In un momento qualunque di un pomeriggio qualsiasi, di fronte a un bicchiere di vino senza nome, si può sentire parlare in un bar d’Appennino un signore seduto in maniera abbondante su una sedia di legno. L’uomo, con la schiena curva e la pancia proterva, parla del tempo mitico in cui era giovane, del tempo in cui gli bastava l’ombra di un albero lontano per scatenare il piacere della contadina vicina. Ottavio – potrebbe essere questo il nome del signore che parla – ricorda il tempo in cui con gli amici beveva sino a sentirsi un Dio in grado di gridare nudo contro il cielo per fare tremare le stelle solo con la voce. Ottavio parla a fianco della porta del bar: sul vetro, poco dietro alle sue spalle, una foto in bianco e nero rimanda a una mostra che racconta “come eravamo”.
Ovunque si parla del tempo in cui eravamo. A cento chilometri dalla via Emilia, così come a cento dal Vesuvio. E non si racconta né della via Emilia né del Vesuvio, né quelli di oggi né quelli di ieri, perché tutti gli Ottavio del mondo parlano solo del loro tempo che non c’è più. Si erano sentiti davvero degli dei allora. I loro corpi erano giovani e le loro menti estranee alla responsabilità: conoscevano la legge, ma solo come amplificatore del gusto della violazione. Non avevano bisogno né di libri, né di sapere: la fatica del giorno ancora non rubava loro la notte, il tempo in cui si potevano mostrare sufficienti a loro stessi nella forza del gesto estremo di provocazione e nell’orgasmo goduto con una seduzione che sapeva di conquista.
Ottavio avrà quasi settanta anni, ma non è l’età che conta. Di come eravamo parla con una persona molto più giovane, che si potrebbe chiamare Gianluca, perché quando era nata le famiglie erano già troppo esigue per numerare i figli. Gianluca ha poco più di trent’anni ma preferisce il ricordo al progetto. I suoi ricordi vivono più a valle di quelli di Ottaviano, viaggiano a cavallo di un motore a scoppio anziché di un asino smagrito, ma si ancorano allo stesso sogno di onnipotenza svanito d’improvviso chissà dove, in un pomeriggio dimenticato tra l’adolescenza e la maturità.
Forse c’è un po’ troppa gente che ricorda com’era. Dicono di fare memoria, ma la memoria è una nuova prospettiva per vivere un luogo in cui si è felici di essere o desiderosi di andare, mentre quelle frasi sul “come eravamo” hanno il sapore amaro di un racconto che nasce per riempire con le azioni di allora la noia di oggi. E’ un anno che passa producendo solo il ricordo di un anno passato.
Ottaviano e Gianluca parlano di com’erano, ma ignorano dove sono. Se fosse per loro, i luoghi dove erano stati non sarebbero più, resterebbero muti e abbandonati. Zitti, zitti, però, quei luoghi restano là. Fanno sentire la voce a persone diverse. Persone un po’ problematiche che il delirio di onnipotenza non l’hanno vissuto mai, perché, ancora piccoli piccoli, hanno incontrato saperi artigianali, numeri, parole, equazioni e frasi che avevano un sentore sinistro e un significato irraggiungibile. Anche per quelle persone il corpo era forte e la mente era libera, ma lo stesso certi nodi restavano a dare loro il senso del limite e della difficoltà. Ma anche il desiderio di superarlo. E in quel desiderio, prima inconscio e poi gradatamente più cosciente, il tempo è un alleato: col tempo saperi artigianali, numeri, parole, equazioni e frasi una volta sinistri esplodono il loro significato in un nuovo reticolo di senso. Da un luogo nasce il desiderio di aprire un libro, dal libro una mappa, da una mappa di tornare al luogo, da un luogo a un altro luogo, da un altro a un altro ancora, e poi di nuovo alla mappa e dalla mappa al libro. Niente più rimpianto, ma ricordo di ciò che si era stati per diventare quel che si è, ricordo di un anno passato per vivere più in profondità l’anno presente.
Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
lunedì, aprile 19, 2010
sabato, aprile 17, 2010
domenica, aprile 11, 2010
Trame in fuga e altre ragioni per una pausa
Qualche giorno di pausa. Nei giorni scorsi questo è stato un diario muto. Senza cercarne altri, questo è già un fatto. Può essere casuale, forse lo è, a molto non c’è spiegazione. Ma io sono un uomo e gli uomini fanno solo una cosa dall’inizio alla fine: scovano le ragioni più nascoste delle cose che a loro succedono e si raccontano storie per spiegarli. Inutile sfuggire a questa tentazione.
Di certo non è successo poco. Anzi direi proprio il contrario. Le ore sembravano abbracciarsi fino a fondersi tanto ciò che sarebbe successo dopo incombeva su quanto era in corso. Ma la mancanza di tempo non è mai una ragione accettabile per una frase non scritta. Il desiderio di raccontare e raccontarsi è un’emergenza e proprio nelle emergenze si scrive di più: le pause servono per studiare, mentre per scrivere va bene anche un blocco note stropicciato appoggiato su un cuscino nei cinque minuti che si rubano al sonno che pesa sulle palpebre. In quella calligrafia incerta finiranno le frasi migliori, quelle che devono uscire dalla mente per poter avere il riposo vero.
Uno dei problemi è un altro. Quando una rete di piaceri ti abbraccia ammiccante sera dopo sera e dopo giorno, la tua distanza critica tende un po’ ad ammollirsi. In gran parte il piacere sta proprio lì: si vive nel momento, ci si lascia assorbire da esso in un unico respiro come un maestro di yoga: il tempo della riflessione produce memoria che si sente il dovere di raccontare, mentre il tempo del piacere produce un presente che si può solo vivere.
Poi c’è una forma di rispetto e di pudore. Un gruppo che si diverte è come se avesse firmato un segreto accordo, una fratellanza del silenzio. Il calice che si alza per brindare all’abbattimento delle barriere interne è al contempo un vessillo che tiene lontani coloro che non sono lì in quell’attimo. Chi ti è attorno si rivela a te, ti sceglie come un privilegiato, ti regala un dono e ti investe della responsabilità di renderlo esclusivo. Lo puoi schiudere, se vuoi, ma solo di fronte a un rito simile a quello che l’ha generato. Nell’eternità della parole scritta, invece, il dono rivelato assume le forme di un tradimento inaspettato: chi del gruppo legge le tue parole sente forte il desiderio di misconoscerle, non per la loro distanza dal vero ma per la loro inaspettata esistenza.
E infine c’è un altro ostacolo, forse più alto di quelli precedenti. Nel mercato degli incontri come voci da una bancarella decine di trame si dipanano. Ti sembra di seguirle con la consistenza e la nitidezza di una strada di asfalto in mezzo alla sabbia del deserto. E in effetti sono dirompenti e, quando qualcosa di nuovo ti accade, esse ritornano, abbracciano il nuovo fatto, rendono il senso del racconto più ricco e sfaccettato. Ma non puoi trattare quel senso con troppa fermezza: se di imperio ti fermi e decidi di metterlo su carta, il senso scompare. Ti sfugge l’inizio della frase a cui sorridente avevi ammiccato. Ogni trama vola via come un aquilone reciso.
E allora resti inerte. Osservi le creature fragili che la tua fantasia costruisce attorno alla tua vita e aspetti da esse un segnale per capire quando saranno sufficientemente mature per incontrare la tua coscienza senza fuggire pudiche e timorose.
Di certo non è successo poco. Anzi direi proprio il contrario. Le ore sembravano abbracciarsi fino a fondersi tanto ciò che sarebbe successo dopo incombeva su quanto era in corso. Ma la mancanza di tempo non è mai una ragione accettabile per una frase non scritta. Il desiderio di raccontare e raccontarsi è un’emergenza e proprio nelle emergenze si scrive di più: le pause servono per studiare, mentre per scrivere va bene anche un blocco note stropicciato appoggiato su un cuscino nei cinque minuti che si rubano al sonno che pesa sulle palpebre. In quella calligrafia incerta finiranno le frasi migliori, quelle che devono uscire dalla mente per poter avere il riposo vero.
Uno dei problemi è un altro. Quando una rete di piaceri ti abbraccia ammiccante sera dopo sera e dopo giorno, la tua distanza critica tende un po’ ad ammollirsi. In gran parte il piacere sta proprio lì: si vive nel momento, ci si lascia assorbire da esso in un unico respiro come un maestro di yoga: il tempo della riflessione produce memoria che si sente il dovere di raccontare, mentre il tempo del piacere produce un presente che si può solo vivere.
Poi c’è una forma di rispetto e di pudore. Un gruppo che si diverte è come se avesse firmato un segreto accordo, una fratellanza del silenzio. Il calice che si alza per brindare all’abbattimento delle barriere interne è al contempo un vessillo che tiene lontani coloro che non sono lì in quell’attimo. Chi ti è attorno si rivela a te, ti sceglie come un privilegiato, ti regala un dono e ti investe della responsabilità di renderlo esclusivo. Lo puoi schiudere, se vuoi, ma solo di fronte a un rito simile a quello che l’ha generato. Nell’eternità della parole scritta, invece, il dono rivelato assume le forme di un tradimento inaspettato: chi del gruppo legge le tue parole sente forte il desiderio di misconoscerle, non per la loro distanza dal vero ma per la loro inaspettata esistenza.
E infine c’è un altro ostacolo, forse più alto di quelli precedenti. Nel mercato degli incontri come voci da una bancarella decine di trame si dipanano. Ti sembra di seguirle con la consistenza e la nitidezza di una strada di asfalto in mezzo alla sabbia del deserto. E in effetti sono dirompenti e, quando qualcosa di nuovo ti accade, esse ritornano, abbracciano il nuovo fatto, rendono il senso del racconto più ricco e sfaccettato. Ma non puoi trattare quel senso con troppa fermezza: se di imperio ti fermi e decidi di metterlo su carta, il senso scompare. Ti sfugge l’inizio della frase a cui sorridente avevi ammiccato. Ogni trama vola via come un aquilone reciso.
E allora resti inerte. Osservi le creature fragili che la tua fantasia costruisce attorno alla tua vita e aspetti da esse un segnale per capire quando saranno sufficientemente mature per incontrare la tua coscienza senza fuggire pudiche e timorose.
sabato, aprile 10, 2010
giovedì, aprile 01, 2010
Ammirati, nei luoghi sacri di poteri estinti
Sfogliando il giornale mi fermai in una delle pagine centrali. Una grande foto, a doppia facciata, ritraeva un piccolo fiore sullo sfondo delle fondamenta di un grande palazzo alla periferia di Shangai. Guardando quell'immagine era così facile stare dalla parte del fiore, immaginare la povera famiglia di contadini che una volta lavorava il campo dove ora sorgevano le fondamenta.
Mi misi alla ricerca dei segnali che ci rendevano diversi da quella foto, rispettosi del fiore solitario. Camminai per le vie di Bologna: quei portici erano così autenticamente medioevali Noi non avevamo dimenticato il passato: ci prendevamo ancora dell'architettura vera, quella che creava spazi per le persone e non posti letto per le industrie.
Ci appoggiai la mano su una di quelle colonne alla base del portico. Volevo scavare nella memoria di una società che non aveva ancora dimenticato. Ma ne rimasi deluso. Lungo il braccio corse solo un dubbio. Quei mattoni mi sembrarono improvvisamente come persone: da lodare perché morte, come in un necrologio di circostanza alla scomparsa di un grande attore. Anche quei portici erano figli di un'economia che forse era cresciuta cancellando un fiore caro a un contadino dimenticato. Ma quel contadino era dimenticato appunto, troppo lontano, lontano come il potere che aveva causato lo scempio. E in quella lontananza l'ostentazione perdeva le colpe dell'ideologia che l'aveva generata e diventava buona architettura, solo buona architettura.
Sorrisi. L'ostentazione di un potere che nasceva generava paura e accusa. L'ostentazione di un potere che era morto tanto tempo fa generava un'estatica contemplazione. Forse il turismo culturale era un po' anche questo o forse solo questo: una sorte di pellegrinaggio, vagamente ipocrita, fatto da persone ostili al potere verso l'innocenza presunta dei luoghi sacri dei poteri estinti.
Mi misi alla ricerca dei segnali che ci rendevano diversi da quella foto, rispettosi del fiore solitario. Camminai per le vie di Bologna: quei portici erano così autenticamente medioevali Noi non avevamo dimenticato il passato: ci prendevamo ancora dell'architettura vera, quella che creava spazi per le persone e non posti letto per le industrie.
Ci appoggiai la mano su una di quelle colonne alla base del portico. Volevo scavare nella memoria di una società che non aveva ancora dimenticato. Ma ne rimasi deluso. Lungo il braccio corse solo un dubbio. Quei mattoni mi sembrarono improvvisamente come persone: da lodare perché morte, come in un necrologio di circostanza alla scomparsa di un grande attore. Anche quei portici erano figli di un'economia che forse era cresciuta cancellando un fiore caro a un contadino dimenticato. Ma quel contadino era dimenticato appunto, troppo lontano, lontano come il potere che aveva causato lo scempio. E in quella lontananza l'ostentazione perdeva le colpe dell'ideologia che l'aveva generata e diventava buona architettura, solo buona architettura.
Sorrisi. L'ostentazione di un potere che nasceva generava paura e accusa. L'ostentazione di un potere che era morto tanto tempo fa generava un'estatica contemplazione. Forse il turismo culturale era un po' anche questo o forse solo questo: una sorte di pellegrinaggio, vagamente ipocrita, fatto da persone ostili al potere verso l'innocenza presunta dei luoghi sacri dei poteri estinti.
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