Leggende romagnole, avventure metropolitane, suggestioni dal mondo e altre divagazioni in evoluzione pluriennale.
venerdì, marzo 28, 2008
lunedì, marzo 24, 2008
Plurisecolari diseconomie romagnole
"Si può affermare che questi monti (i monti della Romagna-Toscana, ndr) sono stati per secoli, ma soprattutto nei decenni del nostro secolo (il Novecento, ndr), fino al momento del recente grande esodo, una fabbrica di miseria permanente e una sede di vita dura e disagiata, al di là di ogni possibilità di immaginazione presente e tale da ingenerare una grande pietà retrospettiva".
Brano estratto da:
Armando Ravaglioli, "La Romagna fiorentina", in I Quaderni dell'Acquacheta, edizioni di presenza romagnola, 1986
Brano estratto da:
Armando Ravaglioli, "La Romagna fiorentina", in I Quaderni dell'Acquacheta, edizioni di presenza romagnola, 1986
giovedì, marzo 20, 2008
La cosa
I telefonini trillavano chiassosi come al solito. Un tim, un omnitel, uno skype, forse anche qualcosa d'altro. Si inserivano sbadatamente in mezzo a ogni frase detta nella stanza, interrompendo parole che diventavano sempre più brevi e isolate, fino a perdere senso. Il direttore sedeva in mezzo a quel concerto, elargendo mezze risposte a tutti i suoi piccoli megafoni magnetici. Dava l'ok per le 11 del giorno dopo a qualcuno e pochi istanti faceva lo stesso con un'altra persona a un altro telefono in chissà quale altra parte del pianeta romagna. Del resto gli affari sono così: i migliori sono quelli in cui si vendono in anticipo promesse che si valuterà se mantenere parzialmente in un futuro da destinarsi.
Quando i telefonini smisero di piangere per un attimo, il direttore guardò la persona di fronte a sé. “Dicevamo?” domandò distrattamente. Senza aspettare risposta, terminò la frase da solo: “Sì, sì, di quello. Io comunque di sta cosa non ne so nulla. Vedi tu”.
La “cosa” continuò a non avere un nome certo, ma al telefonò che subito trillò ne parlò nuovamente. O forse era una sì una cosa, ma una cosa diversa.
Quando i telefonini smisero di piangere per un attimo, il direttore guardò la persona di fronte a sé. “Dicevamo?” domandò distrattamente. Senza aspettare risposta, terminò la frase da solo: “Sì, sì, di quello. Io comunque di sta cosa non ne so nulla. Vedi tu”.
La “cosa” continuò a non avere un nome certo, ma al telefonò che subito trillò ne parlò nuovamente. O forse era una sì una cosa, ma una cosa diversa.
venerdì, marzo 14, 2008
Festa dei falò, la tradizione “centometrista”
(testo ideato e pensato per Il Castellaccio)
Alcuni piccoli dettagli di vissuto personale mi dicono che la festa del falò ha ormai una certa risonanza anche al di fuori dei confini di borgata. Qualche anno fa, per esempio, ne sentii parlare anche negli spogliatoi della piscina comunale di Bologna adiacente allo stadio Dallara. Il gruppetto al mio fianco vociava di un pullman cinquanta posti per raggiungere una mega festa paesana in Romagna. Pochi giorni dopo Rocca traboccò di gente: per tutta la notte le navette fecero avanti e indietro tra il paese e la zona artigianale sotto Campomaggio per gestire l’emergenza parcheggio. Fu record di incassi, fu record di presenza e per molte mattine a venire l’abitato si risvegliò con le ferite lasciate da quell’orda festante.
Passai quella festa del falò – credo fosse il 2002 - in compagnia di un gruppo di amici di università: ragazzi e ragazze di varie zone di Italia, totalmente estranei alle tradizioni locali della Val Montone. Nei giorni precedenti al “grande sabato” avevo spiegato loro la storia ufficiale della festa. Dissi che l’appuntamento celebrava San Giuseppe e l’arrivo della primavera. Spiegai che in passato la festa si consumava in campagna, dove ogni podere bruciava il piccolo falò con gli arbusti estirpati dalle aie e dai cortili, e che solo in tempi più recenti la tradizione del pagliaio, arricchita di botti e sfilate, era migrata in paese, diviso in rioni dall’alveo del fiume. Gli amici mi ascoltavano indecisi se accettare o meno l’invito a una festa che a loro continuava a sapere di una qualsiasi sagra paesana: bancarelle, qualche salume, due caramelline e un paio di mangiafuoco superati dal tempo.
Quando la prima raffica di botti esplose tra le grida delle tifoserie rionali assiepate attorno ai falò in fiamme, il loro scetticismo, da alcuni decisivi minuti, aveva lasciato spazio a un palese sbigottimento. C’era nelle loro facce un misto di sensazioni. L’adrenalina di un’atmosfera più elettrica del previsto unita alla leggera paura di quella folla delirante, sballata, irrazionale nei gesti e aggressiva nelle parole. “Siete tutti matti qui” dicevano con un finto moralismo che si tradiva subito nei gesti, inesorabilmente simili a quelli dei locali: fiaschetti di vino, passeggiate sul greto del fiume e infine balli di piazza.
Il giorno dopo risparmiai alla truppa di visitatori la sfilata pomeridiana. Il giorno dopo si è sempre troppo stanchi e troppo visibili per ripetere i gesti naturali solo poche ore prima. La festa del falò resta una follia di poche ore, affascinante proprio per la sua durata effimera. E’ come la finale dei cento metri alle olimpiadi. Esplosiva, esagerata, preparata per mesi in ogni dettaglio e poi consumata al massimo nel giro di pochi istanti. Istanti di fuoco e di balli che scorrono via veloci nel tumulto di una notte di primavera sulle colline della Val Montone.
domenica, marzo 09, 2008
Neve primaverile a Ca' Forno
domenica, marzo 02, 2008
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