Quando a buio inoltrato ti avvii su per la montagna più alta di Romagna e ti ritrovi circondato da una tormenta di neve, qualche domanda ti sovviene. Almeno a me, ieri, è sovvenuta e non mi pare onesto liquidarla sotto silenzio, avvolta dalla retorica del ritorno. Già migliaia di persone hanno raccontato qualcosa che potrebbe suonare così: “La nebbia scendeva sempre più fitta e nascondeva anche i rumori: nell’aria solo vento e respiro ed eco di passi, incerti sulla direzione da prendere. Nella testa una lotta silenziosa tra il panico e l’auto-controllo alla ricerca della scelta giusta, dell’indizio che ti tiene sulla via del ritorno. Chiusi gli occhi per proteggermi dalle frecciate di ghiaccio lanciate dalla tempesta e nel buio ripercorsi il sentiero con la memoria fino a trovare la casa sul bivio dei prati della burraia e di lì il cunicolo nella neve che riportava alla Calla”.
Va bene, siccome sono qui che scrivo, la nebbia e la neve sono alle spalle, felicemente domate e io potrei decantare la solidità fisica e morale dei quattro che ieri notte hanno fatto l’impresa. Però non sono dell’idea. Quella critica d’arte molto critica, al secolo Rebecca Solnit (già citata), ha sezionato questa letteratura eroica come il cuore di un topolino in un centro di ricerca. Ma non solo. La perfida si è anche divertita ad andare oltre e a smontare la pretesa naturalezza dell’amore per gli spazi naturali. Tu vai pure su per le salite, pensando di consumare un’originale protesta contro la società di massa, ma sei invece figlio di un chiaro processo storico culturale che infatti il marketing ha studiato e messo a profitto. Tu sali lassù, in quei luoghi orridi che i contadini della zona battezzavano come inutili e inospitali, perché una schiera di aristocratici e poeti, passando attraverso i giardini francesi e quelli inglesi, si è alla fine convinta che la natura selvaggia fosse un oggetto d’arte e che saperla contemplare e apprezzare fosse oggetto di vanto, insomma che “facesse abbastanza fico”. E così schiere di emuli lettori hanno iniziato a calcare le medesime vie fino a diventare un gruppo che il mercato ha preso a blandire con foto di ragazzetti vesti alla Rambo issati su cime che farebbero rabbrividire qualsiasi mamma dai sani principi.
Coi resti dell’analisi anatomica fatta alla mia fase “naturale crepuscolare” del cammino, non posso certo lasciarmi andare a frasi del genere: “Mentre il bianco della neve e il grigio della nebbia isolava il ritmo del respiro, ritrovai la congiunzione dell’io con il tutto, l’estasi di vivere le braccia come rami e i piedi come radici”. Bah, pensate a cosa direbbe un faggio secolare, piantato su radici rugose e imponenti, se scoprisse di dover ergersi per altri cento anni sulle vostre radici-piede? Capite che il discorso non tiene: lasciamo dunque perdere la storia dei piedi radice e le altre consimili naturalizzazioni forzate di arti e istinti umani...
E allora. Qualcuno, suppongo con una certa soddisfazione, potrebbe dire: “Vedi, pirla, che alla fine avevo ragione io: tanto andare non serve a nulla, specie quando una nutrita serie di ritrovi cittadini offre alternative baccanali di ben altra portata, da espletare senza appendici ai piedi per non scivolare sui ghiacci”. A parte che, con la giusta compagnia, so già apprezzare anche i luoghi suddetti, dove - vi assicuro, con assoluto stupore - ho capito addirittura di aver un palato sufficientemente sensibile per poter bagnarsi di gioia in un pregiato whisky scozzese.
Ma non è questo il punto. Perdere l’animosità dello spirito eroico delle riviste patinate o la verve crepuscolare della letteratura romantica non significa perdere tutto, svuotare un gesto di ogni significato. E’ tutto l’opposto. Significa che tutta quella strada percorsa non è passata inutilmente ma lasciando un’eredità: luoghi, persone, immagini, cartine, libri che, come tanti scalpellini, hanno rimodellato la geografia dei tuoi dubbi, delle tue certezze della tua capacità di dialogo. E non solo in quelle poche ore in cui cammini, ma anche in tutto il resto: quando viaggi, baci, scrivi, leggi, brindi, condividi una foto online o rispondi all’email di un amico. In tutto insomma. E se è vero che questo dialogo con il passato e con gli altri fa sembrare vagamente stupide e ripetitive tante delle cose che hai fatto è però vero che isola quel poco, spesso un frammentino nascosto, che invece, nonostante tutte le analisi del mondo, resta originale e dunque unico e prezioso, non solo per te, ma soprattutto per gli altri che, impegnati in un percorso affine, sono alla ricerca di punto di incontro e di scambio per viaggiare, baciare, scrivere, leggere, brindare, condividere una foto online o rispondere all’email di un amico.
Nudo di eroismo e romanticismo, nel prossimo cammino, ci penserò ancora.
1 commento:
bravo Silvio!!!
è vero che io sono anche "un po'" vittima del marketing, cioè credo che "farebbe fico" essere pagati per andare in montagna da qualche azienda dal nome avventuroso di una landa nell'estremo sudamerica...ma prima di tutto andare in montagna mi piace, mi sento a mio agio, mi distacca dalle routine quotidiane, mi sento a casa e allafine del giorno vorrei infilarmi in un sacco a pelo la' di traverso e svegliarmi di mattina senza rumori e visioni di automobili...specialmente i verdi land rover della forestale!
Edo
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