Il sole che tramonta spinge gli ultimi raggi sull’antica Tebe e le colonne del tempio di Luxor intrecciano le loro ombre, sempre più lunghe. Mi siedo su una panchina nella sponda orientale del Nilo e con il teleobiettivo cerco il volto di un bambino che tiene in mano le redini di un calesse, di un ragazzo che corre tra le rovine del tempio di un vecchio che urla dal finestrino di un minibus.
Cerco di isolarmi in uno spazio tutto mio, ma non si è mai veramente soli nelle sponde del Nilo.
“Hello my friend” mi dice una voce da dietro le spalle. E’ un ragazzo, anzi no ha qualche capello bianco che lo fa già uomo. Ha i sandali, l’abito lungo, la carnagione scura. E’ un marinaio. “Un giro in feluca nel Nilo, un’ora, non costa quasi nulla”.
“Tra poco parto” gli dico nascondendomi dietro l’obiettivo.
“Allora una mezz’ora, per dire arrivederci al fiume della vita”.
“Non mi va di correre”.
Silenzio. Strano. In Egitto la contrattazione non si ferma mai.
“Sono stanco signore” mi dice mentre lo credevo già lontano. “E’ da troppo che parlo con i turisti. Ho bisogno di un tè. Vuoi essere ospite della mia barca?”.
“Ti ho detto che non farò un giro in barca” gli rispondo ancora, questa volta guardandolo in faccia.
“Solo per il tè, un tè sul Nilo” ripete lui.
Resto scettico. “Sicuro che non insisterai tutto il tempo per vendermi un giro?” lo incalzo.
“Sicuro. Solo un tè. Io non modificherò l’accordo. Se lo farai tu, ne sarò felice, la mia famiglia te ne sarà grata. Ma io non modificherò l’accordo”.
“Mi chiamo Hacmed” dice lui allungando la mano.
“Silvio” gli rispondo ricambiando il gesto.
La feluca di Hacmed è ormeggiata a pochi passi, in una giungla di corde e alberi maestri, di giovani apprendisti marinai che corrono su stretti passaggi in legno che scricchiolano senza però cedere. Mi siedo a poppa tra piccoli tappeti umidi. Hacmed invece si inginocchia a prua: è lì, in una piccola coperta, che si trova la cucina. Un fornello a gas, qualche fiammifero, una giumella deformata dal calore e un sacchetto di fiori rossi, fiori di ibisco. Hacmed tuffa la giumella nel Nilo: “L’acqua bollirà – mi dice – non ti farà niente”.
Poco dopo una bevanda rossiccia dondola in bicchieri trasparenti seguendo le onde del Nilo. Hacmed dice che la sua barca può contenere fino a otto persone per una crociera sul Nilo. Ha alcune assi che lo aiutano a costruire un unico piano, dove la notte si può dormire tra il verde delle acque e il nero del cielo. “C’è un unico pericolo” racconta. “Alcuni pescatori la notte si avvicinano alla feluca e derubano i turisti dei loro piccoli oggetti”. “Per questo – aggiunge – io la notte non dormo mai”.
E’ già buio quando Hacmed finisce di descrivermi la sua famiglia. Una sorella giovanissima, ancora da sposare. Una sorella più grande, con tre figli, lasciata sola dal marito, ma in grado di mantenersi da sola con piccoli oggetti di sartoria che vende al bazar. Il fratello maggiore, per un lui un padre, ma ormai lontano, in Norvegia, con la moglie.
“Per me è ora di rientrare” gli dico.
“In che hotel alloggi?” mi chiede lui.
“Al piccolo El Gezira – rispondo – sulla sponda occidentale”.
Sorride. “Lo conosco bene – racconta -. E’ stato il primo hotel di quella sponda. Vivo proprio lì dietro. E’ come se fossimo vicini di casa. Come rientri?”.
“Col traghetto. Recupero la bici e poi attraverso il Nilo in traghetto”.
“Allora possiamo rientrare assieme. Così ti aiuto a far scendere la bici fino alle sponde del Nilo”.
La sponda ovest dell’antica Tebe resta ancora un villaggio. Sopra l’attracco del traghetto c’è un campo da calcetto, dove i giovani abitanti di Luxor rincorrono il pallone fino a notte fonda. Un’unica strada penetra nei campi coltivati fino a raggiungere i giganti di Memnone e le tombe della Valle dei Re. Ai bordi della carreggiata, una miriade di basse abitazioni in terra che disegnano intricate geometrie di viottoli e cortili. Hacmed abita con le sue sorelle e i suoi nipoti in una delle abitazioni più grandi: “Mia madre – spiega – non ha mai voluto vendere. Qui il terreno costa caro e molti lo volevano, ma lei si è sempre rifiutata. Diceva che questo sarebbe stato il cortile per i suoi figli e i suoi nipoti”. Da quel cortile Hacmed esce ogni mattina per approdare alla sponda orientale e cercare di sovrastare con la sua voce la voce degli altri marinai di feluca. Torna per il pranzo e poi di nuovo via a gridare fino a sera. Quando fa tardi alla notte rimane a casa, ma lo fa poche volte. “Mi piace attraversare il fiume e immergermi nel caos. Anche quando non raccolgo nulla, mi sento utile per la mia famiglia e mi sento vivo. Bisogna vedere un po’ di vita per sentirsi vivi”.
Si rivolge alla sorella in arabo e questa porta tre limonate fresche con lo zucchero. Una per Hacmed, una per me e una per la bambina più piccola. La spremuta è quasi cremosa. “Mia sorella la prepara come nessun altro”.
Tutti sediamo su panchine in legno, tra muri bassi e rovinati. C’è poca luce e poca acqua. Ma i cellulari brillano in quel mondo come e più che altrove. Mi mostra il suo, con un grande schermo, e mi invita a guardare la danza frenetica della festa in occasione del matrimonio della cugina. “Se vuoi te lo invio” mi chiede.
“Il mio cellulare non consente di vedere i video” gli rispondo.
Il muezzin chiama alla preghiera dalla vetta del Minareto. Hacmed si dirige verso la moschea, io verso il volo che mi riporterà tra i ventiquattro milioni di abitanti del Cairo.
Hacmed non hai mai fatto quel volo e forse non lo farà mai come tanti altri abitanti dell’antica Tebe. Ma con lui c’è quel cellulare supertecnologico. Il marinaio Hacmed lo guarda come il soldato di Buzzati guarda il deserto e aspetta che lì, sul grande monitor, si affaccino i Tartari. Il cellulare è legato alla grande rete, al tutto. Da lì forse un giorno uscirà una voce e la sua vita cambierà per sempre.
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