Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
lunedì, novembre 23, 2009
domenica, novembre 22, 2009
Il ponte tra Ravenna e Santa Caterina
Alzai lo sguardo verso l’alto, verso la volta musiva della basilica di San Vitale a Ravenna. Non per la prima volta in assoluto, questo no, ma per la prima volta alla ricerca di un frammento di me stesso dal recente passato. Fissai gli occhi del Cristo e la memoria fece riaffiorare le parole che l’egittologo John mi aveva detto al Cairo la sera prima della mia partenza per il Monastero di Santa Caterina nel Sinai. “Le icone – mi disse John allora con un Macintosh surrealmente adagiato di fronte al piatto – non sono fatte per essere guardate, ma per guardare. Sono lì ferme, immobili, stilizzate: completamente irrealistiche ma altrettanto penetranti. Finché sono sole non dicono nulla, ma, prova a guardarle, prova a fissare il loro sguardo che non si abbassa mai, e allora diventeranno porte per un viaggio infinito. Le icone non dovevano decorare; dovevano dialogare, essere specchio dell’anima e finestra sulla perfezione del divino”.
Rimasi immobile sotto quegli occhi costantemente aperti e mi chiesi come fosse possibile che non l’avessi mai notato prima. Ma fu solo il disappunto di un momento. Ero stato lontano, avevo ascoltate parole straniere e ora ero lì, a pochi passi da casa mia, e la compagnia di quei ricordi si fondeva con la conoscenza di me e della mia terra.
Sentii l’inevitabile piacere di qualcosa che si univa. Era come se lo vedessi: due ricordi destinati a perdersi erano ora uniti da un ponte che li avrebbe sorretti entrambi. Prima erano deboli e solinghi; ora erano forti e spavaldi. Semplice, efficace, immensamente piacevole.
Abbassai gli occhi sulla persona che stava in piedi con me sotto la cupola.
“Ti è venuto in mente qualche lunga storia da scrivere?” mi chiese con il tono di chi ha voglia di piacere e sa come farlo.
“Non esattamente” risposi un po’ furbetto, con il tono di chi finge di conoscere le regole del gioco, ma ha in realtà tanta voglia di starci, al gioco, e di scoprire le sue carte al mondo intero.
“Non esattamente” ripresi. Poi, appesantito dal mistero, ma anche conscio del suo fascino, risposi sibillino: “In realtà, sì, avrei voglia di scrivere come non mai, ma solo una storia non semplice, la storia che unirebbe me e il mondo come il ponte tra i mosaici di Ravenna e di Santa Caterina”.
Rimasi immobile sotto quegli occhi costantemente aperti e mi chiesi come fosse possibile che non l’avessi mai notato prima. Ma fu solo il disappunto di un momento. Ero stato lontano, avevo ascoltate parole straniere e ora ero lì, a pochi passi da casa mia, e la compagnia di quei ricordi si fondeva con la conoscenza di me e della mia terra.
Sentii l’inevitabile piacere di qualcosa che si univa. Era come se lo vedessi: due ricordi destinati a perdersi erano ora uniti da un ponte che li avrebbe sorretti entrambi. Prima erano deboli e solinghi; ora erano forti e spavaldi. Semplice, efficace, immensamente piacevole.
Abbassai gli occhi sulla persona che stava in piedi con me sotto la cupola.
“Ti è venuto in mente qualche lunga storia da scrivere?” mi chiese con il tono di chi ha voglia di piacere e sa come farlo.
“Non esattamente” risposi un po’ furbetto, con il tono di chi finge di conoscere le regole del gioco, ma ha in realtà tanta voglia di starci, al gioco, e di scoprire le sue carte al mondo intero.
“Non esattamente” ripresi. Poi, appesantito dal mistero, ma anche conscio del suo fascino, risposi sibillino: “In realtà, sì, avrei voglia di scrivere come non mai, ma solo una storia non semplice, la storia che unirebbe me e il mondo come il ponte tra i mosaici di Ravenna e di Santa Caterina”.
lunedì, novembre 16, 2009
domenica, novembre 08, 2009
martedì, novembre 03, 2009
Passaggio di fronte al rudere dalla memoria roca
C’è un rudere nascosto in una corona di colori autunnali di un bosco dalle tinte orride. E ci sono gruppi di persone che sfiorano quelle pietre dalla memoria ormai roca, incapace di farsi sentire forte. E ci sei tu che, volontariamente seduto più lontano, osservi i gruppi che passano e i loro occhi che guardano il rudere e la sua memoria roca.
Passa il gruppetto dei ragazzi che corrono verso il futuro. Lo portano scritto negli abiti all’ultimo grido, nella tecnologia che li lascia mai veramente dove sono. Li vedi, i loro sguardi. Sono di sfida e compassione. Dicono che loro da quel rudere pietoso non torneranno più: se ne andranno più lontani possibile.
Passa il gruppetto che segue la donna con la bandierina che parla al microfono senza guardarsi indietro. Loro, il rudere, non lo vedono. Vedono solo ciò che la guida dice loro di vedere. “Salite su quella pietra: di lassù le foto vengono bellissime”.
Passa poi il gruppetto che viene dalla città vicina. Lo senti prima che arrivi, dall’accento familiare ma non troppo. Nessuno ci ha mai vissuto nel rudere o nei suoi fratelli ormai macerie né nessuno lo farà mai, ma puntuale qualcuno vagheggia di trasferirvisi.
L’attendi, infine, ma non passa il residente. Poco lontano dal rudere ci vive, ma non ci va mai. Troppo vicino per raccontare un viaggio che qualcuno ascolti, troppo lontano per essere raggiunto con la passeggiata della sera.
E poi ci sei tu che guardi tutti i gruppi che passano. Non solo senza un sottile e tagliente sarcasmo. Tu hai già studiato tutti quei comportamenti superficiali. Hai letto le parole di chi li ha descritti e hai anche ascoltato chi ha suggerito il modo giusto per riappropriarsi di quel rudere e del suo paesaggio in modo concreto e simbolico. Per questo ti sei messo seduto più lontano e hai lasciato corda libera alla deriva dei significati del luogo e delle letture che li hanno alimentati.
Passa però uno spazio così ampio tra il mondo e i simboli con cui lo leggi che ti chiedi se in realtà anch’essi non siano finti e artificiosi, se anch’essi servano a qualcosa o a nessuno, né a te che vi rimani intrappolato, né ai gruppetti di passaggio che non li comprendono, né al rudere la cui memoria rimane roca.
Passa il gruppetto dei ragazzi che corrono verso il futuro. Lo portano scritto negli abiti all’ultimo grido, nella tecnologia che li lascia mai veramente dove sono. Li vedi, i loro sguardi. Sono di sfida e compassione. Dicono che loro da quel rudere pietoso non torneranno più: se ne andranno più lontani possibile.
Passa il gruppetto che segue la donna con la bandierina che parla al microfono senza guardarsi indietro. Loro, il rudere, non lo vedono. Vedono solo ciò che la guida dice loro di vedere. “Salite su quella pietra: di lassù le foto vengono bellissime”.
Passa poi il gruppetto che viene dalla città vicina. Lo senti prima che arrivi, dall’accento familiare ma non troppo. Nessuno ci ha mai vissuto nel rudere o nei suoi fratelli ormai macerie né nessuno lo farà mai, ma puntuale qualcuno vagheggia di trasferirvisi.
L’attendi, infine, ma non passa il residente. Poco lontano dal rudere ci vive, ma non ci va mai. Troppo vicino per raccontare un viaggio che qualcuno ascolti, troppo lontano per essere raggiunto con la passeggiata della sera.
E poi ci sei tu che guardi tutti i gruppi che passano. Non solo senza un sottile e tagliente sarcasmo. Tu hai già studiato tutti quei comportamenti superficiali. Hai letto le parole di chi li ha descritti e hai anche ascoltato chi ha suggerito il modo giusto per riappropriarsi di quel rudere e del suo paesaggio in modo concreto e simbolico. Per questo ti sei messo seduto più lontano e hai lasciato corda libera alla deriva dei significati del luogo e delle letture che li hanno alimentati.
Passa però uno spazio così ampio tra il mondo e i simboli con cui lo leggi che ti chiedi se in realtà anch’essi non siano finti e artificiosi, se anch’essi servano a qualcosa o a nessuno, né a te che vi rimani intrappolato, né ai gruppetti di passaggio che non li comprendono, né al rudere la cui memoria rimane roca.
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