giovedì, novembre 29, 2012

Annibale e il poeta

Il fascino più grande di ogni certezza è il dubbio di chi la possiede. Annibale Mosconi lo sapeva bene e giocava sapientemente le sue carte. Uomo di fede, per credo, uomo di potere per professione, non dava mai all'emozione o all'affermazione il compito di svelare le sue incertezze. Le lasciava intendere continuandosi ad aprire al suggerimento. Regalava il suo sapere, con il visibile gusto nell'ascoltarsi e nel formare, ma non perdeva occasione, con elegante disinteresse, di raccogliere attento gli spunti del suo interlocutore. Per lui, così riservato, era il modo per scoprire senza domandare, e chissà, nonostante il tempo, forse ancora il modo per comprendere, controllare e  orientare.

Si recava ogni giorno al lavoro vestito con sobria eleganza. La cravatta sempre annodata e la giacca mai riposta richiamavano due cifre di un mondo lontano: un atteggiamento austero, rigido verso se stesso e le proprie imperfezioni, ma al contempo una cura del proprio sé e della propria immagine quasi aristocratiche. Sempre convinto di avere il diritto di potersi prendere il proprio tempo, non affrettava i gesti e, altrettanto familiare al controllo, non esitava a cambiare argomento alla conversazione secondo il suo desiderio.

Nella sua tana di libri intonsi, quasi imparati a memoria ma mai sfiorati con una sottolineatura, c'era da qualche tempo una poesia manoscritta. Descriveva i lineamenti di una donna di colore con la delicatezza e rotondità della traiettoria di una goccia d'acqua su di un viso. L'autore della poesia sedeva in quel momento di fronte ad Annibale. I due erano molto vicini anche se il poeta, più che col padrone di casa, sembrava all'apparire in maggiore sintonia con l'uomo che fumava fuori dalla finestra, in ciabatte, dall'altra parte della via.

Il poeta conosceva bene la profonda differenza tra sé e Annibale ma non aveva mai fatto nulla per nasconderla: del resto in vita sua aveva nascosto ben poco. Gli piaceva apparire e interrogare, farsi vedere senza svelare appieno la propria identità. Si vantava di essere orfano o zingaro di origine e di non sapere con esattezza né il luogo né il momento della nascita. I suoi vestiti, panni che si intrecciavano e sovrapponevano senza soluzione di continuità, erano il lascito delle cento identità a cui si era avvicinato. E tra queste ce n'erano alcune che l'avevano portato a guardare e leggere molti dei libri e dei film che Annibale amava. E così si divertiva, istrionicamente, a stupire l'uomo elegante che si era interessato ai suoi versi. Come in un gioco di prestigio, estraeva dalle sue caotiche vesti ordinate citazioni di pellicole espressioniste in bianco e nero e le recitava ad Annibale con la tranquillità di un grande critico. Quando il gioco riusciva, ne provava ogni volta grande piacere.

Era così che Annibale e il poeta erano diventati amici. Annibale non lo diceva, fedele al suo rigore. Il poeta lo nascondeva con una pacca sulla spalla, sempre un po' giocherellone. Ma nessuno dei due ne dubitava. Annibale era riuscito a prendere il giro il poeta, additandone un difetto con un bonario sorriso. E il poeta gli aveva parlato seriamente, senza recitare più nessuna delle cento identità che lo avevano vestito.

mercoledì, novembre 21, 2012

Sette anni e due coppie

“Inoltre la nostra capacità di previsione è ridicolmente miope (quasi sempre costruiamo le nostre ipotesi utilizzando uno specchietto retrovisore)”.
(George Steiner, Una certa idea d'Europa)

“Le altre società non sono forse migliori della nostra; anche se siamo inclini a crederlo, non abbiamo a disposizione nessun metodo per provarlo. Conoscendole meglio, acquistiamo tuttavia un mezzo per staccarci dalla nostra, non perché questa sia del tutto o la sola cattiva, ma perché è la sola da cui dobbiamo affrancarci: dalle altre lo siamo già naturalmente”.
(Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici)


“Mi piacerebbe andare a Lisbona, passeggiare sulle vie del porto come tra le immagini in bianco e nero di Wim Wenders”. La donna, la più loquace delle due, si rivolse alla coppia di uomini che sedevano dall'altra parte del piccolo tavolino con voce ancora più morbida del solito. Voleva vincere la loro leggera diffidenza e ritrosia a darsi completamente. “Perché non andiamo insieme il prossimo mese?”, aggiunse, accompagnando la domanda con un sorriso materno.

L'alchimia tra i quattro aveva gettato il primo seme circa un anno prima. I due figli erano già a letto al piano di sopra quando Mirta parlò al marito. Voce calma e distesa disse lui che avrebbe sinceramente desiderato continuare a vivere sotto lo stesso tetto, magari raccontando ai bambini che dormivano in camere separate per non infastidirsi nel sonno, ma che lei, da quel giorno in avanti, avrebbe vissuto in pieno la sua storia d'amore con Francesca. Amiche da sempre, come lui sapeva, si erano avvicinate già da alcuni mesi. La decisione era già stata presa, coscientemente, ponderata, sentita. Potevano discuterne le conseguenze, ma non cambiarla.

Claudio reagì, d'istinto, come il personaggio di un telefilm. Non aggiunse nulla, calzò le scarpe, indossò il giubbotto e uscì. Attraversò la leggera nebbia della pianura emiliana per restare in movimento e seguire con il corpo i gorgoglii della mente. Fece finire in fretta un cd e poi sintonizzò sulla radio: la voce del DJ parlava con la solita calma e questo lo tranquillizzò molto. Quando rientrò, qualche ora più tardi, non era ancora rassegnato ad accettare le parole della donna, ma, per il momento, sarebbe restato sotto lo stesso tetto, come gli proponeva Mirta. Gli sembrava la decisione più ovvia per non destare scandalo, conservare la famiglia e far riassorbire naturalmente quella piccola follia.

Le due donne furono però maestre e non porsero mai il fianco a una vera replica. Coprirono di velato riservo la loro passione e mascherarono di giocosa civetteria l'abbandono dell'uomo. “Secondo me – gli diceva Mirta – neppure tu sei del tutto diritto, Claudio. Mai, neppure per un momento, ho avuto il timore che mi potessi tradire con un'altra donna. Non le guardavi mai”. Convinte che un poco di follia fosse più utile alla causa che un gelido realismo, le donne si divertirono ad andare oltre e dal loro primo viaggio insieme riportarono un filmino porno con uomini di tutte le età. Lo diedero a Claudio, con tono adolescenziale, ma con tenacia da adulte. Fu così che guardarono assieme il film e lui, come molti di fronte a chi il peccato l'ha già commesso, si lasciò alla confidenza e si disse attratto dall'uomo canuto, dal più maturo.

Fedele a quelle sembianze, non più di tre mesi dopo, l'infermiere capo del reparto di radiologia seguì Claudio a cena con le due donne. Tutti liberi dai bimbi, lasciati a casa coi nonni, tra i quattro ci fu subito molta naturalezza, anche se gli uomini, specie il più anziano, sobrio e ricercato nei gusti, spinse la propria coppia ad assumere il ruolo dei “riservati”. Non cedeva mai troppo spazio alla vita comune con le donne e si riservava sempre qualche tempo prima di accettare le proposte che Michela e Francesca a ogni occasione lanciavano invece entusiaste.

Fu così anche per Lisbona. “Devo capire quando – disse l'infermiere –. Claudio non ha problemi il mese prossimo, ma io devo verificare i turni al lavoro: ho due donne appena assentatesi per maternità e, col personale di sala, copriamo appena i servizi specialistici”.

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Ascoltato quel breve racconto tra i fumi della propria pizza tra amici, il pittore di mezza età tornò a casa, si diresse verso lo studiolo e con delicatezza quasi religiosa riprese in mano il pennello che giaceva sul treppiede da oltre sette anni. Dopo tutto quel tempo a rifiutare di dare forma ai propri demoni nascosti, disegnò di nuovo sul foglio impolverato ancora steso lì dall'ultimo tentativo. Tracciò senza colore veloci linee solide che guardavano diritto verso la realtà: mentre lui non l'ascoltava, lei si era mossa sensuale, fluttuante, senza spiegazioni né fini.