Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
sabato, aprile 28, 2007
Lietchfield National Park
giovedì, aprile 26, 2007
I tormenti del giovane ingegnere aerospaziale
I coccodrilli di acqua salata continuano a uccidere con statistica regolarita'. Le mosche dominano le ore del giorno. Le zanzare regnano nella notte. Le foreste di eucalipto si divertono a prendere in giro la tecnologia cellulare. E, a qualche centinaio di km da Darwin, frutta e verdura scompaiono dalle tavole. Nel top end dell'Australia la vita resta ancora una lotta per la sopravvivenza senza un vincitore charo.
Darwin, oggi, non e' certo piu' il pionieristico porto militare che fu pensato all'inizio. I grattacieli che ne dominano la baia, anzi, spingono a credere che un centinaio di anni siano stati sufficienti a trasformare una caserma in una Florida australe. Ma e' solo un'istantanea che scompare pochi Km dopo le ultime case di periferia. Li', lontano dall'aria condizionata, il clima regna ancora padrone e la stagione delle piogge inonda miglia di ettari per mesi e mesi. Il cosiddetto "wet" finisce ufficialmente a fine marzo, ma vaste aree, grandi ognuna come una nazione europea, restano inaccessibili fino a maggio, talvolta fino a giugno. In quelle terre manca l'uomo, ma spopolano centinaia di altre forme di vita: insetti di ogni genere, coccodrilli, serpenti e uccelli dai colori tropicali. Tra le specie piu' curiose c'e' il rock wallaby che sono anche riuscito a fotografare: e' cosi' riservato che gli etologi non sanno ancora quasi nulla del suo comportamento. E poi ci sono le magneto termiti, facilmente visibili perche', per sfuggire alle inondazioni stagionali, costruiscono massicce colonne che svettano per metri sopra le lagune o si mimitezzano tra i tronchi di eucalipto.
Quando l'umidita', gli insetti e le distanze concedono una tregua questa terra inospitale diventa un non-luogo confortevole per chiacchierate serali. Cosi', sotto un barlume di luce stellare e sopra il fruscio di una cascata, Federico ha proseguito il suo bilancio esistenziale. O, piu' semplicemente, il suo bilancio accademico. Al momento, la differenza tra i due e' flebile. Quella laurea in ingegneria aerospaziale al Politecnico di Milano si agita in lui indomita, come un vangelo laico a cui sia stata tributata un'eccessiva fedelta'. La religiosa pergamena e' materia recente. I volti di amici e parenti alla proclamazione sono ancora archiviti nella macchina fotografica. "Era il 21 dicembre", spiega lui indicando i cappelli da babbo natale nello schermo.
Dall'alto dei sui 25 anni, il ragazzo di Verona che ha studiato a Milano, lega a quella data un grosso rimpianto. Un leggero ritardo su un bando dell'Esa, l'Agenzia spaziale europea. "Sarebbe stato l'unico luogo dove avrei potuto fare cio' che volevo", lamenta.
Il suo risentimento traspare in gesti e parole. "Lo scopo di un'Universita', in fondo, non dovrebbe essere quello di produrre gente in grado di dare un contributo originale alla materia studiata? Non dovrebbe essere la palestra della creativita'? E invece, invece trascorri gli anni forse piu' creativi della tua vita senza alcun margine di liberta' per creare qualcosa di tuo".
Nel bilancio di questa liberta' rubata piove di tutto. Il pianoforte, abbandonato dopo dieci anni di studio. La letteratura, amata e relegata alla notte. Percorsi personali nella materia. E poi il sonno, perso lungo la via, come se spegnersi fosse una colpa imperdonabile lungo la crociata per la conoscenza.
"Questo viaggio - prosegue - doveva essere il riscatto delle mie velleita' artistiche, ma lasciamo perdere. Sono cosi' esausto che non riesco neppure piu' a scrivere una mail... E poi quando arrivi qui e ti confronti con la gente degli altri paesi, che e' piu' giovane di te, che ha gia' girato il mondo e che magari ha gia' laurea e dottorato, ti chiedi come sia possibile che tutto questo ti sia accaduto, come sia possibile che un'istituzione abbia preteso cosi' tanto e cosi' a lungo da te.
Non so Silvio, forse per te e' stato diverso. Ho sempre pensato che facolta' come la tua, in genere tutte quelle umanistiche, siano luoghi dove conta piu' quello che sei che quello che sai".
"Decisamente vero, ma il risultato non cambia poi molto. Quando capisci che un manuale di semiotia o un saggio di economia non rappresentano per te nulla di distintivo ne' a livello culturale ne' a livello professionale, la smania di andare oltre e costruiri percorsi paralleli ti invade divorando il tempo. A me quella smania arrivo' il quarto anno e in breve si materializzo' in fenesia, perche' come al solito mi sentii in ritardo. Mi sembrava di essere tornato agli inizi delle superiori, quando, sbarcato in "citta'" dal mio piccolo paese, mi trovai tra gente che aveva gia' studiato il latino e masticava gia' l'inglese. Come allora, ero di nuovo indietro. Nell'ambiente di Comunicazione, dove il test di ingresso aveva fatto filtrare solo eccellenti voti di maturita', c'era chi frequentava corsi di teatro, chi scriveva da anni in giornali di provincia e chi era gia' all'avanguardia con i codici del web. Io, invece, avevo solamente letto tonnellate di romanzi ottocenteschi, professionalmente irrilevanti, e macinato centinai di Km in bicicletta, quasi una colpa.
Fu uno shock e ci misi quasi due anni ad allinearmi agli altri e magari a superarne molti di slancio. Ci misi giusto il tempo per arenare la mente nella palude della tesi. Sono ancora orgoglioso delle 200 pagine che alla fine produssi e della catena di avvenimenti che ne e' conseguita, ma lo stesso il concepimento di quell'opera resta un buco nero a cui non mi piace guardare. Per orgoglio personale, per pressioni esterne contingenti, per spirito di emulazione, mi rifiutavo di limitarmi a qualcosa di interamente banale. Ma nel contempo ero vittima della passivita' che, come tu hai notato ancora piu' di me, l'universita' ti instilla per cinque lunghi anni. Ero ormai un metronomo nel riportare le teorie altrui, ma non avevo la benche' minima idea sul come partorine una mia: mi sembrava che nulla nella mia testa fosse sufficientemente originale per imbrattare la carta come presunta novita'. Fu il vuoto: passai giorni in camera senza leggere una riga, senza produrne alcuna, patendo ogni secondo di orologio come un anno buttato. E di secondi, ti assicuro, ne ho patiti molti, perche' li contavo tutti, senza dormire, senza fermarmi a tavola, senza uscire, senza pause se si eccettuano quelle che mi impose mia madre trascinandomi fuori di casa come uno zombi".
"E questo per quanto e' durato?".
"Forse tre mesi, forse un po' meno. Piu' tardi, l'inizio del lavoro statistico mi concentro' la mente su qualcosa che non fosse la mia inadeguatezza al ruolo e dopo mi trovai a scrivere, esausto ma di nuovo possibilista".
"Tre mesi, praticamente nulla. Tu non sai quello che vuol dire essere veramente sotto pressione. Perdere il sonno per continuare a pensare".
"Onestamente spero di continuare a no capirti. E credo anche che tu sia piuttosto grave e che sia tempo di recidere con quel passato".
"Ma non e' facile. Dopo sei anni passati come una crociata per ottenere un lavoro, non e' facile fermarsi qui e ignorare il tempo".
"Sai, forse sei venuto troppo presto. Avresti dovuto lavorare un po' prima di partire. Avresti sicuramente avuto un bagaglio di illusioni e speranze meno gravoso".
"Puo' darsi. E' il tuo caso? Disgustato dal lavoro?".
"Non e' la parola giusta. In piu' di un'occasione cio' che ho fatto e' stato anche piacevole. Considera pero' che, lavorando in un ambiente accademico, gli abusi di potere che tu hai sperimentato da studente cambiano forma, ma si protraggono, riducendoti spesso piu' a un esecutore di ordini non negoziabili che a un analista di una materia conosciuta. E poi c'e' il tempo. Dopo tre anni credo che qualsiasi contesto tradisca una certa ripetitivita'. Mi siedevo alle conferenze stampa e sapevo gia' cosa sarebbe stato detto e come l'avrei potuto scrivere. Urgeva una pausa e forse un break dal giornalismo nel suoi insieme, che, stando a indiscrezioni raccolte, tradisce un forte malessere anche in sfere piu' altolocate".
"Hai mai riflettuto su cosa vorresti scrivere tu?".
"Di preciso non mi e' chiaro. So solo che mi entusiasmano di piu' le piccole porzioni di storia dagli esiti imprevedibili che le grandi questioni dove alla fine l'esito e' scontato. Ti sembra comparabile il fascino di un algerino abbandonato dalla moglie a Sydney con il fascino di qualsiasi ministro che ribadisce la necessita' della ricerca. Ed eppure, di cento giornali che aprirai, cento riporteranno il corsivo del ministro, che a quel punto sembrera' davvero una persona dotata di potere, e nessuno lascera' mai lo spazio al resto".
Copiosi richiami letterari e sterminate distese di eucalipti hanno fatto da sfondo a questi discorsi, sempre a meta' tra il passato italiano e il presente australiano. Il loro fluire aveva un certo alone artistico. Non per la qualita' delle riflessioni prodotte - quelle possono essere anche banali e di scarso interesse -, ma per il contesto in cui si alimentavano. In quel frangente avevamo un grado di liberta' insolito. Senza identita' passate troppo forti, senza traguardi futuri troppo nitidi, senza impellenze materiali veramente pressanti, senza legami personali veramente sedimentati, e senza i rituali quotidiani di una vita sanziale, la vita era pura creazione del momento. Appunto, vagamente artistica.
Il confronto, tra lunghi spostamenti e nuotate fluviali, e' proseguito sino all'aeroporto di Darwin, dove l'ingegnere ha preso il primo volo sulla rotta per la Nuova Zelanda. "Silvio - mi ha detto scherzando Federico - trova la via di casa prima o poi, che in questo paese ti stai trovando troppo bene".
"D'accordo, ma tu vedi di non ritrovarla troppo presto!".
"Si' ma se poi questa cosa mi iniziasse a piacere troppo?".
Darwin, oggi, non e' certo piu' il pionieristico porto militare che fu pensato all'inizio. I grattacieli che ne dominano la baia, anzi, spingono a credere che un centinaio di anni siano stati sufficienti a trasformare una caserma in una Florida australe. Ma e' solo un'istantanea che scompare pochi Km dopo le ultime case di periferia. Li', lontano dall'aria condizionata, il clima regna ancora padrone e la stagione delle piogge inonda miglia di ettari per mesi e mesi. Il cosiddetto "wet" finisce ufficialmente a fine marzo, ma vaste aree, grandi ognuna come una nazione europea, restano inaccessibili fino a maggio, talvolta fino a giugno. In quelle terre manca l'uomo, ma spopolano centinaia di altre forme di vita: insetti di ogni genere, coccodrilli, serpenti e uccelli dai colori tropicali. Tra le specie piu' curiose c'e' il rock wallaby che sono anche riuscito a fotografare: e' cosi' riservato che gli etologi non sanno ancora quasi nulla del suo comportamento. E poi ci sono le magneto termiti, facilmente visibili perche', per sfuggire alle inondazioni stagionali, costruiscono massicce colonne che svettano per metri sopra le lagune o si mimitezzano tra i tronchi di eucalipto.
Quando l'umidita', gli insetti e le distanze concedono una tregua questa terra inospitale diventa un non-luogo confortevole per chiacchierate serali. Cosi', sotto un barlume di luce stellare e sopra il fruscio di una cascata, Federico ha proseguito il suo bilancio esistenziale. O, piu' semplicemente, il suo bilancio accademico. Al momento, la differenza tra i due e' flebile. Quella laurea in ingegneria aerospaziale al Politecnico di Milano si agita in lui indomita, come un vangelo laico a cui sia stata tributata un'eccessiva fedelta'. La religiosa pergamena e' materia recente. I volti di amici e parenti alla proclamazione sono ancora archiviti nella macchina fotografica. "Era il 21 dicembre", spiega lui indicando i cappelli da babbo natale nello schermo.
Dall'alto dei sui 25 anni, il ragazzo di Verona che ha studiato a Milano, lega a quella data un grosso rimpianto. Un leggero ritardo su un bando dell'Esa, l'Agenzia spaziale europea. "Sarebbe stato l'unico luogo dove avrei potuto fare cio' che volevo", lamenta.
Il suo risentimento traspare in gesti e parole. "Lo scopo di un'Universita', in fondo, non dovrebbe essere quello di produrre gente in grado di dare un contributo originale alla materia studiata? Non dovrebbe essere la palestra della creativita'? E invece, invece trascorri gli anni forse piu' creativi della tua vita senza alcun margine di liberta' per creare qualcosa di tuo".
Nel bilancio di questa liberta' rubata piove di tutto. Il pianoforte, abbandonato dopo dieci anni di studio. La letteratura, amata e relegata alla notte. Percorsi personali nella materia. E poi il sonno, perso lungo la via, come se spegnersi fosse una colpa imperdonabile lungo la crociata per la conoscenza.
"Questo viaggio - prosegue - doveva essere il riscatto delle mie velleita' artistiche, ma lasciamo perdere. Sono cosi' esausto che non riesco neppure piu' a scrivere una mail... E poi quando arrivi qui e ti confronti con la gente degli altri paesi, che e' piu' giovane di te, che ha gia' girato il mondo e che magari ha gia' laurea e dottorato, ti chiedi come sia possibile che tutto questo ti sia accaduto, come sia possibile che un'istituzione abbia preteso cosi' tanto e cosi' a lungo da te.
Non so Silvio, forse per te e' stato diverso. Ho sempre pensato che facolta' come la tua, in genere tutte quelle umanistiche, siano luoghi dove conta piu' quello che sei che quello che sai".
"Decisamente vero, ma il risultato non cambia poi molto. Quando capisci che un manuale di semiotia o un saggio di economia non rappresentano per te nulla di distintivo ne' a livello culturale ne' a livello professionale, la smania di andare oltre e costruiri percorsi paralleli ti invade divorando il tempo. A me quella smania arrivo' il quarto anno e in breve si materializzo' in fenesia, perche' come al solito mi sentii in ritardo. Mi sembrava di essere tornato agli inizi delle superiori, quando, sbarcato in "citta'" dal mio piccolo paese, mi trovai tra gente che aveva gia' studiato il latino e masticava gia' l'inglese. Come allora, ero di nuovo indietro. Nell'ambiente di Comunicazione, dove il test di ingresso aveva fatto filtrare solo eccellenti voti di maturita', c'era chi frequentava corsi di teatro, chi scriveva da anni in giornali di provincia e chi era gia' all'avanguardia con i codici del web. Io, invece, avevo solamente letto tonnellate di romanzi ottocenteschi, professionalmente irrilevanti, e macinato centinai di Km in bicicletta, quasi una colpa.
Fu uno shock e ci misi quasi due anni ad allinearmi agli altri e magari a superarne molti di slancio. Ci misi giusto il tempo per arenare la mente nella palude della tesi. Sono ancora orgoglioso delle 200 pagine che alla fine produssi e della catena di avvenimenti che ne e' conseguita, ma lo stesso il concepimento di quell'opera resta un buco nero a cui non mi piace guardare. Per orgoglio personale, per pressioni esterne contingenti, per spirito di emulazione, mi rifiutavo di limitarmi a qualcosa di interamente banale. Ma nel contempo ero vittima della passivita' che, come tu hai notato ancora piu' di me, l'universita' ti instilla per cinque lunghi anni. Ero ormai un metronomo nel riportare le teorie altrui, ma non avevo la benche' minima idea sul come partorine una mia: mi sembrava che nulla nella mia testa fosse sufficientemente originale per imbrattare la carta come presunta novita'. Fu il vuoto: passai giorni in camera senza leggere una riga, senza produrne alcuna, patendo ogni secondo di orologio come un anno buttato. E di secondi, ti assicuro, ne ho patiti molti, perche' li contavo tutti, senza dormire, senza fermarmi a tavola, senza uscire, senza pause se si eccettuano quelle che mi impose mia madre trascinandomi fuori di casa come uno zombi".
"E questo per quanto e' durato?".
"Forse tre mesi, forse un po' meno. Piu' tardi, l'inizio del lavoro statistico mi concentro' la mente su qualcosa che non fosse la mia inadeguatezza al ruolo e dopo mi trovai a scrivere, esausto ma di nuovo possibilista".
"Tre mesi, praticamente nulla. Tu non sai quello che vuol dire essere veramente sotto pressione. Perdere il sonno per continuare a pensare".
"Onestamente spero di continuare a no capirti. E credo anche che tu sia piuttosto grave e che sia tempo di recidere con quel passato".
"Ma non e' facile. Dopo sei anni passati come una crociata per ottenere un lavoro, non e' facile fermarsi qui e ignorare il tempo".
"Sai, forse sei venuto troppo presto. Avresti dovuto lavorare un po' prima di partire. Avresti sicuramente avuto un bagaglio di illusioni e speranze meno gravoso".
"Puo' darsi. E' il tuo caso? Disgustato dal lavoro?".
"Non e' la parola giusta. In piu' di un'occasione cio' che ho fatto e' stato anche piacevole. Considera pero' che, lavorando in un ambiente accademico, gli abusi di potere che tu hai sperimentato da studente cambiano forma, ma si protraggono, riducendoti spesso piu' a un esecutore di ordini non negoziabili che a un analista di una materia conosciuta. E poi c'e' il tempo. Dopo tre anni credo che qualsiasi contesto tradisca una certa ripetitivita'. Mi siedevo alle conferenze stampa e sapevo gia' cosa sarebbe stato detto e come l'avrei potuto scrivere. Urgeva una pausa e forse un break dal giornalismo nel suoi insieme, che, stando a indiscrezioni raccolte, tradisce un forte malessere anche in sfere piu' altolocate".
"Hai mai riflettuto su cosa vorresti scrivere tu?".
"Di preciso non mi e' chiaro. So solo che mi entusiasmano di piu' le piccole porzioni di storia dagli esiti imprevedibili che le grandi questioni dove alla fine l'esito e' scontato. Ti sembra comparabile il fascino di un algerino abbandonato dalla moglie a Sydney con il fascino di qualsiasi ministro che ribadisce la necessita' della ricerca. Ed eppure, di cento giornali che aprirai, cento riporteranno il corsivo del ministro, che a quel punto sembrera' davvero una persona dotata di potere, e nessuno lascera' mai lo spazio al resto".
Copiosi richiami letterari e sterminate distese di eucalipti hanno fatto da sfondo a questi discorsi, sempre a meta' tra il passato italiano e il presente australiano. Il loro fluire aveva un certo alone artistico. Non per la qualita' delle riflessioni prodotte - quelle possono essere anche banali e di scarso interesse -, ma per il contesto in cui si alimentavano. In quel frangente avevamo un grado di liberta' insolito. Senza identita' passate troppo forti, senza traguardi futuri troppo nitidi, senza impellenze materiali veramente pressanti, senza legami personali veramente sedimentati, e senza i rituali quotidiani di una vita sanziale, la vita era pura creazione del momento. Appunto, vagamente artistica.
Il confronto, tra lunghi spostamenti e nuotate fluviali, e' proseguito sino all'aeroporto di Darwin, dove l'ingegnere ha preso il primo volo sulla rotta per la Nuova Zelanda. "Silvio - mi ha detto scherzando Federico - trova la via di casa prima o poi, che in questo paese ti stai trovando troppo bene".
"D'accordo, ma tu vedi di non ritrovarla troppo presto!".
"Si' ma se poi questa cosa mi iniziasse a piacere troppo?".
giovedì, aprile 19, 2007
mercoledì, aprile 18, 2007
Neanche a Uluru
Puo' sembrare una bestemmia, ma sono convinto che alcuni dimenticati borghi appenninici siano piu' mistici di Uluru. In alcuni di essi rimbomba una solitudine densa di passato, mentre nell'Ayers Rock di oggi ci sono troppi turisti (non solo giapponesi), troppi bus e troppi cartelli che ti dicono cosa devi e cosa non devi fare. Uluru e' il bush in formato McDonald's: rapido, semplice e accessibile a tutti. C'e' anche un aeroporto nella vicina localita' di Yulara, cosi' ci si puo' volare diretti tra una colazione a Sydney e un aperitivo a Melbourne, tralasciando qualche migliaio di Km di viaggio.
E invece sulla rotta verso Uluru, tra il profondo sud di Adelaide e il top end di Darwin, la strada e' davvero quello che conta. Sembra di vivere tra le pagine della beat generation. Le vie di comunicazione sono desolate linee che il sole illumina come infiniti corsi d'acqua distesi su un mare che la luna si e' dimenticata di increspare. In questo luogo, cosi' denso di terra, la religiosita' non ha mai avuto bisogno del cielo per pensare all'infinito. Gli aborigeni hanno sempre fatto camminare i loro antenati del tempo del sogno, su un suolo che e' piu' grande dell'atmosfera che lo circonda. Ogni punto, lungo una superficie uniformemente piatta, e' utile per osservare tutta la marcia del sole, dalle ombre dell'alba verso ovest alle ombre del tramonto verso est, attraversando il mezzogiorno quando la palla di fuoco e' cosi' alta all'orizzonte da sembrare sul punto di scomparire.
Carcasse di canguri e scheletri di vacche selvatiche scandiscono i Km sul ciglio della strada. Alcuni cammelli, i discendenti inselvatichiti dei leggendari animali importati dagli Afghani per attraversare il continente, pascolano muovendo stancamente le loro grasse labbra. E qua e la', nel cielo senza nuvole, un avvoltoio si libra in circolo, come nelle migliori pellicole Western. Una carcassa, un cammello, un avvoltoio. La serie si ripete piu' e piu' volte fuori dal finestrino di una Land Cruiser che alla guida da' un delirio di onnipotenza. Ci sono pochi avvicendamenti di paesaggio nei 1200 Km di strade asfaltate e mulattiere sabbiose che collegano Alice Spring a Uluru e a King's Canion, anche se col tempo l'occhio impara a riconoscere alcune piccole sfumature: il colore della sabbia, l'altezza degli arbusti e le depressioni dove, durante i temporali, l'acqua si riversa tempestosa e corrosiva.
Un graduale cambio di luce segnala infine l'approssimarsi del crepuscolo. Tutto si spegne a terra. Anche gli sparuti automobilisti che si salutano a vicenda a ogni incrocio si fermano: guidare e' troppo pericoloso mentre gli animali del bush entrano in azione. Cala allora il silenzio. Si stende la Swag (una sorta di materasso richiudibile) sul terreno e da li' si attende l'arrivo delle stelle, per una notte sotto il brulichio cosmico della via lattea.
Il bush non e' luogo di incontri. Forse lo era, quando gli aborigeni erano ancora liberi dalla schiavitu' dell'alcool e della benzina. Ma ora non lo e' piu'. Gli unici esseri umani che si incontrano sono i turisti accatastati sulle pendici di Uluru. "Nicole - urla un babbo inferocito - torna giu'. L'acqua e' nel mio zaino e tu non puoi salire se non salgo io. Se tu vai avanti e non bevi, ti verra' un colpo di calore, perche' e' cosi' che il corpo umano funzione". "Torna giu'", ripete ancora l'uomo, ormai madido di sudore, goffamente arroccato alla catena che aiuta la scalata alla vetta. Mentre Nicole, ormai in lacrime, prosegue rabbiosa la sua marcia solitaria verso l'alto, poco piu' in basso il quadro familiare si completa. "Sei stato fino in cima?", mi chiede la mamma.
"Si', e mi ci sono anche fermato per un po'".
"Sono posti che ti entrano dentro vero?".
"Colpisce la dimensione. Anche se li hai gia' visti in foto, non puoi capire quanto sono grandi, ne' quanto sono lontani da tutto il resto".
"Goditeli tutti, tu che puoi".
"Problemi familiari poco piu' in su?".
"Niente di grave in fondo. Solo il solito. Non capisce che i suoi figli sono piu' snelli e prestanti di lui".
"Nicole!!!", rimbomba ancora un urlo poco piu' in alto.
"Credo sia meglio che salga a dare un'occhiata", riprende la donna. "Ma intanto non servira' a molto. Quello non capisce, neanche qui".
Neanche a Uluru.
E invece sulla rotta verso Uluru, tra il profondo sud di Adelaide e il top end di Darwin, la strada e' davvero quello che conta. Sembra di vivere tra le pagine della beat generation. Le vie di comunicazione sono desolate linee che il sole illumina come infiniti corsi d'acqua distesi su un mare che la luna si e' dimenticata di increspare. In questo luogo, cosi' denso di terra, la religiosita' non ha mai avuto bisogno del cielo per pensare all'infinito. Gli aborigeni hanno sempre fatto camminare i loro antenati del tempo del sogno, su un suolo che e' piu' grande dell'atmosfera che lo circonda. Ogni punto, lungo una superficie uniformemente piatta, e' utile per osservare tutta la marcia del sole, dalle ombre dell'alba verso ovest alle ombre del tramonto verso est, attraversando il mezzogiorno quando la palla di fuoco e' cosi' alta all'orizzonte da sembrare sul punto di scomparire.
Carcasse di canguri e scheletri di vacche selvatiche scandiscono i Km sul ciglio della strada. Alcuni cammelli, i discendenti inselvatichiti dei leggendari animali importati dagli Afghani per attraversare il continente, pascolano muovendo stancamente le loro grasse labbra. E qua e la', nel cielo senza nuvole, un avvoltoio si libra in circolo, come nelle migliori pellicole Western. Una carcassa, un cammello, un avvoltoio. La serie si ripete piu' e piu' volte fuori dal finestrino di una Land Cruiser che alla guida da' un delirio di onnipotenza. Ci sono pochi avvicendamenti di paesaggio nei 1200 Km di strade asfaltate e mulattiere sabbiose che collegano Alice Spring a Uluru e a King's Canion, anche se col tempo l'occhio impara a riconoscere alcune piccole sfumature: il colore della sabbia, l'altezza degli arbusti e le depressioni dove, durante i temporali, l'acqua si riversa tempestosa e corrosiva.
Un graduale cambio di luce segnala infine l'approssimarsi del crepuscolo. Tutto si spegne a terra. Anche gli sparuti automobilisti che si salutano a vicenda a ogni incrocio si fermano: guidare e' troppo pericoloso mentre gli animali del bush entrano in azione. Cala allora il silenzio. Si stende la Swag (una sorta di materasso richiudibile) sul terreno e da li' si attende l'arrivo delle stelle, per una notte sotto il brulichio cosmico della via lattea.
Il bush non e' luogo di incontri. Forse lo era, quando gli aborigeni erano ancora liberi dalla schiavitu' dell'alcool e della benzina. Ma ora non lo e' piu'. Gli unici esseri umani che si incontrano sono i turisti accatastati sulle pendici di Uluru. "Nicole - urla un babbo inferocito - torna giu'. L'acqua e' nel mio zaino e tu non puoi salire se non salgo io. Se tu vai avanti e non bevi, ti verra' un colpo di calore, perche' e' cosi' che il corpo umano funzione". "Torna giu'", ripete ancora l'uomo, ormai madido di sudore, goffamente arroccato alla catena che aiuta la scalata alla vetta. Mentre Nicole, ormai in lacrime, prosegue rabbiosa la sua marcia solitaria verso l'alto, poco piu' in basso il quadro familiare si completa. "Sei stato fino in cima?", mi chiede la mamma.
"Si', e mi ci sono anche fermato per un po'".
"Sono posti che ti entrano dentro vero?".
"Colpisce la dimensione. Anche se li hai gia' visti in foto, non puoi capire quanto sono grandi, ne' quanto sono lontani da tutto il resto".
"Goditeli tutti, tu che puoi".
"Problemi familiari poco piu' in su?".
"Niente di grave in fondo. Solo il solito. Non capisce che i suoi figli sono piu' snelli e prestanti di lui".
"Nicole!!!", rimbomba ancora un urlo poco piu' in alto.
"Credo sia meglio che salga a dare un'occhiata", riprende la donna. "Ma intanto non servira' a molto. Quello non capisce, neanche qui".
Neanche a Uluru.
martedì, aprile 10, 2007
Le pianure del Sud Australia
Fig. 1
Red Gum di fronte a Yallum Park, una delle piu' grandi dimore coloniali del Sud Australia. Il Red Gum e' una specie di eucalipto contraddistinta da un legno rosso all'interno utile per ricavare della gomma.
Fig. 2
Penola Old Cemetery. E' cio' che rimane del vecchio cimitero cittadino. Poche lapidi consumate dal tempo che si confondono con la sabbia.
Fig. 3
Port McDonnell. E' l'oceano povero dell'Australia, lontano dalle spiagge piu' famose. Un vecchio scalo commerciale, testimone di innumerevoli tragedie navali.
Fig. 4
Rymmil Estate. E' una delle grandi aziende vinicole che coprono di interminabili vigneti i 100 Km tra Naaracorte e Penola nella regione nota come Limestone Coast. Due cantine hanno nomi e origini italiane: Zema e Di Giorgio.
Red Gum di fronte a Yallum Park, una delle piu' grandi dimore coloniali del Sud Australia. Il Red Gum e' una specie di eucalipto contraddistinta da un legno rosso all'interno utile per ricavare della gomma.
Fig. 2
Penola Old Cemetery. E' cio' che rimane del vecchio cimitero cittadino. Poche lapidi consumate dal tempo che si confondono con la sabbia.
Fig. 3
Port McDonnell. E' l'oceano povero dell'Australia, lontano dalle spiagge piu' famose. Un vecchio scalo commerciale, testimone di innumerevoli tragedie navali.
Fig. 4
Rymmil Estate. E' una delle grandi aziende vinicole che coprono di interminabili vigneti i 100 Km tra Naaracorte e Penola nella regione nota come Limestone Coast. Due cantine hanno nomi e origini italiane: Zema e Di Giorgio.
martedì, aprile 03, 2007
Una vita di caffe' freddo e sigarette
I neon viola illuminano una decina di vecchie confezioni di Iced Coffe sparse qua e la' dietro i seggiolini posteriori dell'auto. Waine ne beve sempre tre o quattro nelle sue lunghe giornate sulle piantagioni di patate nell'Australia del Sud. Due litri circa di caffe' che l'accompagnano dalle sette del mattino alle sette della sera, dal lunedi' al sabato, dodici mesi l'anno. Non mangia altro. "Iced coffe and cigarettes. The recipe for a long life here in Penola. Ah, ah, ah", strascica al mattino con il suo inglese dove la "o" suona come una "u" e la "a" come una "r".
"Ah, ah, ah", ride ancora sotto gli occhiali scuri che gli coprono sempre gli occhi. "L'altra settimana - racconta eccitato - stavo guidando sulla strada principale tra Adelaide e Mount Gambier. Ero a palla. 150/160 Km/h quando ho imboccato la strada sulla mia destra, la terza fuori citta'. C'e' macato poco. Una fottuta donna stava guidando nella strada interna e ha attraversato la mia proprio mentre passavo. Ci siamo sfiorati, capisci, ho sentito il rumore delle lamiere. Pochi centimentri e smash eravamo morti tutti e due. Ma si e' risolto tutto con un rigo. Ah, ah, ah".
Waine attraversa sempre le sterrate strade del Sud Australia a velocita' folli. "Forse - soggiunge Sophie, una delle ragazze francesi che lavora qui - e' per cancellare l'apatia di un'intera vita tra le patate. Deve provocare qualcosa per sfuggire al nulla".
"Un po' come se fosse il James Dean di Penola?".
"No, direi che il fascino non e' quello. Waine e' solo un po' bruciato. Troppe sigarette, troppo iced coffe, troppe patate e troppe birre".
Waine e Steve, un omaccione barbuto che ricorda fortemente Bud Spencer, sono stati il contorno di un'interminabile settimana di raccolta patate. Dieci, dodici ore al giorno su un enorme scavatore a separare i frutti della terra dalle rocce in esubero e a frenare i voli pindarici che la mente produce in vuoti cosi' prolungati".
La campagna australiana sa pero' anche farsi voler bene. Sabato scorso, per esempio, la piccola Penola si e' vestita con i migliori aromi del barbecue. Lindsey, il macellaio del paese, ha sgozzato un agnello arrostito per un intero pomeriggio su un ciclopico spiedo che gli Australiani chiamano "speed rost". Risultato: carne a tonnellate, bagnata con il celebre Cabernet Shiraz del Coonawara e con un bianco passito. "Good aussie lamb, good aussie wines, good aussie spuds (slang locale per patate) and good aussie friends. You can't ask for more!", ha detto chiamando il brindisi.
Waine era tra la trentina di persone di Penola presenti all'avento. Al vino ha aggiunto qualche decina di birre e tra una pinta e l'altra ha infrottuosamente cercato di imparare gli intricati nomi della comunita' internazionale approdata qui per i lavori stagionali: Silvio, Silvayn, Tsegun, Marc, Freda, Julien, Derrin... "Se dovessi imparare i nomi di tutti i backpackers che passano di qui, nella mia testa non rimarebbe spazio per nient'altro".
Sei giorni dopo il fatidico barbecue e' di nuovo tempo di fine settimana. La strada di Waine e la mia si separareanno per sempre. Lui con le sue patate, io negli infiniti vigneti coltivati da un gaudente fattore di origine greca, che si fa ben volere grazie a un sontuoso caffe' alla turca. E' dunque tempo di saluti. "Domani - gli dico - ti puoi finalmente godere un giorno di liberta'".
"Yeah - risponde lui, sempre dietro i suoi occhiali scuri - I can get pissed. Iced coffe and cigarettes in the week, and barbe and beers in the weekend. This is the recipe for a long life in Penola. Ah, ah, ah".
"Ah, ah, ah", ride ancora sotto gli occhiali scuri che gli coprono sempre gli occhi. "L'altra settimana - racconta eccitato - stavo guidando sulla strada principale tra Adelaide e Mount Gambier. Ero a palla. 150/160 Km/h quando ho imboccato la strada sulla mia destra, la terza fuori citta'. C'e' macato poco. Una fottuta donna stava guidando nella strada interna e ha attraversato la mia proprio mentre passavo. Ci siamo sfiorati, capisci, ho sentito il rumore delle lamiere. Pochi centimentri e smash eravamo morti tutti e due. Ma si e' risolto tutto con un rigo. Ah, ah, ah".
Waine attraversa sempre le sterrate strade del Sud Australia a velocita' folli. "Forse - soggiunge Sophie, una delle ragazze francesi che lavora qui - e' per cancellare l'apatia di un'intera vita tra le patate. Deve provocare qualcosa per sfuggire al nulla".
"Un po' come se fosse il James Dean di Penola?".
"No, direi che il fascino non e' quello. Waine e' solo un po' bruciato. Troppe sigarette, troppo iced coffe, troppe patate e troppe birre".
Waine e Steve, un omaccione barbuto che ricorda fortemente Bud Spencer, sono stati il contorno di un'interminabile settimana di raccolta patate. Dieci, dodici ore al giorno su un enorme scavatore a separare i frutti della terra dalle rocce in esubero e a frenare i voli pindarici che la mente produce in vuoti cosi' prolungati".
La campagna australiana sa pero' anche farsi voler bene. Sabato scorso, per esempio, la piccola Penola si e' vestita con i migliori aromi del barbecue. Lindsey, il macellaio del paese, ha sgozzato un agnello arrostito per un intero pomeriggio su un ciclopico spiedo che gli Australiani chiamano "speed rost". Risultato: carne a tonnellate, bagnata con il celebre Cabernet Shiraz del Coonawara e con un bianco passito. "Good aussie lamb, good aussie wines, good aussie spuds (slang locale per patate) and good aussie friends. You can't ask for more!", ha detto chiamando il brindisi.
Waine era tra la trentina di persone di Penola presenti all'avento. Al vino ha aggiunto qualche decina di birre e tra una pinta e l'altra ha infrottuosamente cercato di imparare gli intricati nomi della comunita' internazionale approdata qui per i lavori stagionali: Silvio, Silvayn, Tsegun, Marc, Freda, Julien, Derrin... "Se dovessi imparare i nomi di tutti i backpackers che passano di qui, nella mia testa non rimarebbe spazio per nient'altro".
Sei giorni dopo il fatidico barbecue e' di nuovo tempo di fine settimana. La strada di Waine e la mia si separareanno per sempre. Lui con le sue patate, io negli infiniti vigneti coltivati da un gaudente fattore di origine greca, che si fa ben volere grazie a un sontuoso caffe' alla turca. E' dunque tempo di saluti. "Domani - gli dico - ti puoi finalmente godere un giorno di liberta'".
"Yeah - risponde lui, sempre dietro i suoi occhiali scuri - I can get pissed. Iced coffe and cigarettes in the week, and barbe and beers in the weekend. This is the recipe for a long life in Penola. Ah, ah, ah".
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