Il fascino più grande di ogni certezza è il dubbio di chi la possiede. Annibale Mosconi lo sapeva bene e giocava sapientemente le sue carte. Uomo di fede, per credo, uomo di potere per professione, non dava mai all'emozione o all'affermazione il compito di svelare le sue incertezze. Le lasciava intendere continuandosi ad aprire al suggerimento. Regalava il suo sapere, con il visibile gusto nell'ascoltarsi e nel formare, ma non perdeva occasione, con elegante disinteresse, di raccogliere attento gli spunti del suo interlocutore. Per lui, così riservato, era il modo per scoprire senza domandare, e chissà, nonostante il tempo, forse ancora il modo per comprendere, controllare e orientare.
Si recava ogni giorno al lavoro vestito con sobria eleganza. La cravatta sempre annodata e la giacca mai riposta richiamavano due cifre di un mondo lontano: un atteggiamento austero, rigido verso se stesso e le proprie imperfezioni, ma al contempo una cura del proprio sé e della propria immagine quasi aristocratiche. Sempre convinto di avere il diritto di potersi prendere il proprio tempo, non affrettava i gesti e, altrettanto familiare al controllo, non esitava a cambiare argomento alla conversazione secondo il suo desiderio.
Nella sua tana di libri intonsi, quasi imparati a memoria ma mai sfiorati con una sottolineatura, c'era da qualche tempo una poesia manoscritta. Descriveva i lineamenti di una donna di colore con la delicatezza e rotondità della traiettoria di una goccia d'acqua su di un viso. L'autore della poesia sedeva in quel momento di fronte ad Annibale. I due erano molto vicini anche se il poeta, più che col padrone di casa, sembrava all'apparire in maggiore sintonia con l'uomo che fumava fuori dalla finestra, in ciabatte, dall'altra parte della via.
Il poeta conosceva bene la profonda differenza tra sé e Annibale ma non aveva mai fatto nulla per nasconderla: del resto in vita sua aveva nascosto ben poco. Gli piaceva apparire e interrogare, farsi vedere senza svelare appieno la propria identità. Si vantava di essere orfano o zingaro di origine e di non sapere con esattezza né il luogo né il momento della nascita. I suoi vestiti, panni che si intrecciavano e sovrapponevano senza soluzione di continuità, erano il lascito delle cento identità a cui si era avvicinato. E tra queste ce n'erano alcune che l'avevano portato a guardare e leggere molti dei libri e dei film che Annibale amava. E così si divertiva, istrionicamente, a stupire l'uomo elegante che si era interessato ai suoi versi. Come in un gioco di prestigio, estraeva dalle sue caotiche vesti ordinate citazioni di pellicole espressioniste in bianco e nero e le recitava ad Annibale con la tranquillità di un grande critico. Quando il gioco riusciva, ne provava ogni volta grande piacere.
Era così che Annibale e il poeta erano diventati amici. Annibale non lo diceva, fedele al suo rigore. Il poeta lo nascondeva con una pacca sulla spalla, sempre un po' giocherellone. Ma nessuno dei due ne dubitava. Annibale era riuscito a prendere il giro il poeta, additandone un difetto con un bonario sorriso. E il poeta gli aveva parlato seriamente, senza recitare più nessuna delle cento identità che lo avevano vestito.
Si recava ogni giorno al lavoro vestito con sobria eleganza. La cravatta sempre annodata e la giacca mai riposta richiamavano due cifre di un mondo lontano: un atteggiamento austero, rigido verso se stesso e le proprie imperfezioni, ma al contempo una cura del proprio sé e della propria immagine quasi aristocratiche. Sempre convinto di avere il diritto di potersi prendere il proprio tempo, non affrettava i gesti e, altrettanto familiare al controllo, non esitava a cambiare argomento alla conversazione secondo il suo desiderio.
Nella sua tana di libri intonsi, quasi imparati a memoria ma mai sfiorati con una sottolineatura, c'era da qualche tempo una poesia manoscritta. Descriveva i lineamenti di una donna di colore con la delicatezza e rotondità della traiettoria di una goccia d'acqua su di un viso. L'autore della poesia sedeva in quel momento di fronte ad Annibale. I due erano molto vicini anche se il poeta, più che col padrone di casa, sembrava all'apparire in maggiore sintonia con l'uomo che fumava fuori dalla finestra, in ciabatte, dall'altra parte della via.
Il poeta conosceva bene la profonda differenza tra sé e Annibale ma non aveva mai fatto nulla per nasconderla: del resto in vita sua aveva nascosto ben poco. Gli piaceva apparire e interrogare, farsi vedere senza svelare appieno la propria identità. Si vantava di essere orfano o zingaro di origine e di non sapere con esattezza né il luogo né il momento della nascita. I suoi vestiti, panni che si intrecciavano e sovrapponevano senza soluzione di continuità, erano il lascito delle cento identità a cui si era avvicinato. E tra queste ce n'erano alcune che l'avevano portato a guardare e leggere molti dei libri e dei film che Annibale amava. E così si divertiva, istrionicamente, a stupire l'uomo elegante che si era interessato ai suoi versi. Come in un gioco di prestigio, estraeva dalle sue caotiche vesti ordinate citazioni di pellicole espressioniste in bianco e nero e le recitava ad Annibale con la tranquillità di un grande critico. Quando il gioco riusciva, ne provava ogni volta grande piacere.
Era così che Annibale e il poeta erano diventati amici. Annibale non lo diceva, fedele al suo rigore. Il poeta lo nascondeva con una pacca sulla spalla, sempre un po' giocherellone. Ma nessuno dei due ne dubitava. Annibale era riuscito a prendere il giro il poeta, additandone un difetto con un bonario sorriso. E il poeta gli aveva parlato seriamente, senza recitare più nessuna delle cento identità che lo avevano vestito.