Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
sabato, febbraio 28, 2009
lunedì, febbraio 23, 2009
sabato, febbraio 21, 2009
lunedì, febbraio 16, 2009
mercoledì, febbraio 11, 2009
La memoria sotto le luci della scuola
Le luci al piano superiore della scuola elementare sono sempre accese. Illuminavano le grandi finestre sull’esterno anche l’altra sera, mentre vi camminavo di fronte sotto una pioggia fine, che a stento bagnava.
Il ricordo di quel luogo sa poco di passato e molto di presente. Conservo solo sprazzi del tempo in cui ci entravo ogni giorno: più azioni che dettagli. Ricordo la forma quadrata e ampia delle aule dove ogni tanto il maestro ci coinvolgeva nel gioco della canna: lui, in ginocchio al centro, faceva roteare a terra una canna di bambù e noi, in cerchio tutto attorno, la saltavamo. Chi, vittima del cambio di ritmo, ne era toccato, veniva eliminato dal gioco, fino a che non ne rimaneva soltanto uno in lizza, il vincitore. Ricordo quei momenti di svago, come la consegna della merenda da parte del bidello un po’ zoppo ma bonario che raccoglieva gli ordini di tutti gli studenti e andava al forno prima dell’intervallo. Però non ricordo quante scale salivano al piano di sopra; anzi, non ricordo neppure di esservi mai salito al piano di sopra. C’era la segreteria? La presidenza? Chissà? All’epoca quei nomi avevano un alone di mistero: erano una sorta di certezza metafisica che non osavo mettere in dubbio.
I pezzi dimenticati dei ricordi di allora non hanno però lasciato un vuoto. Sono pieni dei ricordi successivi, della coscienza del luogo che non potevo avere quando lo frequentavo. L’altra sera ho ritagliato nell’oscurità i contorni delle lettere di cemento che portano impresso il nome della scuola: “Licinio Cappelli”. Allora era solo un nome, oggi è legato a un paio d’ore della mia vita: ne ho raccontato la storia personale tra i fatti di resistenza della vallata e per prepararmi a farlo sono sceso fino ai dettagli della stampa dei fogli clandestini e carbonari che i Cappelli diffondevano in Romagna durante i moti indipendentisti.
Mi chiedo cosa ne sarà del ricordo in futuro: forse continuerò a vedervi lati ancora inesplorati o forse, piano piano, il presente cesserà di mettere in discussione il passato e la memoria da ruvido albergo di passaggio per visitatori in carriera diventerà intimo ritrovo per pochi ospiti abituali.
--> Storia della Cappelli Editore
Il ricordo di quel luogo sa poco di passato e molto di presente. Conservo solo sprazzi del tempo in cui ci entravo ogni giorno: più azioni che dettagli. Ricordo la forma quadrata e ampia delle aule dove ogni tanto il maestro ci coinvolgeva nel gioco della canna: lui, in ginocchio al centro, faceva roteare a terra una canna di bambù e noi, in cerchio tutto attorno, la saltavamo. Chi, vittima del cambio di ritmo, ne era toccato, veniva eliminato dal gioco, fino a che non ne rimaneva soltanto uno in lizza, il vincitore. Ricordo quei momenti di svago, come la consegna della merenda da parte del bidello un po’ zoppo ma bonario che raccoglieva gli ordini di tutti gli studenti e andava al forno prima dell’intervallo. Però non ricordo quante scale salivano al piano di sopra; anzi, non ricordo neppure di esservi mai salito al piano di sopra. C’era la segreteria? La presidenza? Chissà? All’epoca quei nomi avevano un alone di mistero: erano una sorta di certezza metafisica che non osavo mettere in dubbio.
I pezzi dimenticati dei ricordi di allora non hanno però lasciato un vuoto. Sono pieni dei ricordi successivi, della coscienza del luogo che non potevo avere quando lo frequentavo. L’altra sera ho ritagliato nell’oscurità i contorni delle lettere di cemento che portano impresso il nome della scuola: “Licinio Cappelli”. Allora era solo un nome, oggi è legato a un paio d’ore della mia vita: ne ho raccontato la storia personale tra i fatti di resistenza della vallata e per prepararmi a farlo sono sceso fino ai dettagli della stampa dei fogli clandestini e carbonari che i Cappelli diffondevano in Romagna durante i moti indipendentisti.
Mi chiedo cosa ne sarà del ricordo in futuro: forse continuerò a vedervi lati ancora inesplorati o forse, piano piano, il presente cesserà di mettere in discussione il passato e la memoria da ruvido albergo di passaggio per visitatori in carriera diventerà intimo ritrovo per pochi ospiti abituali.
--> Storia della Cappelli Editore
domenica, febbraio 08, 2009
Voglio un vantaggio: mi prendo 8 minuti
Non era ancora vecchio o stanco, avrebbe potuto tranquillamente restare in piedi sul binario, ma Stefano Cozzi, lucido fiscalista e consulente economico vaticano, pensò che la panchina in fondo alla pensilina fosse più in sintonia con la sua sagoma distinta. Là seduto avrebbe potuto aprire il giornale in modo più agevole ed erigere una barriera più sicura tra se stesso e il brusio circostante. Doveva aspettare otto minuti prima dell’arrivo del treno e non voleva rischiare di appendere i suoi pensieri a dettagli inutili: un paio di scarpe troppo colorate, un cellulare troppo evoluto o la voce troppo preoccupata di uno studente alla vigilia di un esame. Dettagli decisamente poco significanti come quelli non potevano compromettere il suo quotidiano incontro con il treno. Lo ripeteva ogni giorno e sapeva ormai quanto, nel proseguimento della giornata, dipendesse da quei minuti sul binario.
Cozzi aprì La Stampa nella pagina dedicata all’economia. Scritta così piccola, piena di cifre quasi illeggibili, era la più comoda da guardare come specchio dei propri pensieri. E quelli infatti uscirono immediatamente, con la precisione e la regolarità di sempre. Le piccole incombenze ereditate dal giorno precedente, i nuovi proponimenti di giornata, le strategie a cui tutto era ricondotto si ordinarono da sole come caselle di un docile foglio Excel: tutto era sotto controllo e tutto era migliorabile. Certo c’era ancora in sospeso la firma di un paio di carte e non sembrava esserci modo di prendere una decisione basata su stime precise, ma non era il caso di lasciarsi andare al turbamento dell’indecisione: bastava un’assicurazione, una piccola cautela in più, e anche quella scelta sarebbe stata ricondotta al giusto, in ogni caso.
Il treno scricchiolò sui binari proprio allora. Era uno dei pochi sempre puntuali e Cozzi lo guardò con il piacere dell’abitudine, ma senza muoversi. Non era lì per salire a bordo. Stava lì seduto sulla panchina, quel giorno e tutti quelli prima, per gustare il suo momento di incertezza. Era una cosa stupida – lo sapeva lui stesso – una costruzione del tutto mentale, ma gli regalava un piacere infinito. Ignorava il rigido percorso dei binari e si immergeva nel brulichio della partenza come nelle pagine iniziali di un libro d’avventura. Si chiedeva cosa sarebbe successo se fosse salito al posto di quel giovane con lo zainetto Napapiri o con quel signore più anziano con la borsa in pelle. Ogni volta constatava con trepidazione che non arrivava nessuna risposta certa, che in quel treno che partiva riuscivano ancora a trovare spazio decisioni per istinto, scelte per caso e azioni incerte.
Stefano Cozzi si cullava solo per pochi istanti in quel mondo di ovattato nomadismo cognitivo. Quando l’ultimo vagone era scomparso dall’orizzonte, la sua mente era già tornata alla scaletta costruita nei minuti dell’attesa dietro alla pagina di giornale non letta. Il mondo la imponeva e in fondo a lui non dispiaceva neppure troppo: aveva la sua indubbia utilità.
Ma il treno no, quello non si poteva dimenticare mai. Tutto il tempo utile del mondo non sarebbe sopravvissuto un solo secondo senza quei minuti sprecati di fronte al treno in partenza. Cozzi lo sapeva e ed era convinto che fosse davvero un bel vantaggio.
Cozzi aprì La Stampa nella pagina dedicata all’economia. Scritta così piccola, piena di cifre quasi illeggibili, era la più comoda da guardare come specchio dei propri pensieri. E quelli infatti uscirono immediatamente, con la precisione e la regolarità di sempre. Le piccole incombenze ereditate dal giorno precedente, i nuovi proponimenti di giornata, le strategie a cui tutto era ricondotto si ordinarono da sole come caselle di un docile foglio Excel: tutto era sotto controllo e tutto era migliorabile. Certo c’era ancora in sospeso la firma di un paio di carte e non sembrava esserci modo di prendere una decisione basata su stime precise, ma non era il caso di lasciarsi andare al turbamento dell’indecisione: bastava un’assicurazione, una piccola cautela in più, e anche quella scelta sarebbe stata ricondotta al giusto, in ogni caso.
Il treno scricchiolò sui binari proprio allora. Era uno dei pochi sempre puntuali e Cozzi lo guardò con il piacere dell’abitudine, ma senza muoversi. Non era lì per salire a bordo. Stava lì seduto sulla panchina, quel giorno e tutti quelli prima, per gustare il suo momento di incertezza. Era una cosa stupida – lo sapeva lui stesso – una costruzione del tutto mentale, ma gli regalava un piacere infinito. Ignorava il rigido percorso dei binari e si immergeva nel brulichio della partenza come nelle pagine iniziali di un libro d’avventura. Si chiedeva cosa sarebbe successo se fosse salito al posto di quel giovane con lo zainetto Napapiri o con quel signore più anziano con la borsa in pelle. Ogni volta constatava con trepidazione che non arrivava nessuna risposta certa, che in quel treno che partiva riuscivano ancora a trovare spazio decisioni per istinto, scelte per caso e azioni incerte.
Stefano Cozzi si cullava solo per pochi istanti in quel mondo di ovattato nomadismo cognitivo. Quando l’ultimo vagone era scomparso dall’orizzonte, la sua mente era già tornata alla scaletta costruita nei minuti dell’attesa dietro alla pagina di giornale non letta. Il mondo la imponeva e in fondo a lui non dispiaceva neppure troppo: aveva la sua indubbia utilità.
Ma il treno no, quello non si poteva dimenticare mai. Tutto il tempo utile del mondo non sarebbe sopravvissuto un solo secondo senza quei minuti sprecati di fronte al treno in partenza. Cozzi lo sapeva e ed era convinto che fosse davvero un bel vantaggio.
domenica, febbraio 01, 2009
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