Riflessi sul ghiaccio dello spritz che aveva davanti, vedeva scorrere i ricordi delle montagne nepalesi da cui era da poco rientrato. Erano freschi e i continui racconti che ne era stato invitato a fare li avevano resi ancora più nitidi. Sentiva il suono del vento che creava mulinelli di polvere attorno alla vecchia signora in cammino verso il monastero di Tenboche. Era piccola, vestita con panni di felpa, scura di pelle. Le braccia erano raccolte e le mani aiutavano le spalle a bilanciare la pila di bottiglie vuote di cui era carica. Il carico di plastica, che si alzava ben oltre l'altezza della donna, rimbalzava a ogni passo, attraversato dall'aria.
Il giovane ingegnere aveva alzato la macchina per inquadrare quella donna. Lei, le sue bottiglie, la polvere, i muri in pietra che si avvicinavano, grigi come il cielo ormai povero di luce. Ma poi aveva lasciato perdere. Neppure lì, a migliaia di chilometri dalla prima persona nota, riusciva a concentrarsi appieno sui propri sensi. Sentiva la mente scappare dal puntatore della macchina fotografica, farsi evanescente, seguire mille domande. La più stupida di queste era “perché proprio qui?”, come se esistesse un altro luogo al mondo che avesse più ragioni di quello per essere visitato.
“Daniele – in quel frangente gli disse Chiara, la studentessa di economia, pragmatica e sorridente, che aveva incontrato prima della partenza – hai avuto modo di parlare con i locali della monarchia caduta, dei ribelli maosti, del nuovo governo?”. Chiara aveva sempre confinato le proprie riflessioni sulla politica ai corsi di marxismo della zona universitaria che aveva iniziato a frequentare per dare un tocco un po' più sessantottino alla propria carriera universitaria, ma con Daniele aveva avuto la sensazione che un po' di impegno in più avrebbe contribuito a renderla attraente, a rompere quell'orgoglio ermetico in cui l'ingegnere riusciva amabilmente a nascondersi: era un orgoglio fatto di brillanti considerazioni, alternate a piccoli fastidiosi silenzi, come a dimostrare un'intelligenza raffinata unita a una scarsa propensione a spenderla con lei. Le pesava ammetterlo, ma era una situazione che la irritava. Per questo, dopo un attimo di silenzio, aggiunse a sostanziare la sua domanda: “Ho seguito per diverso la vicenda su Internazionale. Una situazione intricata: la popolazione sembra soffrire la presenza di entrambe le fazioni, monarchica e rivoluzionaria”.
“In realtà credo di non aver percepito nulla” rispose laconico Daniele. “Non sono quasi mai riuscito a staccarmi in modo fruttuoso dai luoghi più turistici. Per tutto il tempo ho avuto la testa imbrigliata in una contraddizione: mi volevo rilassare, fumare una canna su un tetto di Kathmandu come un qualsiasi adolescente inglese ubriaco, ma volevo anche entrare nei ritmi di un monastero buddhista per scattare delle foto come Fosco Maraini. Risultato pessimo: parlavo di Fosco Maraini al ragazzo che mi allungava il fumo e mi faceva malta la testa quando c'era da arrivare in cima alla salita per la luce migliore. Niente maosti comunque”.
Chiara ascoltò la risposta con una sgradevole sensazione di già visto. Quando gli aveva chiesto dei suoi studi universitari, Daniele gli aveva raccontato dell'interferenza negativa dello zio nella scelta. Quando aveva curiosato nel precedente rapporto di lui con un'ex collega, la storia si era impantanata nell'incapacità di questa a capire appieno la complessità del suo essere. E ora Fosco Maraini e l'erba. Del Nepal niente traccia: come tutto il resto, anche l'Himalaya restava sullo sfondo di un interminabile monologo interiore, in cui lei, a ben vedere, serviva per non farlo sembrare completamente pazzo mentre parlava da solo in un locale pubblico.
L'irritazione le cresceva dentro, ma volle stare al gioco, cercare di rimanere vicino a Daniele. Lo doveva conquistare e soprattutto convincere se stessa di non essere diventata troppo intollerante dopo una serie un po' troppo lunga di relazioni deludenti. “Ti capisco – soggiunse allora – Anch'io reagisco male agli stimoli esterni, non li ordino, me ne faccio travolgere. Rientro in casa tre volte perché non riesco mai a concentrarmi su quello che mi devo portare. Arrivo in ritardo perché perdo troppo tempo a pensare a come non rischiare di annoiarmi per un eccessivo anticipo. Riesco solo a disegnare asettiche parentesi graffe nel diario a cui ogni tanto vorrei concedere i miei pensieri più profondi in forma poetica, mentre aggiungo quattro aggettivi romantici completamente inutili nel mio saggio di macroeconomia”.
L'ingegnere lasciò parlare la ragazza fino al termine della lunga riflessione. Chiara lo interpretò come un segnale di contatto. Sorrise: “Non è poi così grave, non accorgersi dei maosti”.
“Ma in realtà non è questo il punto – intervenne lui – La mia non è distrazione. E' più complesso, capisci, la mia è una situazione diversa, ho frequentato dei contesti competitivi che tu hai sempre evitato. Sono quelli che ti cambiano. Tu non puoi capire”.
Chiara si lasciò morire in bocca il suo tentativo di risposta. Lasciò spazio alle parole di Daniele, che, a lungo, continuò a elencare ciò che lo rendeva diverso. In silenzio, la giovane studentessa abbassò gli occhi per guardare sciogliersi il ghiaccio dentro il cocktail che si scaldava tra il chiacchiericcio dei tavoli attorno.
Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
martedì, settembre 27, 2011
lunedì, settembre 26, 2011
martedì, settembre 20, 2011
Longiano:la statua sul balcone
mercoledì, settembre 14, 2011
Toccatemi, toccatemi tutti
“Toccatemi – pensava - toccatemi tutti”. Dentro la sala faceva caldo, Walter Mladic, padre slavo, madre romagnola, sentiva quasi mancare l'aria. Il suo corpo maturo, pieno della vita che aveva sempre voluto sedurre, senza preclusioni, ora non lo aiutava: era troppo concentrato a catturare un po' di ossigeno per lasciare spazio al piacere. Sentiva il sudore scorrere sulle tempie, immaginava le sue parole smarrirsi in un intervento senza fiato. Seguiva a fatica i discorsi di chi era con lui al tavolo, due donne e tre uomini che lo introducevano: parlavano troppo a lungo, non gli piaceva. Eppure gli occhi di Mladic restavano vigili, guardavano la gente in sala; e la mente dell'artista raccoglieva le immagini di tutti i presenti e sotto voce recitava e sperava: “toccatemi, toccatemi tutti”.
Quando il respiro trovava il suo ritmo e diventava più leggero Walter Mladic riusciva ad agganciare le parole dei suoi mecenati, dei piccoli potenti che avevano riscoperto la sua pittura. Uno di loro ormai era diventato un padre, lo aveva adottato per la sua arte, per filosofie inaspettatamente in comune, e lo aveva abbracciato, accettando o forse facendo finta di non vedere i suoi difetti, le sue differenze. Era il suo padre adottivo che si rivolgeva al pubblico con il tono della voce incrinato dalla commozione. Parlava della pietas contenuta nelle tele di Mladic, dell'appello che quelle figure e quei volti lanciavano alle coscienze. Se avesse parlato dei Vangeli non avrebbe utilizzato parole diverse.
Walter Mladic però non riusciva a staccarsi dalla materialità dei propri desideri. Guardava la gente in sala e continuava a recitare e sperare: “toccatemi, toccatemi tutti”. Sussurrava come se tra lui e la gente di fronte a lui dovesse nascere un legame erotico. E un po' era così davvero. Perché a lui non interessava la pietà provata di fronte alle sue tele, ma l'attaccamento che esse stimolavano verso il loro creatore. Era quello che Walter Mladic ora fiutava nell'aria: sentiva che la gente lì attorno lo venerava e desiderava trovare conferma alla sua percezione con il calore di una mano sulla propria, di un braccio attorno al collo, di un bacio rituale trascinato un po' più a lungo.
Forse il suo padre adottivo che parlava lì vicino non avrebbe approvato i suoi pensieri. Così materiali, così poco elitari, quasi sporchi. Ma Walter Mladic li pensava lo stesso e ne godeva. Lui non era un piccolo potente, ma un senza terra, né italiano, né slavo: per infinite ironie della sorte, che quasi mai l'avevano fatto ridere davvero, non era stato mai né figlio, né padre, né professionista, né artista. Era stato sempre e solo Walter Mladic, senza nessuno dei ruoli attraverso cui le persone normali si legano, si frequentano, si amano. Ora che aveva il consenso di quella sala, ne voleva dunque approfittare fino in fondo. Forse, anzi, se aveva dipinto, era stato solo ed egoisticamente per creare quel consenso, almeno una volta.
Infine arrivò il suo turno a parlare. Cercò di attrarre a sé tutti i suoi pensieri per trovare le parole giuste, ma vi riuscì solo in parte. Guardò il suo nuovo padre che gli passava il microfono e per prenderlo gli prese la mano. Anche se camminavano per motivi diversi, lo avrebbe seguito fino in fondo al viaggio. Era di nuovo pronto a partire, come oltre sessant'anni prima, quando con lo stesso gesto, allungando la mano, scelse di seguire sua madre fino in fondo alla ricerca del suo padre biologico.
Quando il respiro trovava il suo ritmo e diventava più leggero Walter Mladic riusciva ad agganciare le parole dei suoi mecenati, dei piccoli potenti che avevano riscoperto la sua pittura. Uno di loro ormai era diventato un padre, lo aveva adottato per la sua arte, per filosofie inaspettatamente in comune, e lo aveva abbracciato, accettando o forse facendo finta di non vedere i suoi difetti, le sue differenze. Era il suo padre adottivo che si rivolgeva al pubblico con il tono della voce incrinato dalla commozione. Parlava della pietas contenuta nelle tele di Mladic, dell'appello che quelle figure e quei volti lanciavano alle coscienze. Se avesse parlato dei Vangeli non avrebbe utilizzato parole diverse.
Walter Mladic però non riusciva a staccarsi dalla materialità dei propri desideri. Guardava la gente in sala e continuava a recitare e sperare: “toccatemi, toccatemi tutti”. Sussurrava come se tra lui e la gente di fronte a lui dovesse nascere un legame erotico. E un po' era così davvero. Perché a lui non interessava la pietà provata di fronte alle sue tele, ma l'attaccamento che esse stimolavano verso il loro creatore. Era quello che Walter Mladic ora fiutava nell'aria: sentiva che la gente lì attorno lo venerava e desiderava trovare conferma alla sua percezione con il calore di una mano sulla propria, di un braccio attorno al collo, di un bacio rituale trascinato un po' più a lungo.
Forse il suo padre adottivo che parlava lì vicino non avrebbe approvato i suoi pensieri. Così materiali, così poco elitari, quasi sporchi. Ma Walter Mladic li pensava lo stesso e ne godeva. Lui non era un piccolo potente, ma un senza terra, né italiano, né slavo: per infinite ironie della sorte, che quasi mai l'avevano fatto ridere davvero, non era stato mai né figlio, né padre, né professionista, né artista. Era stato sempre e solo Walter Mladic, senza nessuno dei ruoli attraverso cui le persone normali si legano, si frequentano, si amano. Ora che aveva il consenso di quella sala, ne voleva dunque approfittare fino in fondo. Forse, anzi, se aveva dipinto, era stato solo ed egoisticamente per creare quel consenso, almeno una volta.
Infine arrivò il suo turno a parlare. Cercò di attrarre a sé tutti i suoi pensieri per trovare le parole giuste, ma vi riuscì solo in parte. Guardò il suo nuovo padre che gli passava il microfono e per prenderlo gli prese la mano. Anche se camminavano per motivi diversi, lo avrebbe seguito fino in fondo al viaggio. Era di nuovo pronto a partire, come oltre sessant'anni prima, quando con lo stesso gesto, allungando la mano, scelse di seguire sua madre fino in fondo alla ricerca del suo padre biologico.
sabato, settembre 03, 2011
Il lato leggero
Sollevandosi dal letto, allungò la mano e direzionò la luce sul comodino dell'albergo. A fianco del biglietto che gli ricordava la città in cui stava per addormentarsi, il maestro vide la sagoma del suo telefono. Mise gli occhiali, trovati a tastoni lì vicino, e prese l'apparecchio in mano. Sentiva che stava scivolando, che la solitudine lo stava rendendo più cattivo. Lo innervosiva ogni dettaglio della vita là fuori: l'insegna luminosa del pub, il semaforo che regolava l'incessante incedere delle auto in ogni direzione, l'eco dei passanti. Era vita, ma non era sua: lì, lontano da casa, non aveva con chi bere una birra, non aveva meta per cui andare in auto, né alcuno con cui fare due passi. Spesso se li concedeva da solo, per meditare, ma già troppe volte aveva abusato dei suoi pensieri come compagnia. Quella sera non avrebbe funzionato. Sentiva il desiderio irrefrenabile dell'attenzione altrui, fino al punto di comprarla. C'era chi cercava la prostituzione per trasgredire. A lui, semplicemente, non restava altro per compatire.
Il maestro guardò il telefono e si concentrò su quanto aveva fatto durante il giorno. Il viaggio in auto da casa fino all'aeroporto di Roma. Il volo fino a Praga. La lezione di fronte agli studenti del conservatorio. E infine le prove con i componenti dell'orchestra sinfonica. Dopo, aveva detto di essere stanco e non era andato con gli altri fuori a cena. Forse non lo era stanco davvero, ma ormai era abituato così, per prudenza: aveva già sofferto troppe volte nel vedere il flusso di parole che correva attorno a lui nelle cene a fine concerto. Tutti sembravano così a loro agio, così aperti, così ricchi di esperienza, così estranei al loro senso di fine. Si sentiva come un servetto a un banchetto reale: fuori luogo, invisibile, oggetto di scherno a ogni sguardo.
Sulla tastiera del telefono iniziò a digitare il racconto della sua giornata. Vi aggiunse anche i dettagli che la sua sensibilità gli aveva fatto notare, ma che la stessa sensibilità gli aveva impedito di condividere, chiudendoli in un silenzio in cui sembravano non essere mai esistiti. Descrisse la ruga sulla fronte dell'uomo che chiedeva monete in aeroporto. Descrisse la voglia di avvicinarsi a lui che aveva riconosciuto in una studentessa presente alla sua conferenza. Dalla povertà del primo e dai sogni di grandezza dell'altra ne ricavò lezioni di vita, evidenziandone il carattere romantico.
Spedì il messaggio, restando in attesa. Trovò la risposta solo la mattina dopo. Poche parole e una domanda: “Tutto bene?”.
Era come se le persone ignorassero il suo lato leggero. O forse lui non sapeva più esprimerlo?
Il maestro guardò il telefono e si concentrò su quanto aveva fatto durante il giorno. Il viaggio in auto da casa fino all'aeroporto di Roma. Il volo fino a Praga. La lezione di fronte agli studenti del conservatorio. E infine le prove con i componenti dell'orchestra sinfonica. Dopo, aveva detto di essere stanco e non era andato con gli altri fuori a cena. Forse non lo era stanco davvero, ma ormai era abituato così, per prudenza: aveva già sofferto troppe volte nel vedere il flusso di parole che correva attorno a lui nelle cene a fine concerto. Tutti sembravano così a loro agio, così aperti, così ricchi di esperienza, così estranei al loro senso di fine. Si sentiva come un servetto a un banchetto reale: fuori luogo, invisibile, oggetto di scherno a ogni sguardo.
Sulla tastiera del telefono iniziò a digitare il racconto della sua giornata. Vi aggiunse anche i dettagli che la sua sensibilità gli aveva fatto notare, ma che la stessa sensibilità gli aveva impedito di condividere, chiudendoli in un silenzio in cui sembravano non essere mai esistiti. Descrisse la ruga sulla fronte dell'uomo che chiedeva monete in aeroporto. Descrisse la voglia di avvicinarsi a lui che aveva riconosciuto in una studentessa presente alla sua conferenza. Dalla povertà del primo e dai sogni di grandezza dell'altra ne ricavò lezioni di vita, evidenziandone il carattere romantico.
Spedì il messaggio, restando in attesa. Trovò la risposta solo la mattina dopo. Poche parole e una domanda: “Tutto bene?”.
Era come se le persone ignorassero il suo lato leggero. O forse lui non sapeva più esprimerlo?
giovedì, settembre 01, 2011
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