sogni che ci vogliamo rifugiare. La loro semplicità assoluta è in realtà un modo per esorcizzare la stanchezza per la semplicità già eccessiva che ci intrappola. Non si sogna la casa in mezzo al bosco quando si è stanchi di decidere, ma quando sembrano vani i propri sforzi per decisioni più ampie, più risolutive. O quando il rigore della propria coerenza stritola le sfumature che ci vorrebbero diversi, anche solo per un solo attimo, anche solo per un aspetto, magari pure di nascosto.
E' vero restano i desideri. Si realizzano quasi sempre tra l'altro. Però credo che si divertano a farlo in modo leggermente imperfetto. Forse perché non sempre ciò che è migliore in noi, più efficace, è anche ciò che in noi amiamo di più.
E a quante incoerenze ci obbligano le imperfezioni dei nostri desideri. Per fortuna, nel mio caso non si vedono troppo. Mi sono allenato da piccolo, con il mio pupazzo, a costruire trame variopinte senza bisogno di troppo.
lunedì, novembre 14, 2011
Un "filosofo del cammino" in mezzo ai runner
Pubblicato su Spirito Trail (autunno 2011)
Domenica 4 settembre mi sono avvicinato alla linea della partenza del primo Trail della Margherita di Rocca San Casciano con sguardo interrogativo. Ho iniziato a camminare in natura con costanza dal 2006, trovando nei sentieri appenninici del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi lo sfondo ideale per favorire un sorta di contemplazione laica: quattro chiacchiere con gli amici più sinceri, quelli a cui si confidano anche le debolezze, per giocare a rifare il mondo, un po' come se la natura fosse il bar dei quattro amici cantati da Gino Paoli. Da questa mia abitudine ormai consolidata è forte il salto all'atmosfera che ho trovato al nastro di partenza del Parco Gramsci alle nove di mattina di una giornata più calda e umida della media settembrina romagnola. Tra gli atleti impegnati nella gara competitiva, 49,2 Km con oltre duemila metri di dislivello, c'era tensione agonistica: nell'abbigliamento, leggero all'estremo, e nella mente, votata a chiudere nel minor tempo possibile quell'infinito sali scendi tra i 214 m del fondovalle e i 691 metri del Monte Mirabello, cima più alta del percorso. Il gruppo, composto da circa cento atleti, era attraversato da battute e ilarità, ma la sensazione era che l'ironia fosse solo un esorcismo contro la paura di avere una crisi, di soffrire un attacco di crampi per la calura eccessiva, di rimanere trappola dei tratti di percorso più nervosi, rompi ritmo, tecnici.
Al via gli atleti abituati a questo genere di competizione hanno subito scavato il vuoto e così ho posticipato la ricerca delle risposte alla mia curiosità sulle motivazioni delle corse in natura. Libero dai miei punti di domanda, ho regolato il respiro e appoggiato lo sguardo allo scenario del percorso, interamente indicato dal segnavia Cai 431, grazie al lavoro di segnatura compiuto dal gruppo Roccarunner locale con la supervisione tecnica della sezione forlivese del club alpino. Il percorso del Trail della Margherita disegna un fiore attorno all'abitato di Rocca San Casciano, scalandone i crinali che cingono il paese ai quattro punti cardinali. La corsa punta inizialmente verso nord ovest e, circumnavigata una quercia secolare tutelata da apposito decreto della Regione Emilia Romagna, sale fino al Monte Mirabello, una terrazza panoramica tra le vallate del Montone e del Tramazzo-Marzeno, da cui lo sguardo si proietta senza ingombro fino al vicino mare Adriatico e, più a est, verso il Montefeltro, fino alla “Testa del Leone” descritta dal Monte Comero. Da questa cima, il tracciato piega verso sud e, attraversando il borgo di Marzanella, si porta idealmente più vicino alla Toscana, regione che ha governato politicamente, amministrativamente e, per molti aspetti anche culturalmente, questo lembo di Romagna dal 1400 ai secondo decennio del Novecento. L'impronta di questo lungo passaggio storico si nota in diverse peculiarità architettoniche, come le persiane alle finestre o gli archi che fungono da ponte tra i vari nuclei dei borghi rurali. Sul percorso se ne attraversano o sfiorano molti: Marzanella, Santa Maria in Castello, Berleta, Santo Stefano, San Donnino in Soglio. Protagonista assoluta in questi mondi, per lo più abbandonati al loro silenzio dopo la fuga in massa degli abitanti verso le industrie di pianura nel secondo dopo guerra, è la pietra arenaria, raccolta sul posto e forgiata con eleganza per dare forme a case che sfruttano i naturali dislivelli del terreno per elevarsi su più piani.
Tra queste tracce della presenza dell'uomo, campeggia un paesaggio collinare che però è più ruvido di quello toscano. I pendii rocchigiani presentano salite ripide, discese verticali, fondi rocciosi e altri sabbiosi, in una rapida successione su cui il Trail della Margherita si insinua voluttuoso costringendo gli atleti a modificare costantemente il loro ritmo di gara. L'Appennino romagnolo, come testimoniano le parole del bolognese Gino Venturi,è una sfida anche per coloro che sono abituati ai grandi dislivelli alpini: “Prima di correre a Rocca – ha detto il runner – avevo percorso una maratona dolomitica e, pensando che le colline di Rocca fossero morbide come quelle del bolognese, credevo di non aver problemi. Invece il percorso è stato durissimo e solo il piacere di correre per 49 km tutti in natura, lontano da auto e moto, mi ha permesso di tenere duro e arrivare al traguardo”.
Già il traguardo. Per primo, a sorpresa, è stato tagliato da un atleta locale, che non ha dimenticato l'allenamento alla fatica maturato sui pedali della bicicletta. Il vincitore è stato infatti il runner rocchigiano Matteo Lucchese che ha chiuso con un tempo di 4.33.38, lasciandosi alle spalle anche un nome di grido nazionale come Gianluigi Ranieri, giunto a oltre sei minuti di ritardo.
Al suo arrivo Ranieri, fermato ai microfoni degli organizzatori, ha dato una risposta che, una volta udita, mi ha riportato ai pensieri della partenza e alle ragioni che spingono un numero crescente di persone a mettersi alla prova su distanze al limite della resistenza. Ranieri non si è lamentato per l'inattesa sconfitta, né ha difeso la propria prestazione. Ha solo elogiato lo sforzo degli organizzatori che con i loro lavoro di mesi avevano permesso a lui e agli altri di scoprire un paesaggio nuovo e di divertirsi in una domenica impensabile senza la fatica delle squadre di cinghialai disposte ai ristori, della protezione civile impegnata per le emergenze, dell'amministrazione comunale di Rocca San Casciano che ha redatto le mappe del percorso e di tutti coloro che, a vario titolo, hanno pulito il tracciato, scattato le foto, aggiornato il sito internet o girato un video.
Ranieri non ha risposto come un atleta sconfitto, ma come unhttp://www.blogger.com/img/blank.gif corridore contento di aver esplorato di nuovo i propri limiti, in un anfiteatro costruito da uno sforzo collettivo di un'intera comunità. E lui non è il solo ad avere questo atteggiamento molto lontano dal semplice agonismo. Da una rapida ricerca sul web si legge infatti che anche Marco Olmo, sessantenne leggenda della corsa in montagna, parla con filosofia, come se la sua fatica nel correre fosse ciò che è la tela per un pittore o la carta per uno scrittore. “Io – scrive Olmo – sono un vinto nella vita. Corro per vendetta, corro per rifarmi”.
E poi, agonismo o filosofia, alla fine della fatica, il Trail della Margherita si rivela comunque una festa. Accade alla ex colonia dove un esercito di volontari accoglie gli atleti con un piatto di tagliatelle al ragù: perché le salite sono le stesse ovunque, ma le ricompense cambiano e nelle colline romagnole hanno un gusto più saporito. Tanto che Manuela Sabbatini, appena tagliato il traguardo, ha già promesso di ripresentarsi al via l'anno prossimo. Per scoprire quando, basterà connettersi al sito www.rocchigiana.it.
domenica, novembre 06, 2011
Un risiko tra amici e conoscenti
Stava diventando un cinefilo suo malgrado. Nelle due ultime settimane si era passato in rassegna l'intera produzione di Salvatores, Fellini e Bertolucci. Stare solo di fronte allo schermo del suo computer era l'unica attività che lo faceva sentire veramente al sicuro: per rispetto alla pellicola, si concedeva anche il lusso di spegnere il cellulare, da cui potevano sempre arrivare minacce inaspettate. Fosse per lui avrebbe scelto un film anche per quella serata – i fratelli Cohen era già salvati sul suo pendrive – ma quel venerdì sera sarebbe stato tutto più difficile. Mancavano solo poche ore all'inizio del concerto nell'ex dopo lavoro ferroviario vicino a casa sua e ancora non aveva una scusa utile per defilarsene. Susanna, la sua compagna, era a Torino per la fiera del libro e lo sapevano tutti. Se si fosse dato malato, i colleghi l'avrebbero sicuramente raggiunto a fine concerto per vedere come stava e, fisicamente, stava proprio a posto, neanche l'eco di uno starnuto nel più nascosto degli alveoli. Avrebbe potuto fingere un viaggio, ma, senza Susanna, qualcuno l'avrebbe messo sotto osservazione. No, non poteva funzionare e lo sapeva. Era da giorni che era inquieto e ora quel grafico sulle vendite outbound dell'ultimo trimestre che aveva davanti, sul monitor, gli sembrava una linea insensata. A cosa poteva servire in quel momento quel grafico, se lui non aveva modo di evitare il concerto di quella sera: quello era l'unico problema da risolvere per lui ora; il resto non importava.
Il guaio era nato circa tre settimane prima. Nel suo ultimo viaggio in Germania per lavoro, veloce, senza colleghi, aveva conosciuto Lorella, l'impiegata italiana dell'ufficio vendite di un'azienda tedesca di light designer. Lì, lontano da casa, si era divertito un po' a fare l'uomo di teatro: libro da impegni sentimentali, brillante, aperto a nuove esperienze, loquace, raffinato. Dopo un sorso di Rum delle Barbados, sul cui profumo la sua verve poetica aveva dato il massimo, Lorella l'aveva baciato. Un gesto fugace, solo per rendere irresistibilmente seducente l'invito successivo, a raggiungerla a Napoli. Lei sarebbe rimasta quattro giorni per un appalto legato a un'area uffici vicino al porto; lui poteva raggiungerla nel fine settimana per proseguire la conoscenza con un limoncello sorrentino. Dopo tutto quello che le aveva raccontato, non ce la fece a dire no.
Ma rimanere fedele a quella nuova parte si stava tramutando in un teatro senza fine. A Susanna aveva detto che sarebbe andato con i colleghi a sciare. Ai colleghi, che conoscevano benissimo Susanna, aveva dovuto dire che sarebbe andato a sciare con alcuni amici di università che non vedeva da tempo. E ai genitori, a cui aveva risposto sbadatamente perché impreparato, aveva accennato una terza versione, legata a impegni di lavoro. Si sentiva ormai come un agente segreto braccato: se c'era uno, non poteva esserci l'altro, se c'era l'altro era meglio evitare anche il terzo. La sua vita sociale gli appariva un immenso risiko in cui tutti i giocatori avevano come obiettivo la conquista del suo stato. E, mentre i, suo turno di gioco si avvicinava per l'ennesima volta, lui non aveva una buona strategia a cui ancorare il suo lancio di dadi.
Lasciare perdere il personaggio di una sera e dimenticare Lorella e quel bacio in Germania sarebbe stata la cosa più semplice, ma si era piaciuto troppo di fronte a quella donna per posare la maschera che così naturalmente aveva indossato. Parlare con Susanna era impossibile: cinicamente, a quello stadio embrionale dei propri sentimenti ribelli, non se ne sentiva pronto. Dire tutto a qualcuno per cercare consiglio gli avrebbe dato sollievo, forse, ma non l'avrebbe liberato dalla tela di ragno che gli aveva intrappolato i pensieri. Mancavano solo tre settimane ancora al viaggio verso Napoli con Lorella. Doveva tener duro e stare attento a evitare che Susanna parlasse con i colleghi, che i colleghi si mescolassero agli amici di università e che i genitori parlassero troppo a lungo con chi aveva sentito le altre versioni della storia.
I film lo avevano già salvato quindici giorni. Era stato bravo. Aveva convinto Susanna a scommettere con lui che, un film al giorno, avrebbero scaricato dalla rete e visto tutti i Fellini, i Bertolucci e i Salvatores citati come più importanti da Wikipedia. Era una boutade ispirata ai loro primi incontri e aveva funzionato a meraviglia, salvo la noia di 8 1/2, incomprensibile come alla prima visione. Però, fuori casa, aveva venduto la storia come una scommessa fatta per amore e ora che lei non c'era era difficile giustificare la clausura. Lei, al ritorno da Torino, o forse ancora prima da Facebook, lo sarebbe certamente venuta a sapere e avrebbe chiesto qualcosa. Doveva andare in qualche modo, ma vedeva pericoli ovunque, dappertutto. Nella pedalata di domenica mattina, tra i colleghi, c'era anche il figlio più piccolo di un caro amico del babbo: non si dovevano incontrare e lui non doveva essere tra loro. E quella sera stessa, tra poche ore soltanto, sarebbe stato seduto tra colleghi, amici e, con tutta probabilità, anche vicino a un ex compagno di studi. Non era scontato che gli chiedessero di quello stupido fine settimana lontano quindici giorni, ma, se ne era già finito a parlare con tutti, il rischio di dover ritornarci sopra era concreto.
Sul cellulare, silenzioso, comparve il nome di Lorella. Passando le dita sulle sopracciglia, per distenderle, cercò la giusta concentrazione per uscire dalla sua tela di ragno e rimettere in piedi la scena tedesca. Nello sforzo gli venne da sorridere solo un attimo. Aveva vent'anni in più circa, ma in quel momento si sentiva la stessa sudorazione fredda che aveva al liceo quando i prof scorrevano il registro nei paraggi del suo cognome e lui aveva finito le giustificazioni. Forse era tempo di una nuova maturità.
Il guaio era nato circa tre settimane prima. Nel suo ultimo viaggio in Germania per lavoro, veloce, senza colleghi, aveva conosciuto Lorella, l'impiegata italiana dell'ufficio vendite di un'azienda tedesca di light designer. Lì, lontano da casa, si era divertito un po' a fare l'uomo di teatro: libro da impegni sentimentali, brillante, aperto a nuove esperienze, loquace, raffinato. Dopo un sorso di Rum delle Barbados, sul cui profumo la sua verve poetica aveva dato il massimo, Lorella l'aveva baciato. Un gesto fugace, solo per rendere irresistibilmente seducente l'invito successivo, a raggiungerla a Napoli. Lei sarebbe rimasta quattro giorni per un appalto legato a un'area uffici vicino al porto; lui poteva raggiungerla nel fine settimana per proseguire la conoscenza con un limoncello sorrentino. Dopo tutto quello che le aveva raccontato, non ce la fece a dire no.
Ma rimanere fedele a quella nuova parte si stava tramutando in un teatro senza fine. A Susanna aveva detto che sarebbe andato con i colleghi a sciare. Ai colleghi, che conoscevano benissimo Susanna, aveva dovuto dire che sarebbe andato a sciare con alcuni amici di università che non vedeva da tempo. E ai genitori, a cui aveva risposto sbadatamente perché impreparato, aveva accennato una terza versione, legata a impegni di lavoro. Si sentiva ormai come un agente segreto braccato: se c'era uno, non poteva esserci l'altro, se c'era l'altro era meglio evitare anche il terzo. La sua vita sociale gli appariva un immenso risiko in cui tutti i giocatori avevano come obiettivo la conquista del suo stato. E, mentre i, suo turno di gioco si avvicinava per l'ennesima volta, lui non aveva una buona strategia a cui ancorare il suo lancio di dadi.
Lasciare perdere il personaggio di una sera e dimenticare Lorella e quel bacio in Germania sarebbe stata la cosa più semplice, ma si era piaciuto troppo di fronte a quella donna per posare la maschera che così naturalmente aveva indossato. Parlare con Susanna era impossibile: cinicamente, a quello stadio embrionale dei propri sentimenti ribelli, non se ne sentiva pronto. Dire tutto a qualcuno per cercare consiglio gli avrebbe dato sollievo, forse, ma non l'avrebbe liberato dalla tela di ragno che gli aveva intrappolato i pensieri. Mancavano solo tre settimane ancora al viaggio verso Napoli con Lorella. Doveva tener duro e stare attento a evitare che Susanna parlasse con i colleghi, che i colleghi si mescolassero agli amici di università e che i genitori parlassero troppo a lungo con chi aveva sentito le altre versioni della storia.
I film lo avevano già salvato quindici giorni. Era stato bravo. Aveva convinto Susanna a scommettere con lui che, un film al giorno, avrebbero scaricato dalla rete e visto tutti i Fellini, i Bertolucci e i Salvatores citati come più importanti da Wikipedia. Era una boutade ispirata ai loro primi incontri e aveva funzionato a meraviglia, salvo la noia di 8 1/2, incomprensibile come alla prima visione. Però, fuori casa, aveva venduto la storia come una scommessa fatta per amore e ora che lei non c'era era difficile giustificare la clausura. Lei, al ritorno da Torino, o forse ancora prima da Facebook, lo sarebbe certamente venuta a sapere e avrebbe chiesto qualcosa. Doveva andare in qualche modo, ma vedeva pericoli ovunque, dappertutto. Nella pedalata di domenica mattina, tra i colleghi, c'era anche il figlio più piccolo di un caro amico del babbo: non si dovevano incontrare e lui non doveva essere tra loro. E quella sera stessa, tra poche ore soltanto, sarebbe stato seduto tra colleghi, amici e, con tutta probabilità, anche vicino a un ex compagno di studi. Non era scontato che gli chiedessero di quello stupido fine settimana lontano quindici giorni, ma, se ne era già finito a parlare con tutti, il rischio di dover ritornarci sopra era concreto.
Sul cellulare, silenzioso, comparve il nome di Lorella. Passando le dita sulle sopracciglia, per distenderle, cercò la giusta concentrazione per uscire dalla sua tela di ragno e rimettere in piedi la scena tedesca. Nello sforzo gli venne da sorridere solo un attimo. Aveva vent'anni in più circa, ma in quel momento si sentiva la stessa sudorazione fredda che aveva al liceo quando i prof scorrevano il registro nei paraggi del suo cognome e lui aveva finito le giustificazioni. Forse era tempo di una nuova maturità.
martedì, novembre 01, 2011
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