Da ore Carl Simon teneva lo sguardo basso. Uardava rimbalzare a terra la pioggia che cadeva da ore. Guardava le scarpe fradice di chi muoveva i piedi davanti a lui. Guardava quelle cadenze ritmante – dell’acqua e dei piedi – per trattenere i pensieri. Ma non sapeva nulla. La mente del giovane allievo americano volava sulle teste di tutti i membri della comitiva e si appoggiava, in testa, sulle spalle di Ludwig von Nierentoff, la canuta guida austriaca che aveva scelto l’itinerario.
Aveva scelto il percorso più lungo: lo conosceva, era sicuro, l’aveva sempre fatto, ogni alternativa era fuori discussione. Anche se le previsioni erano pessime, anche se il cielo permetteva solo diluvio a chi fosse stato sotto di lui nel pomeriggio.
Simon pensava a Nierentoff ma odiava se stesso. La sera prima, lui aveva pensato l’alternativa: una scorciatoia rettilinea tra sé e la meta, un tragitto in mezzo ai picchi della forcella centrale, una via impegnativa ma rapida. L’aveva proposto, ma non se l’era sentita fino in fondo di imporsi. Nierentoff l’aveva schernito acidamente con la forza della regola dettata dall’esperienza e lui aveva ritenuto opportuno tacere, non scivolare oltre, non trasformare l’irrequietezza della sua alternativa mai praticata in un cieco, presuntuoso e irruente attacco a ciò che era stato. Aveva alzato lo sguardo con l’energia di chi difende un proprio diritto, ma l’aveva abbassato con il pudore di chi teme di violare il giusto rispetto. Aveva desiderato dimostrarsi tenace, ma aveva temuto di rivelarsi testardo.
Nell’eco dell’acqua che cade a terra e dei piedi che calpestano il fango, ora si diceva che aveva sbagliato. Con la mente che volava in cima al gruppo sulle spalle di von Nierentoff si ripeteva ossessivamente: “Ho sbagliato, ho sbagliato, ho sbagliato di nuovo”. Ed era proprio questo che temeva e lo turbava. Solo le persone insicure delle proprie ragioni, si ripetevano così tante volte ciò di cui neppure loro erano fino in fondo davvero convinte.
E il gruppo continuava a procedere sulla via più lunga.
Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
mercoledì, dicembre 23, 2009
martedì, dicembre 22, 2009
La macchinina e la ninna nanna
“Ssshh” fece la nonna chinandosi sul nipotino. Gli carezzò la testa, cercando di rubare con la mano l’euforia e l’agitazione che non facevano dormire il ragazzino. Ma non era una notte da sonno quella, non per lui. Di giorno era arrivata una macchinina nuova. E con lei una fantasia senza limiti.
Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava: l’avrebbe fatta vedere a Marco e poi a Daniela e dopo a scuola – in fondo non era così male tornarci – e dopo ancora a chissà quanti altri. Chissà cosa avrebbero raccontato facendogliela vedere: la sua fantasia era un treno. Chissà cosa avrebbero risposto gli altri ragazzi: la nuova macchinina era un pezzo pregiato, non passava inosservato.
Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava, a volte a voce alta, e la nonna catturava i suoi pensieri e la sua gioia. Allora lo guardava con tenerezza. E con timore: qualcuno avrebbe potuto invidiare quella macchinina, qualcuno avrebbe potuto invidiare chi la possedeva e cercare di metterlo in cattiva luce con Marco e poi con Daniela e dopo a scuola – sarebbe stato ancora più difficile andarci – e dopo ancora con chissà quanti altri.
La mamma pensava ma non parlava. Non voleva rubare il tempo a ciò che il tempo rubava di per sé. E allora sussurrava e, nella luce bassa della sera, cantava le ninna nanna con le verità così piccole da non cambiavano mai.
Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava: l’avrebbe fatta vedere a Marco e poi a Daniela e dopo a scuola – in fondo non era così male tornarci – e dopo ancora a chissà quanti altri. Chissà cosa avrebbero raccontato facendogliela vedere: la sua fantasia era un treno. Chissà cosa avrebbero risposto gli altri ragazzi: la nuova macchinina era un pezzo pregiato, non passava inosservato.
Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava, a volte a voce alta, e la nonna catturava i suoi pensieri e la sua gioia. Allora lo guardava con tenerezza. E con timore: qualcuno avrebbe potuto invidiare quella macchinina, qualcuno avrebbe potuto invidiare chi la possedeva e cercare di metterlo in cattiva luce con Marco e poi con Daniela e dopo a scuola – sarebbe stato ancora più difficile andarci – e dopo ancora con chissà quanti altri.
La mamma pensava ma non parlava. Non voleva rubare il tempo a ciò che il tempo rubava di per sé. E allora sussurrava e, nella luce bassa della sera, cantava le ninna nanna con le verità così piccole da non cambiavano mai.
lunedì, dicembre 21, 2009
Parola di water
(citato al bagno della pasticceria di Castrocaro Terme)
“Se dopo avermi usato non mi pulisci,
pensa se incontri qualcuno mentre esci.
Io sarò ripulito mentre tu per lui rimarrai sempre sporco”.
Il water
domenica, dicembre 20, 2009
sabato, dicembre 19, 2009
martedì, dicembre 08, 2009
Il consulente paroliere e l’ansia del desiderio e del dovere
Serata insonne. E’ una di quelle che capita quando l’ansia di svegliarsi presto il mattino successivo ruba anche le poche ore a disposizione. Ogni forma di tempo ti sottrae un po’ di forze: il giorno passato che è finito solo molto tardi; il presente irrequieto che non ti fa riposare; e il giorno che viene, con la minaccia di non farti nessuno sconto sulle fatiche che non hai smaltito. Passato, presente e futuro come in un unico blocco che dondola nella testa ogni volta che cambi posizione sul letto.
“E’ allora che mi arrivano i pensieri più vivaci e assurdi – dissi al mio consulente paroliere – quelli a cui non riesco a dare forma scritta anche se la meriterebbero più di altri”. Il consulente paroliere rispose conciliante come suo solito: “Eh, beh, certo, è così, è normale che sia così. E’ nel limbo dell’inconscio che emergono le verità più vere, ma anche più difficili da raccontare”.
Ascoltai quelle parole con il solito piacere. Non avevo ancora esattamente capito perché quel professorino mi avesse preso in custodia filosofica-esistenzial-letteraria – per paternità surrogata, vocazione didattica insaziabile, semplice simpatia o altro – certo era che avere uno specchio in cui riflettere in maniera mediata il mio gomitolo di pensieri e di racconti mi faceva un gran piacere. Srotolare quel gomitolo e darlo in pasto alle orecchie altrui mi dava l’ebbrezza di provare le sensazioni di uno scrittore vero o, almeno, di qualcosa di molto simile.
Conclusi quel lungo filo di considerazioni molto rapidamente, quasi stupendomi della mole di idee e contro-idee, al limite del machiavellico, che riuscivo a stipare negli istanti morti delle conversazioni. Era un micro-mondo che una volta ignoravo e ora mi era diventato strategicamente familiare. Uscii da quel mondo e aggiunsi: “Credo anche, in verità, di iniziare a conoscere ciò che separa la storia perfetta che sfioro nel dormiveglia da quelle un po’ monche che riverso sulla carta”.
Non ebbi risposta dal mio consulente paroliere e per un attimo mi fermai, di fronte al solito bivio: esternare una sentenza “clamorosa” che ti poteva far passare o per una sottile mente profonda o per un grosso e piatto presuntuoso. Cincischiai per qualche istante e poi, scimmiottando la sicurezza che in realtà non avevo, cercai di proseguire attivando l’opzione uno: “sottile mente profonda”.
“Credo – aggiunsi – che nel mio inconscio segua solo la fantasia e il desiderio, mentre sulla carta finiscono anche il realismo e il senso del dovere. Di notte, nell’insonnia, parlo, o vaneggio, solo per me, mentre di giorno, sulla carta, scrivo, o ragiono, per tutti i “me” che gli altri credono e pretendono che io sia”.
Il mio consulente paroliere interruppe il suo cammino, infilò una mano nell’abbottonatura del giubbotto e, serio, mi chiese se avevo già studiato qualcosa per ripulire la carta dalle interferenze del dovere e della società. Il consulente insomma aveva seguito e capito le mie parole e non sembrava minimamente aver pensato alla opzione due: “grosso e piatto presuntuoso”. E, dunque, se tutto quello che avevo detto aveva un senso, dovevo assolutamente andare oltre, perché forse, anzi probabilmente, ero nella direzione giusta.
Solo che – maledizione! – sapevo muovermi ben poco oltre. “Non ci ho ancora pensato” risposi trafelato. “E’ che è un po’ come dice Ann Deveria… non si può ripulire il desiderio dal dovere senza farsi male”.
Non dissi altro, ma ci avrei lavorato su, nelle notti insonni, quando l’ansia di ciò che avrei scritto sarebbe stata ancora maggiore dell’ansia di doversi svegliare presto.
“E’ allora che mi arrivano i pensieri più vivaci e assurdi – dissi al mio consulente paroliere – quelli a cui non riesco a dare forma scritta anche se la meriterebbero più di altri”. Il consulente paroliere rispose conciliante come suo solito: “Eh, beh, certo, è così, è normale che sia così. E’ nel limbo dell’inconscio che emergono le verità più vere, ma anche più difficili da raccontare”.
Ascoltai quelle parole con il solito piacere. Non avevo ancora esattamente capito perché quel professorino mi avesse preso in custodia filosofica-esistenzial-letteraria – per paternità surrogata, vocazione didattica insaziabile, semplice simpatia o altro – certo era che avere uno specchio in cui riflettere in maniera mediata il mio gomitolo di pensieri e di racconti mi faceva un gran piacere. Srotolare quel gomitolo e darlo in pasto alle orecchie altrui mi dava l’ebbrezza di provare le sensazioni di uno scrittore vero o, almeno, di qualcosa di molto simile.
Conclusi quel lungo filo di considerazioni molto rapidamente, quasi stupendomi della mole di idee e contro-idee, al limite del machiavellico, che riuscivo a stipare negli istanti morti delle conversazioni. Era un micro-mondo che una volta ignoravo e ora mi era diventato strategicamente familiare. Uscii da quel mondo e aggiunsi: “Credo anche, in verità, di iniziare a conoscere ciò che separa la storia perfetta che sfioro nel dormiveglia da quelle un po’ monche che riverso sulla carta”.
Non ebbi risposta dal mio consulente paroliere e per un attimo mi fermai, di fronte al solito bivio: esternare una sentenza “clamorosa” che ti poteva far passare o per una sottile mente profonda o per un grosso e piatto presuntuoso. Cincischiai per qualche istante e poi, scimmiottando la sicurezza che in realtà non avevo, cercai di proseguire attivando l’opzione uno: “sottile mente profonda”.
“Credo – aggiunsi – che nel mio inconscio segua solo la fantasia e il desiderio, mentre sulla carta finiscono anche il realismo e il senso del dovere. Di notte, nell’insonnia, parlo, o vaneggio, solo per me, mentre di giorno, sulla carta, scrivo, o ragiono, per tutti i “me” che gli altri credono e pretendono che io sia”.
Il mio consulente paroliere interruppe il suo cammino, infilò una mano nell’abbottonatura del giubbotto e, serio, mi chiese se avevo già studiato qualcosa per ripulire la carta dalle interferenze del dovere e della società. Il consulente insomma aveva seguito e capito le mie parole e non sembrava minimamente aver pensato alla opzione due: “grosso e piatto presuntuoso”. E, dunque, se tutto quello che avevo detto aveva un senso, dovevo assolutamente andare oltre, perché forse, anzi probabilmente, ero nella direzione giusta.
Solo che – maledizione! – sapevo muovermi ben poco oltre. “Non ci ho ancora pensato” risposi trafelato. “E’ che è un po’ come dice Ann Deveria… non si può ripulire il desiderio dal dovere senza farsi male”.
Non dissi altro, ma ci avrei lavorato su, nelle notti insonni, quando l’ansia di ciò che avrei scritto sarebbe stata ancora maggiore dell’ansia di doversi svegliare presto.
lunedì, dicembre 07, 2009
martedì, dicembre 01, 2009
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