Mi capita spesso di pensare che la mia
vita sia più indistinta di molte altre. I giornali raccontano
percorsi nitidi ed estremi che si condensano in uno slogan. C'è il
grande sportivo che riassume il senso di mesi di allenamenti e
rinunce in un traguardo tagliato di fronte al mondo. Oppure c'è
l'artista debole che si consuma fatalmente nelle sue esplorazioni ai
confini dei sensi. Il significato del sacrificio di entrambi è
facile da riassumere. Così come la tenacia di chi si attesta
silenziosamente al centro: una routine accettata con pacatezza in cui
la gioia sincera per una cena cucinata da cima a fondo agli amici
riempie il vuoto lasciato da grandi slanci, che non arriveranno mai,
né a gettare luce, ma neppure a creare inquietudine.
Io invece mi sento un pendolo in
costante oscillazione, senza un suo equilibrio. Riesco a vivere la
quiete di ogni giorno solo come pausa per una nuova pagina da
esplorare e se questa tarda sono io stesso con la mia inquietudine a
turbare le acque, a rimescolarle forzosamente, insofferente verso
un'attesa prolungata. D'altro canto però lascio il centro senza la
tenacia che consente ai grandi uomini di attestarsi all'estremo.
Sento il fascino del bagaglio leggero, della vita selvaggia di un
nomade, ma poi in ogni altrove e in ogni tempo finisco per proiettare
qualcosa da costruire o qualcuno da diventare: lo zaino resta in
fondo alla stanza e tutto attorno vi cresce il gomitolo di relazioni
del mondo. Pazientemente occorrerebbe conviverci con queste
relazioni, modificarle, scalarle, reciderle, concentrarsi su un unico
obiettivo, puntarlo senza incertezze, contro il vento e contro le
maree. Ma una volta tracciata la rotta, raggiunte le correnti
dell'oceano dove i grandi velieri si contendono lo spazio, spiagge
calme, baie quiete fanno sentire il loro richiamo e insinuano il
dubbio nella mano che regge il timone.
Non c'è continuità tra ciò che
accade prima e ciò che segue, non c'è consonanza tra ciò che
accade fuori e ciò che accade nella mente.