Già da qualche minuto era seduto a guardare la piazza della sua città. Non osservava né gli edifici né le persone che la attraversavano. I suoi occhi erano concentrati su una fitta rete di trame invisibili a cui non riusciva a dare con certezza una consistenza: era una trama vera, che esisteva, con cui si doveva confrontare, o era solo una proiezione della sua mente, del suo modo di vedere il mondo?
Ne aveva parlato molto e letto altrettanto, ma né le parole udite né quelle scritte, che in quel momento cercava di richiamare a raccolta, riuscivano a dirgli se quelle fitte trame fronte lui – i legami di responsabilità che lo legavano a molti dei presenti – erano qualcosa di serio e tangibile o una cervellotica superfetazione di un io troppo sociale per essere indipendente. Avrebbe voluto alzarsi e correre contro quelle strisce che collegavano case e persone, date ed eventi, passato e ricadute future, ma, come sfingi, quelle sarebbero rimaste lì e, finita la corsa, avrebbero continuato a lasciare incerta la natura della loro esistenza.
Sotto quel reticolo mancava l'aria, non vi poteva restare troppo a lungo. Sentiva, in tal senso, ogni riga come un laccio che limitava i propri movimenti e allora, volentieri, avrebbe voluto rompere tutto, recidere quella nube sociale tra sé e il mondo. Dall'altro lato, però, sentiva che nello sforzo di passare delicato in mezzo ai quei fili, nel tentativo di non urtarli mai, si nascondeva parte del suo fascino: quei fili, si era resa conto, esistevano un po' per tutti, e molti si affidavano a lui, che così lucidamente li vedeva, per attraversarli indenni, sentirsi protetti dagli attriti delle relazioni tra uomini.
Era possibile conservare quella lucidità che aiutava gli altri senza restarne in prima persona intrappolati? O l'unico modo per sopravvivere a quelle maglie, che nascevano a ogni “no” che non si aveva avuto il coraggio di dire, era lasciare ogni volta il luogo ove il gomitolo era troppo fitto?
Ne aveva parlato molto e letto altrettanto, ma né le parole udite né quelle scritte, che in quel momento cercava di richiamare a raccolta, riuscivano a dirgli se quelle fitte trame fronte lui – i legami di responsabilità che lo legavano a molti dei presenti – erano qualcosa di serio e tangibile o una cervellotica superfetazione di un io troppo sociale per essere indipendente. Avrebbe voluto alzarsi e correre contro quelle strisce che collegavano case e persone, date ed eventi, passato e ricadute future, ma, come sfingi, quelle sarebbero rimaste lì e, finita la corsa, avrebbero continuato a lasciare incerta la natura della loro esistenza.
Sotto quel reticolo mancava l'aria, non vi poteva restare troppo a lungo. Sentiva, in tal senso, ogni riga come un laccio che limitava i propri movimenti e allora, volentieri, avrebbe voluto rompere tutto, recidere quella nube sociale tra sé e il mondo. Dall'altro lato, però, sentiva che nello sforzo di passare delicato in mezzo ai quei fili, nel tentativo di non urtarli mai, si nascondeva parte del suo fascino: quei fili, si era resa conto, esistevano un po' per tutti, e molti si affidavano a lui, che così lucidamente li vedeva, per attraversarli indenni, sentirsi protetti dagli attriti delle relazioni tra uomini.
Era possibile conservare quella lucidità che aiutava gli altri senza restarne in prima persona intrappolati? O l'unico modo per sopravvivere a quelle maglie, che nascevano a ogni “no” che non si aveva avuto il coraggio di dire, era lasciare ogni volta il luogo ove il gomitolo era troppo fitto?